N.01
Gennaio/Febbraio 2011
Studi /

La forza della passione educativa

“Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio” (Dt 32,10): così il Deuteronomio descrive la passione che Dio ha per il suo popolo, la paternità che Dio stesso vive nei confronti dell’uomo. Questo mio intervento vuol essere una semplice testimonianza della passione educativa che Dio ha avuto nei miei confronti, dentro la quale mi ha coinvolto e a cui sto cercando di partecipare nei confronti dei ragazzi e dei giovani a me affidati. Nient’altro è infatti posso fare se non “prendere parte” a quel gesto meraviglioso ed insieme provocante di Gesù che per amore si toglie la veste, si cinge di un asciugamano e lava i piedi ai suoi apostoli. Così chiede loro prima di tutto così di aver parte con lui. È Dio che educa i cuori e l’educazione è questione di cuore e non semplicemente di regole. Spesso mi sento ripetere dal mio vescovo, il Cardinal Patriarca Angelo Scola, come la testimonianza cristiana sia prima di tutto lasciarsi coinvolgere, lasciarsi cambiare, lasciarsi educare da Dio. La fede è infatti prima di tutto appartenenza ad una persona il cui incontro ha dato un nuovo orizzonte alla mia vita. In un viaggio con il Seminario in Brasile ho partecipato ad un pellegrinaggio della diocesi di Castanhal dal tema: “Conquistati da Cristo, i giovani in missione…”. Nulla di più bello si possa dire di noi educatori cristiani: conquistati da Cristo! Com’è importante ritrovarsi, soprattutto nei momenti di scoramento, dentro questa appartenenza al Signore. Lo stesso S. Giovanni nell’Apocalisse richiama una chiesa a ritornare al “primo amore” che ha conquistato la nostra vita. Penso che la passione educativa non possa che nascere da qui: una bella notizia che ha conquistato il cuore e che ho bisogno di comunicare a chi amo.

I miei ultimi anni di ministero sono stati molto forti per me. Nel febbraio 2002, da Vicario cooperatore in una parrocchia di Mestre, il Patriarca Marco Cè lasciando la diocesi mi affidava al nuovo vescovo come segretario particolare. Un mondo che cambiava: dalla parrocchia ad una scrivania. Ma il nuovo Patriarca, come suo cerimoniere, mi chiese di curare anche i chierichetti della diocesi. Durante il loro campo scuola, chiamato Corso di Orientamento Vocazionale, ho provato a chiedere quanti avessero nel cuore l’intenzione di diventare preti. Durante una gita in montagna chi aveva nel cuore questa intenzione doveva raccogliere un sasso e portarlo segretamente davanti all’altare della chiesa nella casa del seminario montana di cui eravamo ospiti. Al ritorno andai più volte a vedere, ma non vidi nulla: alla sera con gli animatori, accese le luci della chiesa per pregare la Compieta, abbiamo visto una quarantina di sassi davanti l’altare. Da qui nacque la richiesta da parte del Patriarca di riaprire il seminario minore in una forma nuova. Insieme al seminario minore il Patriarca mi affidava anche la cura educativa dei ragazzi della scuola diocesana appena aperta (medie e Liceo) intitolata a Giovanni Paolo I attraverso l’insegnamento della religione e le varie proposte a latere per creare una comunità studentesca.  Ora mi dedico quasi totalmente a questo.

Alla mia prima partecipazione al convegno vocazionale nazionale mi sono stupito dei toni spesso consolatori e incoraggianti. Passando il tempo capisco perché. In questi anni di lavoro nel campo dell’educazione rivolto ai ragazzi delle classi medie e superiori del Seminario minore di Venezia e della scuola diocesana “Giovanni Paolo I” nei locali del Seminario stesso, mi convinco sempre di più che il compito dell’educatore, che la paternità è uno dei compiti più appassionanti ed insieme poco gratificanti che esistano. È facile condurre avanti un’azienda, è relativamente facile far quadrare i bilanci, ma quanto è difficile il rapporto educativo! Gli stessi genitori ne fanno quotidiana esperienza: curano con amorevolezza i figli, li nutrono, li vestono, non dormono la notte e questi hanno sempre qualcosa da rimproverare, hanno sempre da dire che in quel modo o nell’altro non li hai aiutati. Solo dopo molti anni riconoscono l’opera dei genitori. Questo non dipende dalla vera qualità del lavoro o dalla santità con cui lo si svolge (chiedetelo a Santa Monica), ma fa parte di quello che si chiama il rischio educativo. Spesso il Padre Spirituale del nostro Seminario mi richiama ad un principio fondamentale: i ragazzi non vanno seguiti, ma guidati. Gli scarsi risultati immediati che spesso si vedono maggiori piuttosto che gli esisti positivi a lunga durata e la fatica nell’educare porta spesso i genitori e talvolta persino noi educatori consacrati allo scoraggiamento e alla ricerca di metodi che sono più rivolti alla nostra serenità che al bene dei ragazzi. Ed ecco come molti adulti sono talmente impauriti da non essere più guide degli adolescenti e dei giovani che vagano per il mondo “come pecore senza pastore”.

In un clima generale in cui tutto è permesso e chi dice dei ‘no’ non è aperto alla vita e al mondo, dove i nostri ragazzi sono educati ad una falsità latente dagli stessi adulti che insegnano loro a “fregare” il prossimo senza farsi nessun problema perché “il mondo è dei furbi”, occorre oggi mostrare loro la convenienza della proposta che Gesù fa alla loro vita più con l’autorevolezza che con l’autorità. “Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Fa dunque loro subito un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù”: così la Vergine Maria parla al piccolo Giovanni Bosco nel sogno che guiderà tutta la sua vocazione e la sua passione educativa.

Nel nostro piccolo tentativo di riaprire il Seminario Minore di Venezia in una forma nuova che non prevede la convivenza stabile dei ragazzi ma un accompagnamento con un incontro mensile di gruppo e la direzione spirituale personale insieme ad alcune settimane di vita insieme durante l’anno, si chiede prima di tutto all’educatore una disponibilità alla larghezza, a saper sempre ricominciare con loro e per loro. Non avendoli stabilmente in seminario ogni incontro è quasi una scommessa: le telefonate ai ragazzi delle superiori sono spesso una lotta per far capir loro l’importanza dell’incontro rispetto a tutto il resto. I ragazzi esigono dall’educatore una disponibilità sempre maggiore di orari, di pazienza, di attenzione all’ascolto della situazione in cui si trovano. Esigono di essere presi sul serio anche nelle cose che a noi sembrano “fuori luogo”. In fondo il ragazzo vuole sentire che l’amato è lui e non quello che fa o dice. In un mondo in cui l’adulto non ha più tempo per loro, in cui gli interventi disciplinari sono fatti più per la serenità del genitore, i ragazzi hanno sempre più bisogno di spazi in cui poter manifestare se stessi ed essere anche ripresi e guidati. Ma per tutto questo ci vuole passione e questa chiede a mio parere due disponibilità.

La prima è quella del voler davvero loro bene. Occorre poi fare attenzione, mi richiama sempre il Padre Spirituale, alla differenza tra voler bene e voler il bene. Sembra evidente e logico: ma nei nostri seminari stiamo educando a far coincidere la sfera affettiva con la missione che la Chiesa affida? La moltiplicazione delle appartenenze alle realtà ecclesiali, alle amicizie che in esse si formano, agli spazi che un consacrato si riserva “per sé”, qualche volta possono correre il rischio di far diventare la nostra vocazione un mestiere, soprattutto quando lo spazio affettivo del mio cuore è riempito altrove. Per amare Gesù occorre amare l’uomo: non c’è altra strada. Qualche seminarista rischia di innamorarsi più del tabernacolo in pietra, o delle vesti liturgiche, o del senso del sacro o dei propri studi teologici e biblici piuttosto che delle persone cui questi strumenti sono dati da Dio quale modalità con cui portarle a Lui. L’amore per Gesù della persona consacrata, non diversamente dall’amore dello sposo e della sposa, della madre e del padre di famiglia, non può compiersi se non nell’amore verso le persone attraverso cui tale vocazione si incarna. Nella mia vita sacerdotale, grazie agli educatori che ho avuto nella mia formazione, non riesco a disgiungere il mio amore per il Signore dall’effettivo e affettivo amore per i miei superiori e per coloro che essi mi affidano. Anche all’inizio di un incontro o di un’omelia è necessario alzare gli occhi e guardare chi si ha davanti: quella è la prima “parola di Dio” che mi è affidata, il destinatario dell’annuncio.

La seconda disponibilità la colgo dal significato etimologico della parola “passione” dal verbo “patire”. Per vivere tale forma di unità affettiva, di cuore indiviso come la tradizione cristiana lo ha sempre chiamato, occorre essere disposti a soffrire. Questo punto è dolente! Siamo sempre meno disposti a soffrire per amare: anzi, quando l’amore ci chiede qualche fatica, subito ci ingegniamo a cercare il modo di evitarla.  Mi ha guidato molto nella meditazione la riflessione che l’ultima parte dell’anno liturgico propone circa la fine dei tempi: la Parola di Dio prevede la fine non attraverso il trionfo della Chiesa e della verità in modo schiacciante contro i suoi nemici, ma Gesù prospetta a sé e ai discepoli persino l’umiliazione agli occhi del mondo, momenti tragici di rifiuto anche da parte dei cari, l’arrivo di un Cristo alternativo che si proporrà come risoluzione della domanda profonda di felicità di ogni uomo non nella ricerca del dono di sé ma della realizzazione di se stessi (quello che viene chiamato anti-cristo perché la sua proposta è esattamente contraria a quella di Gesù). Gesù ci disse: “Molti verranno nel mio nome…non seguiteli!”. La Chiesa sarà testimone di Dio se persevererà nell’amore del Padre verso ogni uomo che la odia, offrendo la sua vita per amore esattamente come ha fatto Gesù, come ha fatto Stefano e come in questi Duemila anni hanno fatto tanti nostri fratelli e sorelle. E allora perché ci scandalizziamo delle fatiche che facciamo nel portare ogni giorno la croce dell’incomprensione? Come può emergere la passione che hai verso i ragazzi o le ragazze che ti sono affidate se non vedono che sei disposto a dare la vita per loro?

Da qui si vede come un educatore è tale solo quando si lascia educare da Dio, si lascia progressivamente spogliare di tutto ciò che è “suo” per farlo diventare “Suo”. Il Patriarca Angelo Scola ai giovani continua a ripetere che non possiamo capire “chi siamo” se non rispondiamo alla domanda “Di chi siamo?”. Ma la risposta a questa domanda deve essere chiara anche a chi educa: io di chi sono? So appartenere al Signore? Se noi per primi ci facciamo questa domanda impareremo a porla anche agli altri educatori, anche ai genitori dei nostri ragazzi.  Tante volte mi trovo a dialogare con genitori i cui figli hanno nel cuore l’idea di consacrarsi a Dio: è meraviglioso quando si riesce a scalzare l’idea che questo sia ‘un problema’ per farla diventare un’opportunità che Dio dà loro per rispondere alle domande e alle ansie che portano nel cuore in un rapporto vivo con il Signore che mi ricorda che sono Suo e che i figli che mi ha dato sono Suoi. La vocazione del figlio diventa la causa della salvezza per i genitori.

È proprio vero ciò che il Papa Giovanni Paolo II richiamava : per essere Padri occorre prima di tutto essere figli.  Un tema che anche il Cardinale Scola ha ripreso nella sua prima omelia come Patriarca di Venezia nella notte di Natale 2002:

 

Come il bambino, che non teme di appartenere, di avere la sua origine in un Altro, che vive il suo essere generato. L’uomo è libero quando si percepisce come figlio. E questa notte «Ci è stato dato un figlio» (Is 9,5).  Più che mai nella nostra società, sazia ma smarrita, questo è il bisogno primario. Più che mai occorrono uomini veri, non uomini vuoti, come recita la celebre poesia di Eliot: «Siamo gli uomini vuoti. Siamo gli uomini impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia» (T.S. Eliot, Gli uomini vuoti I, 2). Ma per essere veramente persone, cioè capaci di identità e di relazione, bisogna aver coscienza di essere generati, di appartenere a qualcuno. Ad un padre, ad una madre! Chi sono?  I nostri pro-creatori, cioè, come dice la parola, coloro che ci hanno generato in Colui che sta oltre. Non si diventa uomini riusciti se non si è figli. Per questo in un famoso passaggio del vangelo Gesù ci ammonisce: “Se non diventerete come bambini, non entrerete mai nella pienezza (Regno dei cieli). Eppure noi, lo sappiamo bene, soprattutto noi adulti, non riusciamo a durare nella trasparenza dell’innocenza. Il gioco drammatico della libertà, nell’impatto con la realtà di tutti i giorni, fatta di affetti e di lavoro, si scontra con la fragilità del nostro limite, aggravato dalla ferita del peccato. Così la nostra libertà separa la meraviglia dalla serietà. Diventiamo “uomini impagliati”. Certo, siamo attratti dalla verità che è giustizia. Cerchiamo il bene-essere personale e sociale, ma, da una parte, lo inseguiamo per sorprenderlo in mille forme separate di bellezza e, dall’altra, ci buttiamo a capofitto per conquistarlo in un impegno febbrile. Amiamo, certo, ma divisi in noi stessi, il bene-essere ci sfugge come un miraggio che, proprio quando stiamo per raggiungerlo, pare dissolversi in una esistenza deserta. Così i giovani non sanno più di essere figli perché noi, gli adulti, non sappiamo irradiare paternità.

 

Alcuni mesi fa, la nostra diocesi ha avuto la gioia di avere in una sua parrocchia il corpo di Santa Maria Goretti, una ragazzina dodicenne che si è lasciata uccidere pur di non dispiacere al Signore ed ha poi perdonato il suo uccisore chiedendo persino a Dio di averlo vicino in paradiso. Una bambina di dodici anni ha superato di gran lunga le discussioni di noi adulti con la sua semplicità e la sua innocenza. Per l’occasione abbiamo organizzato in diocesi un incontro con i chierichetti che hanno risposto in gran numero. Guardando a questi ragazzi in tunica bianca che riempivano la chiesa seguiti da tanti loro educatori e genitori mi è venuto spontaneo – soprattutto in un periodo in cui spesso si parlava di ministri che avevano abusato di bambini – chiedere loro scusa per il modo in cui noi adulti stiamo pensando a loro. Spesso non portiamo nel cuore una vera responsabilità verso i nostri bambini. Può capitare che talvolta le nostre attese deluse diventino motivo per tarpare le ali della speranza dei nostri bambini cui non insegniamo più a sognare “in grande”. Ultimamente il Patriarca cita spesso un brano di F. Nietzsche, il filosofo che ha annunciato la morte di Dio ma anche sa che la Sua presenza nell’uomo non può scomparire. In un suo testo (Così parlò Zaratustra) scrive: «Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: salva restando la salute. ‘Noi abbiamo inventato la felicità’ – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neppure mete effimere. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito che ora striscia per terra… Ma, ti scongiuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». Spetta a noi adulti , alla nostra paternità nei loro confronti mantenere sacra ed elevata la loro speranza. Spetta a noi prenderli sul serio. Un ragazzo dei primi anni delle superiori mi ha stupito. Durante una settimana di vita in seminario, alla sera mi capitava di andarli a salutare nel dormitorio prima di spegnere la luce, così nascevano, inizialmente in tono un po’ scanzonato, alcune domande cui cercavo di capire quale fosse l’interesse che ci stava sotto e davo una risposta. Ad un certo punto mi ha detto: “Lei è diverso da tutti gli altri adulti perché ci prende sul serio”. Ripensandoci, queste occasioni di stare con loro senza la “serietà” di un incontro organizzato e preparato nei minimi particolari con segni e testi che li facciano riflettere, ma dettate dalla voglia di condividere o semplicemente di ascoltarli, diventano momenti molto preziosi. I nostri ragazzi sono continuamente attaccati nelle loro scuole, sia dagli insegnanti che dai loro compagni. Occorre avere molto tempo per fermarsi ad ascoltarli e aiutarli a discernere ciò che è detto loro come provocazione e ciò che devono cogliere come ricchezza per dialogare. Noi adulti spesso non sappiamo cogliere le loro domande. Una ragazza che durante un incontro con il Patriarca, in occasione della sua visita al liceo della Giovanni Paolo I, davanti a tutti i suoi compagni chiedeva la posizione della chiesa sui contraccettivi in Africa. Il Patriarca, prima di rispondere, le chiedeva: “Tu dove sei di fronte a questa domanda? Me lo chiedi semplicemente per provocarmi oppure ci sta dentro un’inquietudine per la tua vita?”.  Ecco l’educatore: colui che è attento non tanto a ciò che emerge, ma a ciò che sta dentro il cuore. “Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore e Dio solo ne ha la chiave” soleva dire S. Giovanni Bosco. Il cuore del padre è quello capace di incontrare il cuore del figlio e a educarlo nel senso etimologico del termine: condurlo fuori, farlo crescere. C’è un libro che mi ha particolarmente aiutato nel mio rapporto educativo con i ragazzi: Claudio Risé, “Il padre: l’assente inaccettabile”. La dedica di questo psicoanalista nella prima pagina diceva: Ai miei figli, a tutti coloro cui mi è stato dato di essere padre, e soprattutto, col rimpianto che solo la speranza nel Padre può colmare, a coloro cui non ho potuto, o saputo, esserlo. Questo libro parla di una nostalgia profonda di paternità nel cuore di tanti ragazzi che spesso la ricercano in noi sacerdoti: cercano padri che sappiano guardarli a lungo prima di parlare, che sappiano esprimere con coraggio ciò che sono, senza paura. Purtroppo l’autore documenta l’assenza di questa figura di padre “perché di solito non ha avuto, a sua volta, un padre che gli insegnasse ad essere tale. Poi perché, comunque, la società secolarizzata del divorzio facile, e dell’aborto praticabile senza neppure interpellare il padre, non gli lascia grandi spazi di esprimersi…un padre che viene caldamente pregato di tacere sui sentimenti… parli pure di soldi, organizzi sen’altro un buon livello di vita per la famiglia, ma quanto al resto, per cortesia, taccia” (p. 8-9) Il padre ha il compito di essere un segno che “insegna, testimonia, che la vita non è solo appagamento, conferma, rassicurazione, ma anche perdita, mancanza, fatica” (p. 12).  Il padre è chiamato a far presente al figlio che per aprirsi alla vita è necessaria la ferita della separazione dalla madre. Ma questa ferita non è andare verso il nulla, ma l’aprirsi all’amore di un altro da sé che comunque è capace di una comunione. Questa però chiede la fatica di essere desiderata, voluta, costruita. Non si può parlare di vocazione, certo, senza parlare di desiderio. Ma quanto è più importante oggi chiamare i nostri ragazzi anche alla volontà e alla fatica del lavoro.

Spesso mi capita di incontrare ragazzi e ragazze conosciuti in parrocchia che si sono fidanzati ma, considerata la lunghezza degli anni di fidanzamento, vanno oggi incontro alla “crisi” non appena passa il tempo dell’innamoramento. Allora, nei casi migliori, vengono in lacrime perché non capiscono più che cosa provano. Allora è necessario richiamare come quando è finito il tempo del desiderio comincia il tempo della scelta: ti amo non perché ho bisogno di te ma perché scelgo di amarti. L’amore è una scelta di vita e non solo un sentimento.

Invece, ad un giovane tutto contento perché ha deciso di entrare in seminario e il giorno dopo telefona allarmato perché una ragazza si è dichiarata per lui e chiede che cosa deve fare, ho risposto di leggere dentro il suo cuore se questa nuova prospettiva era capace di “buttare per aria” la sua scelta per Gesù. È facile infatti scegliere quando c’è solo una sola possibilità senza alcuna rinuncia, ma la vita ad un certo punto chiede la fedeltà che è compimento dell’io. Quel giovane ora è serenamente in seminario. Ma solo una prospettiva paterna può aiutare un giovane ad andare oltre alla custodia di sé, tipica figura della madre. Sempre di più emerge la tentazione da parte di noi adulti di preservare dalla sofferenza, ma sempre di più la vita dimostra che è necessaria questa strada per compiere se stessi. Chiedere ai giovani di soffrire non è sbagliato. La disponibilità a lasciarsi incidere dal Signore (come il frutto del sicomoro che diventa buono solo se lo si incide e si fa uscire il fiele), di lasciarsi convertire noi per primi è la strada per essere veri educatori. Questo però è possibile se il mio criterio di riferimento non sono io, i miei desideri, le mie aspettative o quelle del vescovo, ma la persona del Signore. Quando San Bernardo voleva fuggire dal convento, lo riportava indietro la domanda del Signore: “Ad quid venisti, Bernarde?” – Perché sei qui? O meglio: Per Chi sei qui?

Spesso mi ripeto questa domanda insieme ai ragazzi con cui mi incontro e vedo che sempre di più fa verità in me e in loro. La paternità che dobbiamo indicare e vivere insieme ai nostri fratelli sposati, la paternità stessa di Dio cui siamo chiamati a partecipare, non è priva di momenti drammatici e di rifiuti da parte dell’amato.  Spesso la Sacra Scrittura narra momenti in cui  Dio stesso è rifiutato e soffre per questa ingratitudine dei suoi figli, ma la strada che intraprende per recuperare il rapporto di amore non è il risentimento o la giustizia, non la punizione o la legge, ma è il dono gratuito e totale di sé. L’unica strada che educa il cuore dell’amato perché gli fa trovare una casa dove ritornare. Scriveva Giovanni Paolo II: «Dove Tu non sei, vi è solo gente senza casa» (K. Wojtyla, Spazio interiore, 5). E il Patriarca Angelo Scola concludeva nella già citata omelia di Natale: In questo Figlio benedetto la misericordia del Padre ci rende figli. E quindi capaci di generare, di essere padri.