N.01
Gennaio/Febbraio 2011
Studi /

Tra idolatria e appartenenza: la crisi del popolo dell’alleanza

Introduzione

 

La categoria biblica che caratterizza l’identità e la storia del «popolo eletto», particolarmente elaborata nella riflessione deuteronomistica, è l’«appartenenza». Essa è resa con diversi verbi e formule (proprietà, eredità, elezione, possesso, comunione, partecipazione, alleanza, ) e viene declinata nei libri biblici mediante un ricco linguaggio simbolico e una serie di racconti che traducono il senso religioso dell’appartenenza[1].

Considerando il quadro unitario dell’Antico Testamento si può affermare che la «coscienza di appartenere» a Dio da parte del popolo di Israele rappresenta uno dei «segni indicatori» della sua maturità spirituale. In un certo senso la storia di Israele, sia dei singoli personaggi che dell’intera comunità, è rappresentata dalla dialettica dell’appartenenza che si esplica nel contrasto tra peccato e conversione, idolatria e fedeltà, crisi di fede e “ritorno” a Jhwh. Dopo aver puntualizzato la ricchezza espressiva dei contenuti semantici, focalizziamo alcune importanti tappe che contrassegnano le «crisi di appartenenza» del popolo dell’alleanza, per cogliere la «dialettica educativa» che emerge dall’esperienza religiosa di Israele e dalla sua vicenda spirituale[2].

 

  1. Le contenuto semantico: partecipazione, eredità, possesso

 

Appartenere significa «avere/sentirsi parte» di qualcosa e di qualcuno. Sul piano fenomenologico l’appartenenza indica una triplice relazione: in rapporto alle cose (l’idea di possedere); in rapporto alle persone (l’idea di partecipare, di comunicare, di trovare affetto, amicizia, solidarietà, comunione); in rapporto alla sfera dell’interiorità spirituale (entrare in comunione con il mistero divino, partecipare alla sua vita, sentirsi coinvolti nel suo progetto di salvezza). Si individuano tre principali significati biblici, che sono variamente impiegati per esprimere l’idea di appartenenza:

 

1.1 Appartenenza come partecipazione

 

Una prima accezione dell’appartenza indica il senso di avere/vivere la partecipazione (in greco: metechein, un composto del verbo echein = avere)[3]. Il verbo esprime il legame di reciprocità che va ben oltre i confini di una semplice coesistenza umana. Esso indica una somma di relazioni e di atteggiamenti che nascono da un medesimo fondamento, si compiono secondo un progetto condiviso ed evidenziano uno stile comune di vita. Con il verbo metechein (da cui il termine: metochē = partecipazione, unione) si intende un singolo uomo o un gruppo che ha o partecipa al possesso di un bene. In stretta correlazione con metochē (2Cor 6,14) si trova il termine koinōnia, che evoca la realtà della comunione in se stessa, più che la partecipazione al un singolo bene. Così l’aggettivo metochos indica il compagno[4], colui che partecipa attivamente all’azione comune, mentre koinōnos rileva maggiormente il risultato finale di questa partecipazione, che è il dono di se stesso per l’altro. L’impiego anticotestamentario del verbo metechein è minimo e traduce l’ebraico khābar (cf. Sal 121,3; Os 4,17; Pr 9,10). Nel Nuovo Testamento si hanno complessivamente otto presenze, cinque in 1Cor (1Cor 9,10.12; 10,17. 21.30; Eb 2,14; 5,13; 7,13) con il senso prevalente del «prendere parte» all’azione comune, vivere la solidarietà[5].

 

1.2 Appartenenza come eredità

 

Un secondo aspetto è tratto dal diritto domestico di avere parte nell’eredità: il verbo klēroō e il gruppo terminologico ad esso conseguente (klēros, kleronomeō, klerōnomia, sygklēronomos)[6] e in subordine il termine meros, che designa la parte di un tutto (cf. Gn 47,24; 1Sam 3,14; 2Mac 15,20; Lc 11,36; 15,12; Gv 19,23). Il concetto di appartenenza nel senso ereditario comporta due accezioni fondamentali: l’una orientata al passato, in quanto designa la parte che è già toccata a qualcuno; l’altra orientata al futuro, in quanto sottolinea formalmente la certezza giuridica di ottenere quello che è stato promesso[7]. Di particolare importanza per la nostra analisi è la connessione tra la tematica dell’appartenenza e l’eredità della «terra promessa»[8]. L’idea centrale è che la terra è la porzione dell’eredità di Jhwh, in cui egli abita e dove vuole essere adorato (cf. 1Sam 26,19; Ger 1,7; Ez 38,16; Sal 68,10; 79,1). La consapevolezza dell’appartenenza di Israele a Jhwh è collegata all’eredità che Dio affida al suo popolo, donandogli una terra, dopo averlo condotto fuori dalla schiavitù dell’Egitto (cf. Dt 23,8s.; 1Re 8,51.53). Per tale ragione nell’Antico Testamento si dice che non solo la terra, ma anche Israele è eredità di Jhwh, è sua «proprietà peculiare» (segullāh: Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18)[9].

Tra i termini che vengono messi più in rilievo, vanno evidenziati la sorte (gōrāl), l’idea del possedere (jārash) e il possedimento promesso da Jhwh (nahalāh = kleronomia)[10]. Nel Nuovo Testamento è insistente l’idea dell’appartenenza collegata alla promessa di Dio e più in generale alla visione teologica della storia, culminata nella persona/missione di Cristo. In quest’ultimo impiego appare interessante notare come l’appartenenza (nel senso dell’eredità) sia collegata all’idea di «vocazione» e di «sequela». In questa prospettiva i credenti vivono l’appartenenza a partire dalla «sorte» della vocazione alla sequela, al discepolato, che rappresenta un «prendere parte» al ministero della Parola e allo stesso destino di Cristo crocifisso e risorto (cf. 1Cor 15,50).

 

1.3 Appartenenza come possesso

 

Un ultimo aspetto è rappresentanto dall’uso del verbo «acquistare», avere in proprietà (peripoieomai), da cui di termine periousios e peripoiēsis che significano acquisto, proprietà, guadagno[11]. Nelle poche attestazioni anticotestamentarie periousios traduce anche l’espressione ebraica già precedentemente indicata di segullāh, che sta ad indicare l’appartenenza del popolo a Jhwh stesso e per tale ragione, il popolo eletto è una comunità privilegiata, è «proprietà stessa di Dio»[12]. Per indicare la comunione profonda con i suoi discepoli (e coloro che crederanno alla Parola) troviamo l’espressione giovannea «ta idia» (= i suoi, cf. Gv 1,11; 19,30), che indica letteralmente «ciò che è proprio».

Riassumendo il quadro terminologico, possiamo constatare come l’idea di appartenenza è posta in una circolarità (coralità) di relazioni diverse, che interseca varie tematiche teologiche e molteplici ambiti. La rilevanza del tema non va colta solo nell’impiego terminologico, bensì nella riflessione teologica. Sia Israele che la comunità cristiana vengono collegati con la categoria di «appartenenza»: nell’Antico Testamento il centro del messaggio è costituito dalla confessione della fede basata sull’elezione. La traduzione della «teologia dell’elezione» è proposta nella prospettiva neotestamentaria sia nel contesto della letteratura sinottica che in quella paolina. In definitiva la relazione di appartenenza, per la quale il singolo credente e la comunità intera si sentono «dentro» una storia di salvezza e scoprono la loro precisa identità, nasce dall’iniziativa gratuita di Dio di rendere partecipe l’uomo della sua eredità, mediante l’elezione e la chiamata al discepolato. Le indicazioni emerse confermano come il processo di maturazione del popolo eletto è radicato nella «dinamica dell’appartenenza». Di conseguenza il peccato di idolatria porta alla crisi di identità come conseguenza del «rifiuto dell’appartenenza» di Israele nei riguardi di Jhwh.

 

  1. Il messaggio teologico: elezione e discepolato

 

Proposiamo di rileggere la categoria di appartenenza nell’Antico e nel Nuovo Testamento attraverso due temi costitutivi dell’esperienza biblica: l’elezione del popolo nell’Antico Testamento e la dinamica del discepolato nel Nuovo Testamento[13].

 

2.1 L’elezione del popolo nell’Antico Testamento

 

Con il verbo BHr (= eleggere; in greco: eklegomai) viene indicata la categoria dell’elezione nell’Antico Testamento[14]; in essa «è racchiusa tutta la storia della salvezza sin da prima che fosse storia»[15]. L’esperienza dell’elezione e della conseguente «appartenenza a qualcuno» segnano l’orizzonte teologico del destino del popolo, che è diverso da quello di tutti gli altri popoli. Si tratta di una condizione particolare a cui Israele è chiamato, non per una cieca convergenza di circostanze umane ma per una gratuita, inattesa e sovrana iniziativa di Dio. Per spontanea e libera decisione Jhwh ha deciso di eleggere Israele come «suo popolo» e dall’atto di elezione l’esistenza del piccolo gruppo semita diventa inseparabile dal suo destino unico e messianico. L’appartenenza dunque nasce da una scelta misteriosa di Jhwh: egli ha fatto il primo passo, prendendo l’iniziativa. La memoria di questa appartenenza viene espressa attraverso la preghiera e la fede al progetto salvifico di Dio che si tematizza nella costituzione dell’alleanza (berit). Questa scelta divina si ritrova nelle antiche professioni di fede, di cui il credo antichissimo di Dt 6,4-9; 26,1-11 ne è testimonianza.

La storia della liberazione è interpretata come iniziativa divina, che fa «uscire» ed «entrare» perché ha stabilità con il popolo la sua alleanza, a cui egli rimane fedele. Alla stessa iniziativa di Dio si collega la memoria di Giosuè in Gs 24, che ricorda come il percorso della liberazione della promessa della terra è compiuto da Jhwh, il quale ha scelto Israele in modo unico. In tal modo Giosuè domanda al popolo riunito a Sichem: «scegliete chi volete servire» (Gs 24,14). Scegliere, una volta entrati nella terra di Canaan, «colui che ci ha già scelti». Il popolo confermerà la propria fedeltà a Jhwh.

Per comprendere la valenza di questa categoria è fondamentale ricordare la formula dell’elezione al Sinai, dove Mosè dice a Dio: «farai di noi la tua eredità» (Es 34,9). Dio si è scelto questo popolo tra tutti i popoli (Es 19,5) e questa affermazione elettiva si ripete come una costante in Nm 23,8s.; Gdc 5,3.5.11 e nella letteratura successiva. L’elezione è un «fatto continuo» e fa crescere l’idea dell’appartenenza per un «disegno straordinario di Dio», anche di fronte alle contraddizioni e alle cadute sperimentate dal popolo. Il tema dell’elezione e dell’appartenenza di Israele a Jhwh è preparato da singole elezioni precedenti all’esodo e all’alleanza e sviluppato attraverso la scelta di nuovi «eletti»[16]. L’elezione di Israele e la sua assimilazione al progetto salvifico di Dio diventano il fulcro dell’intera esperienza di Israele, impastata di continu crisi e ripensamenti. Sia nella letteratura storica, sia nella predicazione profetica che nella riflessione sapienziale si ripete questo concetto fondamentale: Jhwh ti ha scelto, tu gli appartieni, tu sei diventato sua proprietà perché egli ti ha amato al di sopra di tutti gli altri popoli[17].

 

2.2 Il dono della terra

 

Un ulteriore aspetto dell’elezione e dell’appartenenza, che sarà rilevante per la rielaborazione teologica neotestamentaria è il «dono della terra». Il popolo eletto è chiamato a vivere nella terra promessa che gli appartiene. Più volte nel Salterio si ricorda che Dio ha destinato la terra a Israele perché è il popolo che gli appartiene: il monte Sion (Sal 78,68), scelto a sua dimora (Sal 68,17; 132,13), il tempio di Gerusalemme (Dt 12,5; 16,7-16). Partecipando al culto nel tempio l’elezione stessa diventa «motivo e veicolo» della benedizione e della protezione divina nella vita quotidiana dell’israelita. La teologia dell’elezione è sviluppata in modo particolare nella visione deuteronomistica. In particolare nel secondo discorso di Mosè (Dt 5-29), che costituisce il cuore della teologia deuteronomistica, Dio si rivolge ad Israele come ad un bahûr, «eletto». Si legge in Dt 7,6-8:

 

«Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto».

 

La grandezza di Israele non è la causa, bensì è l’effetto dell’elezione, la quale non ha altra fonte che l’amore grazioso di Dio. Così Israele è tenuto a custodire e a vivere il proprio carattere specifico derivatagli dall’essere «eletto». Questo carattere è detto attraverso due formule: «essere il popolo consacrato a Dio» (o «santo»: Es 19,6) e «essere il popolo suo», cioè scelto da Jhwh in modo unico e speciale, rispetto ad ogni altro popolo (Sal 135,4)[18]. Nelo sviluppo narrativo e simbolico del racconto biblico emerge la dimensione educatrice dell’opera di Dio. In prima persona Jhwh è presentato come colui che educa e guida i figli di Israele. Suggestiva è la presentazione di Jhwh come «protettore e liberatore di Israele» che conduce il suo popolo dalla schiavitù del’esilio ad una nuova condizione di libertà. Leggiamo in Is 43,1-5:

 

«Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore. Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo, do uomini al tuo posto e nazioni in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; dall’oriente farò venire la tua stirpe, dall’occidente io ti radunerò”».

 

Dopo la grande crisi esilica, nel periodo della ricostruzione si annuncia la «nuova elezione», secondo la quale Jhwh ricostruirà di nuovo il tempio e risceglierà Israele come popolo che egli ama in modo unico ed esclusivo (Zac 1,17; 2,16). In questo orizzonte teologico si colloca la figura del «servo sofferente di Jhwh». Essa riassume la teologia dell’elezione in un modo nuovo: il servo non è re, né sacerdote, né profeta, bensì un personaggio misterioso, anonimo, la cui vocazione diventa il segno di un’appartenenza sua propria che consentirà la realizzazione del progetto salvifico di Jhwh. In tal modo nell’esistenza oblativa del misterioso personaggio isaiano si connette sia il tema dell’elezione che quello della vocazione-missione. In definitiva il significato dell’elezione, costruito intorno alla radice ebraica BHr,  ha come origine l’iniziativa di Dio per amore del suo popolo; ha come scopo quello di costituire un popolo santo, consacrato a Dio, «superiore a tutte le altre nazioni per onore, rinomanza e gloria» (Dt 26,19) e come risultato, la funzione messianica che Israele assume e che lo separa dal destino delle altre nazioni[19].

 

  1. La dinamica del «discepolato» nel Nuovo Testamento

 

3.1  L’esperienza della vocazione

 

Proseguendo l’analisi del tema dell’elezione si osserva  come l’appartenenza a Dio e a Cristo sia collegata strettamente con l’elezione/vocazione dei credenti. Dopo aver presentato l’apparizione di Cristo nel mondo come una «elezione» da parte del Padre, Gesù manifesta la sua opera di salvezza mediante la «dinamica al discepolato». Se l’elezione costituisce l’iniziativa di Dio verso l’uomo, la chiamata al discepolato rappresenta il prolungamento di tale elezione in vista dell’annuncio del Regno. L’appartenenza è il segno di una relazione profonda nella quale Dio elegge e chiama per un progetto misterioso di liberazione. Nell’atto di eleggere i suoi discepoli, gli evangelisti descrivono i momenti che precedono l’elezione: la preghiera intensa e solitaria sul monte (cf. Lc 6,12). Secondo la prospettiva teologica l’elezione dei Dodici va interpretata nella linea della continuità con il progetto di Dio già attuato nella prima alleanza in vita del «nuovo popolo eletto», per cui si rievocano le «dodici tribù» di Israele[20]. Come per il popolo della promessa, anche per la Chiesa l’elezione è iniziativa di Dio per un progetto di salvezza.

 

3.2  Le icone evangeliche

 

La dialettica dell’appartenenza viene espressa nei vangeli attraverso alcune icone segnate da profondi significati. Ne evochiamo alcune che ci aiutano a riflettere sul senso dell’appartenenza del discepolo (= del credente) nei riguardi del Signore che che meriterebbero un ulteriore sviluppo. Troviamo anzitutto le icone cristologiche:

  1. a) Le narrazioni del battesimo del Signore: Mt 3,13-17 // Mc 1,9-11 // Lc 3,21-22 da cui emerge il tema dell’elezione e dell’appartenenza di Gesù al progetto del Padre, nella forza dello Spirito Santo.

Seguono i racconti del discepolato:

  1. b) I racconti di vocazione: Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-10; Lc 5,27-32. E’ interessante Mc 3,13-19 per la sottolineatura che l’evangelista pone «li chiamò perché stessero con lui» (3,14), in relazione all’esperienza di appartenenza. Nel rifiuto di seguire Gesù in Mc 10,17-22 (il giovane ricco) e nel detto successivo sulla rinuncia in Mc 10,23-31 si manifesta la dialettica tra appartenenza e fallimento vocazionale. Si tratta di un testo di triplice tradizione sinottica che mette in luce la straordinaria dialettica pedagogica che si instaura tra l’invito all’appartenenza nuova e la crisi del rifiuto[21].

Va ancora sottolineato il ruolo pedagogico dei racconti di conversione, dei segni miracolosi e soprattutto di alcune parabole. Segnaliamo soprattutto:

  1. c) I racconti di conversione: Lc 7,36-50 (la peccatrice); 19,1-10 (Zaccheo); la vicenda di Paolo in At 9 (conversione/vocazione).
  2. d) I racconti di miracoli: la Cananea (Mt 15,21-28; Mc 7,24-30); il servo del centurione (Mt 8,5-13; Lc 7,1-10; Gv 4,46-53).
  3. e) Le parabole e le metafore: La pecora smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,3-7); il padre misericordioso (Lc 15,11-32); la metafora del buon pastore e delle pecore (Gv 10,1-18); la parabola dei due figli (Mt 21,28-32); la parabola di Lazzaro e il ricco epulone (Lc 16,19-31); la parabola dei talenti (Mt 25,14-30). Tra tutte spicca la grande tematica della prossimità intesa come appartenenza nella parabola di Lc 10,25-37 (il buon samaritano)[22].

 

3.3  I gesti di appartenenza

 

Quello che colpisce di più nell’analisi narrativa dei racconti evangelici sono i «gesti di appartenenza» d parte del Signore. Essi inplicano una profodna tenerezza soprattutto verso i poveri e gli ultimi. Ne ricordiamo alcuni attraverso il motivo della «commozione» del Cristo: Gesù viene preso dalla compassione per i ciechi di Gerico (Mt 20,34:); si commuove per la folla (Mc 6,34); piange per Lazzaro (Gv 11,33) si commuove nel contesto dell’ultima cena dopo aver lavato i piedi ai discepoli (Gv 13,1-21). Vi sono altri particolari espressivi della relazione di appartenenza e di tenerezza: il discepolo amato pone il suo capo sul petto di Gesù (Gv 13,25), Gesù accarezza i bambini (Mc 10,13-16; Lc 18,15-17; Mt 18,3; 19,13-15), la scena compassionevole del Golgota che vede la sua madre ai piedi della croce (Gv 19,25-27). Il segno dell’appartenenza «più grande» è rappresentanto dall’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14.21-23; 1Cor 11,17-34). Soprattutto nella riflessione paolina (cf. 1Cor 11,17-34) l’esperienza eucaristica costituisce il vincolo di appartenenza solidale dei credenti[23].

 

3.4  Appartenenza come «figli nel Figlio»

 

Abbiamo potuto constatare come la categoria dell’appartenenza è parte costitutiva del dinamismo spirituale del singolo credente e dell’intero popolo di Dio. San Paolo rielabora in modo esauriente questa dimensione, facendo sintesi dell’intero persorso biblico. Nella sua riflessione l’Apostolo esplica il dinamismo interiore mediante la descrizione del processo della «giustificazione» (dikaiosynē). Tale processo è opera dello Spirito Santo che produce nel cuore una graduale conformazione a Cristo e consente una «cristificazione» progressiva del credente fino ad arrivare ad affermare: «Non sono più io che vivo, ma è cristo che vive in me» (Gal 2,20). In definitiva l’appartenenza è segnata da tre tappe: dalla «conversione» alla «assimilazione» del credente in Cristo, fino alla «conformazione» (Rm 8,29: symmorphos) alla persona del Figlio per diventare «figli nel Figlio»[24]. Così si giunge ad una appartenenza piena al suo mistero di amore, ad una relazione vitale, mediante lo Spirito, con il Figlio di Dio, che ha dato la sua vita per noi. In Rom 8,9 Paolo ribadisce che se uno non è in Cristo «non gli appartiene» e allo stesso modo ricorda ai Corinzi che essi «sono di Cristo» (1Cor 3,23; 6,19), in quanto innestati nel battesimo e parte viva della Chiesa. Se questo processo non si realizza, l’uomo è destinato a vivere soloo per se stesso, senza una prospettiva «vocazionale», con la conseguenza di essere destinato alla morte (thanatos) e alla dossoluzione (apoleia). In questa prospettiva va interpretata la «dimensione escatologica» dell’appartenenza (cf. 1Cor 15; Rm 5). Secondo l’Apostolo l’unità-appartenenza a Cristo in Dio sarà realizzata pienamente nel compimento del tempo, quando avverrà la parusia del Signore. E’ lo stesso concetto espresso in forma narrativa nella nota pagina matteana del giudizio universale (Mt 25,31-46), collegata con la magna charta del discorso della montgana in Mt 5-7. Apparterranno al Signore non coloro che lo invocano verbalmente (Mt 721-23), ma quanti «riconoscono» nei piccoli e nei poveri la Sua presenza e decidono di vivere secondo il messaggio delle Beatitudini.

Conclusione

 

Riassumendo il nostro itinerario emergono tre importanti prospettive che illuminano il cammino del credente odierno. In primo luogo l’appartenenza costituisce la dinamica fondamentale sulla quale viene costruita la relazione con Dio e con il prossimo. Nei racconti biblici questa relazione è contrassegnata dalla logica dell’elezione e dell’alleanza che Jhwh stipula con Israele. La fedeltà all’alleanza pone in evidenza le crisi di appartenenza che ripetutamente emergono dalle scelte idolatriche del popolo. L’appartenenza è un ideale che implica la logica dell’esodo: passare dalla schiavitù alla libertà, attraverso il cammino nel deserto verso la terra promesa.

In secondo luogo il messaggio biblico ci aiuta a compredere la valenza pedagogica contenuta nella dialettica dell’appartenenza: Dio educa il suo popolo, come un padre e una madre tenerissima (Is 66,12). In tal modo la relazione di appartenenza  diventa un segno di continuo richiamo che la storia della liberazione affida al giudizio dei credenti. In questa logica si interpretano le crisi di appartenenza e il continuo bisogno di cercare il volto di Dio e di sentire la sua presenza.

Infine il processo educativo che si cela nella dialettica tra idolatria ed appartenenza ha come finalità la piena realizzazione vocazionale del credente e della comunità. L’appartenenza non può essere identificata come esclusione di molti e privilegio di pochi. Al contrario, l’appartenenza implica la comunione partecipativa di tutti verso l’unico Dio, il cui mediatore è Cristo, che salva il suo popolo e lo guida alla pienezza escatolgica. Per questa ragione la categoria di appartenenza si collega a quella di speranza. L’appartenenza è sempre un «già e non ancora», una dimensione «viaria» che ci permette di vivere il «frattempo» desiderando l’incontro ultimo e definitivo.

Ci illumina l’immagine isaiana dell’ascesa al monte Sion (Is 2,1-5; cf. Mic 4,1-4), la cui profezia è più vicina a noi di quanto pensiamo:

 

«Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,2-5).

 

[1] Cf. J. Guillet, «Elezione», in X. Léon-Dufour (ed.) Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Torino 1976, 324-332; F. Dreyfus – P. Grelot, «Eredità», in Ibidem, 338-342.

[2] Sul processo educativo posto in essere da Dio nei riguardi del suo popolo, cf. C. M. Martini, Dio educa il suo popolo. Programma pastorale diocesano per il biennio 1987-1989,  Milano 1987.

[3] Cf. J. Eichler, «Comunione, partecipazione», in L.Coenen- E. Beyreuther- H. bietenhard (edd.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1976, 329-333.

[4] Cf. Lc 5,7; Eb 1,9; 3,1.14; 6,4; 12,8.

[5] H. Hanse fa notare che, malgrado l’assenza specifica del verbo, in Gv 13,8 l’espressione rivolta Pietro indica la partecipazione alla sorte di Cristo (cf. H. Hanse, «Metechō», in G. Kittel – G. Friedrich (edd.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, III, Paideia, Brescia 1971, 1361). Sul tema dell’appartenenza come solidarietà, cf. G. De Virgilio, La Teologia della solidarietà in Paolo. Contesti e forme della prassi caritativa nelle lettere ai Corinzi (SRB 51), Dehoniane, Bologna 2008, 281-314.

[6] Cf. J. Eicher, «Eredità, sorte», in L. Coenen – E. Beyreuther – H. bietenhard (edd.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, 568-575. L’idea originaria presente nel termine klēros (dal verbo greco klaō = spezzare) è quella di ricevere qualcosa in sorte e richiama all’usanza di tirare (gettare) la sorte per indovinare le intenzioni degli dei. Nella sua evoluzione il verbo ha assunto volta per volta l’idea di «assegnare in sorte» (klēronomein) e quindi il senso dell’eredità «toccata in sorte» (klēronomia).

[7] L’idea è molto vicina alla dialettica teologica contenuta nella celebrazione dell’alleanza mosaica (berit) in Es 19-24 (cf. A. Bonora, «Alleanza», in P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, 21-35). E’ conosciuta l’usanza ebraica di «gettare le sorti» (jārāh) per conoscere la volontà di Jhwh, attestata soprattutto in contesti liturgici (cf. Es 28,30; Lv 8,8); cf. Lv 16,8; Gs 7,14; 1Sam 10,17; 14,41; 1Cr 25,8; Pr 18,18; Abd 11; Na 3,10; Sal 22,19.

[8] Cf. G. Becquet, «Terra», in X. Léon-Dufour (ed.) Dizionario di Teologia Biblica, 1275-1283.

[9] Cf. Dt 10,9; 18,1s.; 12,12; Nm 18,20; Gs 13,14; Sal 72,25s; 142,6; 16,15; Ez 36-37; 45,1; 47,13s; 48,29; Is 49,8.

[10] Le attestazioni del gruppo terminologico: il verbo klēronomeō (18x), klēronomia (14x), klēronomos (15x), klēros (11x) stanno ad indicare la rilevanza dell’idea dell’appartenenza come «eredità» di Dio; cf. J.-H. Friedrich, «Klēros» in H. Balz – G. Schneider, (edd.), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, II, Paideia, Brescia 1997, 55-56.

[11] Cf. E. Beyreuther, «Peripoieomai», in L.Coenen- E. Beyreuther- H. bietenhard (edd.), Dizionario dei concetti Biblici del Nuovo Testamento, 1336-1337.

[12] Nel Nuovo Testamento lo stesso concetto è espresso in 1Ts 5,9; 2Ts 2,4; Tt 2,14; Eb 10,39; 1Pt 2,9; Ef 1,14.

[13] Cf. L. De Lorenzi, «Elezione», in P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, 444-458; A. Feuillet, «Discepolo», in X. Léon-Dufour (ed.) Dizionario di Teologia Biblica, 288-291; G. Leonardi, «Apostolo, discepolo», in P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, 106-123; F. Dalla Vecchia, «Elezione, gelosia di Dio», in Dizionario biblico della vocazione, a cura di G. De Virgilio, Rogate, Roma 2007, 278-283.

[14] Cf. H. Wildberger, «BHr», in E. Jenni – C. Westermann (edd.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, I, Marietti, Torino 1978, 241-261; G. Schrenk – G. Quell, «Eklegomai», in G. Kittel – G. Friedrich (edd.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, IV, Paideia, Brescia 1974, 400-532; J. Eckert, «Eklegomai», I, in H. Balz – G. Schneider, (edd.), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, I, Paideia, Brescia 199, 1108-1109.

[15] L. De Lorenzi, «Elezione», 444.

[16] Così i singoli protagonisti dell’elezione diventano modelli autorevoli dell’appartenenza a Dio: Abramo (Gn 12,3) e prima di lui lo schema dell’appartenenza elettiva di applica ad Abele (Gn 4,4), Enoch (Gn 5,24) Noè (Gn 7,1; Sem (Gn 9,26). Così nella storia dei patriarchi ritroviamo lo schema dell’elezione nella scelta della primogenitura (Isacco, Giacobbe, Giuseppe).  Ma è nell’evento dell’esodo (cf. Es 1-15) che il popolo fa l’esperienza della sua relazione di appartenenza a Dio.

[17] Questa affermazione teologica di appartenenza viene elaborata come leit motiv nell’intero sviluppo biblico anticotestamentario secondo le diverse tradizioni. Nell’attività profetica si presenta la vocazione dei singoli messaggeri come «eletti da Dio» per una particolare missione. Allo stesso modo Jhwh guida la storia travagliata della monarchia ebraica «scegliendo» i suoi «servi» (re) e i sacerdoti e leviti, i quali sono oggetto di elezione e di particolare relazione con il mistero sacro (cf. Nm 8,16). I sacerdoti e i leviti sono chiamati a «stare davanti a Jhwh», mediante una forma di esistenza «diversa» da quella del resto del popolo (Dt 10,8; 18,5). Essi rappresentano la consacrazione di tutto Israele, che è «regno di sacerdoti e nazione consacrata a Jhwh» (Es 19,6).

 

[18] Sappiamo quanto la teologia dell’elezione è stata messa in crisi dagli avvenimenti dell’esilio e dalla dissoluzione del regno del sud. Anche nei momenti più bui della storia ebraica, di fronte alla distruzione del tempio e alla deportazione dei prigionieri, l’idea della elezione e dell’appartenenza del popolo a Dio non è mai venuta meno, perché fondata sulla fedeltà di Jhwh e sul suo intervento futuro. Alla figura del re viene sostituita quella del «servo di Jhwh» (‘ebed Jhwh). Al servo, in quanto eletto da Dio, spetta la funzione di testimoniare mediante la sofferenza e la morte vicaria (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Per l’approfondimento teologico-letterario, cf. P. Grelot, I Canti del Servo del Signore, Dehoniane, Bologna 1983.

[19] L’elaborazione teologica dell’elezione trova il suo sviluppo nel Nuovo Testamento, a partire dal titolo cristologico conferito a Gesù di «eletto» (Gv 1,34; Lc 9,35; 23,35). In 1Pt 2,4.6 si utilizza una interessante metafora: Gesù è la «pietra scelta». Non è difficile cogliere in questa prospettiva l’elezione come espressione di appartenenza di Gesù al Padre. Il modello che unisce il Figlio al Padre, si traduce nei confronti dei discepoli che vengono eletti da Gesù e chiamati a seguirlo (Mc 3,13-19; Lc 6,13). Nel nostro contesto l’elezione si collega con il tema del discepolato e l’appartenenza a Dio si coniuga con la condivisione dell’esperienza vocazionale e apostolica.

[20] La prospettiva viene evidenziata soprattutto nella teologia matteana: «Allora Pietro gli rispose: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele”» (Mt 19,27-28).

[21] Cf. V. Fusco, Povertà e sequela. La pericope sinottica della chiamata del ricco (Mc 10,17-31 par.), Paideia, Brescia 1991.

[22] Non meno importanti sono i detti/discorsi di Gesù: l’espressione di amicizia verso «coloro che ascoltano la Parola» (Lc 12,4); verso i suoi discepoli: Gv 15,14; condividere le sofferenze di Cristo per appartenergli: Lc 22,28. «Chi persevererà fino alla fine sarà salvato»: Mt 10,22; I discorsi di addio in Gv 15-17.

[23] Un ulteriore sviluppo della tematica dell’appartenenza in chiave di discepolato va individuato nel dinamismo solidale delle prime comunità cristiane (cf. G. De Virgilio, La Teologia della solidarietà in Paolo, 287-314).

[24] Per lo sviluppo del tema, cf. R. Tremblay, Radicati e fondati nel Figlio. Contributi per una morale di tipo filiale, Dehoniane, Roma 1997; Idem, «Ma io vi dico…». L’agire eccellente, specifico della morale cristiana, Dehoniane, Bologna 2005.

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