N.02
Marzo/Aprile 2011
Studi /

Dalla nostalgia o indifferenza alla corresponsabilità della comuità cristiana

  1. Dobbiamo noi andare a comprare duecento denari di pane…

La domanda dei discepoli nasconde, tra le pieghe, una leggera stizza per una richiesta così assurda e lontana dalle reali possibilità economiche ed organizzative della piccola comunità apostolica. La tensione tra il possibile della politica e dell’economia e l’impossibile della fede segna i nostri giorni, la vita di Chiese locali e di Congregazioni religiose che rischiano di fermarsi alle analisi dettagliate e fondate di economi e sociologi che disegnano urgenze e risorse umane, opere da “mantenere” e bilanci da far quadrare, calo di giovani presenze e aumento di anziani. Ci si ferma, a volte, a letture esatte, ma fredde, anche nei nostri ambienti: siamo ancora allenati al salto della fede dove il poco che possiamo offrire diventa nelle mani di Gesù bastante per tanti? Negli incontri diocesani e regionali, nelle verifiche di Congregazioni e Istituti un tempo fiorenti, sembra soffiare un vento di scoraggiamento quasi che “non ci resta che piangere”(!), eppure le stesse lacrime, utilizzate non per celebrare l’inizio della fine, ma solo il passaggio a un tempo nuovo, possono diventare seme di speranza se seminate “nell’andare” di cui ci parla il salmo 125. Possiamo affogare nelle nostre lacrime o fidarci di Chi ci chiede di gettare le reti proprio quando e dove abbiamo sperimentato l’amarezza della infecondità. A fronte di investimenti ed utilizzo intelligente delle risorse umane, l’evento dell’Incarnazione, nella cui luce si celebra il nostro convegno, pone tutti noi in contemplazione della “follia di Dio” che si abbassa per salvarci e sceglie la via dello spreco della divinità per soccorrere l’umanità naufraga. “Perché tutto questo spreco…?” si chiederà Giuda e quanti, con lui e come lui, non sopportano lo scandalo dell’Incarnazione e della Croce. La via del benessere e della salvezza dell’economia non risolve i problemi sociali (“I poveri li avrete sempre con voi”!), ma conduce alla cultura delle città “sazie e disperate” come amava definirle Giovanni Paolo II dove, con l’aumento del benessere, si innalza anche il tasso di suicidi. Di qui alcune domande possono aiutare la nostra riflessione e verificare il nostro impegno di animatori di pastorale vocazionale:

*  Siamo testimoni di speranza in un mondo disperato aiutando vicini e lontani a leggere con occhi di fede un presente difficile, ma colmo di attese?

  • Nel vissuto delle nostre Diocesi e Famiglie religiose emerge la fiducia in Colui che ci ha chiamati e porterà a compimento la Sua opera, o si è insinuato il tarlo del complesso de “gli ultimi moicani”?
  • Riusciamo a leggere il nostro essere “resto” e “poveri” come una opportunità di umiltà perché la fragilità del vaso faccia risplendere la luminosità del Tesoro?
  • Siamo più preoccupati della sussistenza del nostro Istituto o Diocesi o, con cuore libero e ardente, offriamo il nostro contributo perché abbia futuro la vita consacrata e la Chiesa e non il nostro “particulare”? Lo “Spreco divino” già chiaro all’atto dell’Incarnazione diventerà sommo nell’Innalzamento della Croce: accetto di morire come persona o come Istituto sapendo che “sia che viviamo, sia che moriamo noi siamo del Signore”?

Ho trovato ben esplicitato l’atteggiamento di fede in un tempo di difficoltà nel passaggio di una lettera inviata ai collaboratori laici da parte di alcuni Padri Sacramentini  a conclusione del XXII Capitolo Provinciale:

“Il motivo più pressante è la necessità di guardare avanti, concentrando le nostre forze sulle scelte in cui vogliamo esprimere la nostra missione, anche in tempo di mancanza di nuove vocazioni. Nel 1995 abbiamo avuto le ultime ordinazioni sacerdotali di giovani che venivano dai nostri seminari minori (chiusi da tempo) e nel 2001 c’è stata la prima (e finora ultima) ordinazione di un giovane entrato nell’Istituto in età matura. Tempo di aridità? O tempo in cui siamo chiamati a vivere l’esperienza evangelica della fecondità del “piccolo seme”? Al Signore sono affidati i nostri passi”.

  1. Quanti pani avete? Andate a vedere…

E’ lo slogan della prossima Giornata delle Vocazioni, ma è anche la pedagogia di Gesù che invita i suoi a recensire i beni, il bene, i sogni perché l’uomo creato senza apporto umano, come insegna Sant’Agostino, divenga collaboratore di Dio per la sua salvezza. La fame accomuna o divide, l’emergenza può generare sciacalli o far nascere mille forme di solidarietà come ha dimostrato la reazione ai passati o recenti stati di emergenza nazionali o internazionali. Mi piace sottolineare innanzitutto il plurale del verbo utilizzato da Gesù: il Maestro si rivolge non a un discepolo singolo, ma al collegio dei dodici indicando già qui il punto di svolta. I cinquemila saranno sfamati non dalla scoperta operata da un cervellone o dal primo della classe, ma dalla sinergia di una comunità che è posta in stato di cooperazione. E’ quanto si auspica avvenga tra parrocchie diverse, tra Diocesi, tra Congregazioni religiose che rinunciando al proprio pane in bisaccia da sbocconcellare in privato, possano aprirsi alla scelta della vedova di Zarepta che dice al profeta “Lo mangeremo insieme e poi moriremo”. L’essere in 800 al Convegno del CNV è segno di una volontà cooperativa dove il bene di uno può diventare miracolo per tutti?  La povertà aguzza l’ingegno, l’abbondanza ottunde la mente. La ricchezza alza mura difensive, la povertà abbassa le difese e crea comunione. E’ questo il filo di discrimine tra una lettura allarmista dei dati ed uno sguardo di speranza dove il plurale usato da Gesù accomuna i poveri lasciando che ciascuno metta in comune quel poco che ha e il molto che spera. L’amore figlio di povertà, come insegna la mitologia greca, è simbolo di un desiderio-sogno che nasce da una invocazione di poveri che, rinunciando a farsi guerra tra loro per un tozzo di pane,  scelgono la via della comunità e organizzano la danza della pioggia nel deserto. “Date loro voi stessi da mangiare” dice Gesù ai Dodici e a noi oggi chiedendoci di farci carico della fame della Chiesa e del mondo (“voi stessi”-soggetto), ma anche di diventare pane “Offrendo i nostri corpi come sacrificio spirituale” (“voi stessi”-oggetto). Nella Memoria di Lui (“Fate questo in memoria di me”) anche noi, con la Sua Grazia, diciamo “Questo è il mio corpo”! accettando di morire a noi stessi e ad una pastorale vocazionale che porti acqua al nostro mulino, per convergere sui bisogni di tutti, anche quelli più feriali ed essenziali. E’ il principio di Incarnazione che ci rende solidali con tutto ciò che è umano superando la deriva spiritualista pur così presente nei nostri ambienti. “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, -insegna Simon Weil)- ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio”. Anche da questo secondo punto derivano delle domande:

  • La povertà delle nostre Chiese è luogo teologico o fontana di lamentazioni che ci impedisce di leggere la pedagogia di Gesù?
  • Insieme sappiamo farci accanto all’uomo incappato nei briganti o restiamo ingessati nei ruoli dove ciascuno si limita al suo stretto dovere?
  • Chi è il soggetto della pastorale vocazionale nella tua Diocesi o Congregazione? Emerge anche dall’azione dei singoli il NOI della Chiesa?
  1. Ma che è questo per tanta gente?

La ricerca e l’inventario delle energie non è finalizzato alla depressione o all’abbandono del campo, ma, nella pedagogia di Gesù, deve risvegliare il senso di appartenenza e la convergenza degli sforzi insieme ad un atto di fede in Colui che tutto può. Molte volte, nell’ordito dei Vangeli, i discepoli, alla ricerca di chi sia il più grande tra loro, vengono posti dinnanzi a un bambino come metro di salvezza e di appartenenza al Regno. Anche qui l’enorme distanza tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere, tra la folla censita e i beni a disposizione, deve generare fiducia e non scoraggiamento. “Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, noi siamo forti nel nome del Signore!”, già il salmista che si confronta con le grandi potenze del suo tempo si risolve per un atto di fiducia in Dio che ha scelto un popolo insignificante per farne la sua proprietà a beneficio di tutti. Più volte Israele è stato tentato di assumere i parametri del mondo armando un esercito che potesse essere a fronte dei grandi eserciti, ma per la vittoria Dio ha preteso che si andasse in pochi contro tanti per evitare che la paternità del successo potesse essere attribuita alla perizia umana. Anche oggi per noi il doloroso stupore dei dodici (che è questo…) diventa presupposto di fede e quindi spazio di miracolo. Restiamo a fatica nei panni della povertà e, come il giovane Davide, indossiamo la pesante e luminosa armatura di Saul per combattere il Golia di turno, ma ne siamo appesantiti, impacciati, impediti finchè non torniamo alla fionda e all’abito dimesso del pastore. Non meno pericolosa è la tentazione della nostalgia (Quando eravamo tanti, giovani e forti…) che vorrebbe farci assumere metodi e stili pastorali di ere passate. Qui risuona il detto di Gesù “Ricordati della moglie di Lot” per non essere trasformati in statue di sale (monumenti di amarezza!) eternamente voltati indietro e impossibilitati a vedere il Regno in mezzo a noi. Il nuovo ha bisogno di sapienza antica, ma non di vecchi armamentari da museo cui pure molti, in tempo di crisi, si aggrappano come naviganti che, per stabilire il punto nave, tirino fuori il sestante. “Si cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio?” eppure tanti sono tentati di risolvere i problemi di oggi con i metodi di ieri e contrabbandano per “Tradizione” ciò che è solo riesumato dalla soffitta della pastorale vocazionale. In tutt’altra direzione, con la consapevolezza di chi umilmente, ma con fede raccoglie la sfida dei tempi nuovi, vanno le indicazioni dei Vescovi italiani che hanno scelto di tornare a educare tutti alla vita buona (e bella!) del Vangelo.

E’ rivolgendosi loro che il Papa Benedetto XVI, lo scorso maggio aveva detto in un passaggio del suo denso discorso:

“Le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma pur consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione. Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge. Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’io per il tu, per il noi, per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi. Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio”

Il papa parla di “passione educativa” che non è solo una prassi, una tecnica, un travaso di notizie, ma implica l’educatore in tutte le dimensioni del suo essere, anche in quella affettiva, che entra in relazione con un altro, con altri. “Passione” dice coinvolgimento, dolorosa ricerca di vie, implicazioni e tensioni che generano “un patrimonio interiore condiviso” vero spazio e tempo sacri dove i pensieri, gli affetti e una nuova visione di sé e del mondo generano scelte radicali. E’ qui, in questa “stanza del cuore” che si ascolta una chiamata e si genera la grazia di una risposta. Siamo in piena pedagogia salesiana dove l’educazione è ritenuta “cosa del cuore” e i giovani –come amava ripetere San Giovanni Bosco- finiscono con l’appartenere a colui che li ama. Quale luogo privilegiare per questo intreccio di relazioni, ricordi, emozioni dove scoprire il patrimonio interiore condiviso come tesoro da cui estrarre cose nuove ed antiche?

“La parrocchia-Chiesa che vive tra le case degli uomini- continua ad essere il luogo fondamentale per la comunicazione del Vangelo e la formazione della coscienza credente; rappresenta nel territorio il riferimento immediato per l’educazione e la vita cristiana a un livello accessibile a tutti; dialoga con le istituzioni locali e costruisce alleanze educative per servire l’uomo”

In questo passaggio del testo “Educare tutti alla vita buona del Vangelo” (N.41) abbiamo di nuovo l’obiettivo puntato sulla parrocchia luogo feriale della vita e dell’educazione alla fede. In essa fedeli laici e consacrati, popolo di Dio e Ministri ordinati, fede e vita interagiscono, si incontrano, si illuminano a vicenda. Nella parrocchia il singolo e i gruppi, gli uomini e le donne, cantano la gioia di vivere (è la prima vocazione), celebrano un’appartenenza riconoscendosi e sentendosi riconosciuti, fanno esperienza di Gesù nella celebrazione dei Sacramenti, nell’evangelizzazione e catechesi, e nell’amore che si fa gesto concreto di accoglienza per ogni fragilità. Fuori di questo contesto feriale della vita della Chiesa, fuori di questo grembo materno in cui la vita si annida e riceve nutrimento e difesa, ogni pastorale vocazionale disancorata rischia di essere un tentativo vano (“Se il Signore non costruisce la casa…”) e di sciupare tante energie come una “fecondazione in vitro”.

Nel presente contributo che ha la sola autorevolezza di venire dal campo di combattimento, si è voluto affermare l’urgenza di riportare la pastorale vocazionale nell’alveo della pastorale ordinaria della Chiesa riproponendo la comunità cristiana come soggetto di ogni itinerario vocazionale in una ritrovata corresponsabilità verso tutte le chiamate. Non deve scoraggiarci il poco che siamo e il nulla che abbiamo (“Quanti pani avete?”)  perché la nostra precarietà nelle Sue mani è generatrice di pienezza fino a raccogliere dodici sporte di pezzi avanzati. La Chiesa, pellegrina nel tempo, umilmente si fa serva del suo Signore che è venuto, che viene e che verrà e da Lui attende una nuova giovinezza. “So che verrai

Di neve lieve

E vestirai

L’aria di sogni” (Zucchero).