N.03
Maggio/ Giugno 2011

Preservare nell’impresa. Si può fare… 3

Un’indicazione previa: facendo eco al documento CEI sugli orientamenti pastorali 2010 – 2020: Educare alla vita buona del Vangelo, tentiamo di sviluppare e proporre  alcuni punti in chiave formativa, come suggerimento, per costruire cultura vocazionale e per offrire alcune note sull’accompagnamento personale in vista dell’educazione alla decisione vocazionale.

PERSEVERARE   NELL’ IMPRESA

  1. La filosofia è morta

“La filosofia è morta!”: è quanto sostengono Stephen Hawking e Leonard Mlodinow nel loro ultimo libro “ Il grande disegno”[1], perché, a loro avviso, non ha saputo tenere il passo degli sviluppi più recenti della scienza, in particolare della fisica. Ormai, quindi, l’unico criterio di conoscenza che ci rimane è solo più la scienza. Infatti, secondo le teorie quantistiche, esistono tanti universi, ognuno con le sue leggi ed i suoi modelli di esistenza, per cui non è più possibile ragionare nei termini di una realtà creazionista; di conseguenza, è superata la verità di un unico modello, che postulava l’esigenza di un creatore e della verità assoluta di un suo progetto.

La riflessione dei due autori, oltre posizionarsi alla fine sulla linea della pura ipotesi, cosa che proprio essi criticano nella visione classica della realtà, si dimostra molto pericolosa per le conseguenze e le ricadute nella vita delle persone: se non esiste un tracciato di verità assoluta a cui riferirsi ed appellarsi, ma tutto resta puramente sul piallato e schiacciato relativo ed opinabile, sul piano del pensiero e dell’agire prevarrà necessariamente il criterio dell’istinto e della verità confezionata sulla misura di se stessi, senza alcun riferimento più grande. Di qui anche la crisi dei grandi sistemi ideali, che hanno influenzato tanti grandi del passato a battersi e spendersi per cause giuste.

  1. Questioni e  ragioni  della  non  perseveranza

L’effetto della morte della filosofia, con tutte le ricadute pratiche sugli stili di vita delle persone, ci porta a chiederci perché oggi soprattutto la perseveranza e la costanza non siano più virtù stimate. Anzi, si potrebbe piuttosto parlare dell’elogio dello spontaneismo e della non perseveranza. Ma, perché le cose stanno così? Si può dire che da 50 / 60 anni a questa parte si sono enormemente moltiplicate le possibilità di scelta, che si offrono a portata di mano. Un tempo le proposte, che l’esistenza offriva, erano piuttosto limitate, per cui era giocoforza perseguire decisamente il poco, che ad ognuno si apriva davanti e cercare di custodirlo, investendolo gelosamente con tanta tenacia, pena la perdita di tutto.

Dalla seconda guerra mondiale in avanti, almeno nel nord del nostro pianeta, le possibilità che la vita offre, sia dal punto di vista sociale che economico, si sono moltiplicate per cento, per cui oggi l’esistenza è come andare al supermercato: abbiamo una grande varietà di prodotti dello stesso tipo, nei quali cambia solo la marca e la provenienza, tutto per sollecitare e solleticare le voglie, più che portare a scegliere quello che veramente serve ed è utile. Una tale abbondanza di possibilità porta necessariamente ed insensibilmente a relativizzare ogni cosa. Tanto più che, in forma inversamente proporzionale, sta diminuendo la capacità e la forza personale di scegliere, spinti da una motivazione valida, che non sia la moda o la pubblicità in voga. E’ diventato quindi molto facile lasciarsi scegliere dalle cose, dagli altri, dall’immediato. Ma, a questo punto, la vita non cammina più. Aumentano gli anni, crescono i muscoli e la statura ed anche l’istruzione della persona, ma il resto è semplicemente stagnante. Prende il sopravvento il provare. Provare è bello: sia per le cose impegnative come il servizio, gli incontri di preghiera, persino uno stato di vita, ma anche per lo sballo e le esperienze di campo minato ed off limits. Tutto sullo stesso tapis roulant, sullo stesso liscio schiacciato. Provare costa poca fatica e non compromette mai fino in fondo, getta la pietra e ritira la mano. Una vita per lo più regolata dalla pigrizia: fisica, intellettuale, comportamentale, sentimentale,…Tante volte, ad osservare la gente in giro, giovani e meno giovani, sembra di vedere una folla di zombie, che cammina verso non si sa che cosa, di certo verso l’omologato di massa della cultura contemporanea. Magari brave persone ma terribilmente morte. Magari con buoni principi di vita ed una cultura più che discreta, ma nascosta dietro la tastiera del personal computer, che mi permette di arrivare a tutto e a tutti, una comoda scorciatoia, senza eccessiva compromissione e senza la fatica insostituibile di un rapporto interpersonale profondo. Gente che sembra avere suicidato la propria voglia ed ha soppresso le proprie passioni per il nulla. E, se a questo aggiungiamo la connivenza di tanta pseudo-psicologia in voga, che ti crea un generalizzato complesso di giustificazione di ogni tuo modo di essere e di vivere, vuol dire che siamo proprio alla frutta…

  1. Eppure… la vecchia perseveranza conta ancora tanto

Già la buon’anima di Confucio diceva che abbiamo il dovere di essere prima di tutto leali e fedeli a noi stessi. Il che mette immediatamente in gioco il problema della perseveranza. Tuttavia, è molto più esplicito e intrigante il Vangelo, quando afferma che nella vita si può produrre frutto solo con la perseveranza (cfr. Luca 8,15) e che, proprio grazie alla perseveranza, si potrà salvare la propria vita (cfr. Luca 21,19). Ma cosa significa, in fin dei conti, perseverare, perseveranza? Basta un semplice dizionario a risponderci: continuare con costanza e fermezza, senza paura di insistere e di essere tenaci ed assertivi. Vuol dire che abbiamo a che fare con un impegno preso o siamo alle prese con un progetto voluto ed avviato e siamo ben determinati nel volerli portare a compimento. Il motivo per cui non possiamo sottrarci a questo è il fatto che la nostra esistenza è fortemente ancorata alla incompletezza, che contraddistingue ogni creatura, anche il capolavoro dell’essere umano. E’ proprio questo nostro riconoscerci prospettici e finiti, che ci deve provocare dentro come un detonatore per un impegno costante.

Per realizzare qualcosa di valido nell’esistenza dobbiamo prima di tutto tornare a desiderare e sognare cose grandi ( cfr. <Vocazioni> 1/2011) e poi volere accettare la sfida della vita (cfr. <Vocazioni> 2/2011). E, subito, il terzo passo immediatamente successivo è chiaramente perseverare nell’impresa. Essere schiacciati sul presente senza prospettive chiude in un guscio di abulia e di pigrizia, come dicevamo sopra. E’ proprio il prendere coscienza di essere incompleti da tutti i punti di vista che ci deve portare ad essere molto riflessivi e a darci da fare. Abbiamo l’impresa della vita da realizzare, che consiste in un progetto stipato di desideri formidabili, che in linguaggio cristiano si chiama vocazione ed occorre volerlo a tutti i costi. Qualcuno potrebbe obiettare che questo discorso è a doppio senso di marcia: infatti, si può perseverare nel realizzare un progetto meraviglioso ma si può perseverare anche in un circuito di male fino all’autodistruzione. Certo, ma è questione di intendersi: chi si fa irretire dal male, più che perseverare, sprofonda sempre di più in una spirale di schiavitù e di legami distruttivi e nella dispersione degli elementi della propria persona. Al contrario, perseverare nell’impresa del progetto/vocazione della propria esistenza è una scala circolare a chiocciola, che ti fa ripartire ogni giorno con qualche centimetro più in alto rispetto al giorno precedente, fino al compimento. Perché perseverare è strettamente collegato con il compimento. Infatti  ciascuno, al termine della sua esistenza, deve poter ripetere con sincerità e soddisfazione quello che Gesù ha detto sulla croce prima di morire: “Tutto è compiuto!”(Giov. 19, 30). L’impresa della mia vita è veramente compiuta, nonostante limiti e fragilità dell’esistenza. Ho fatto davvero la mia parte per realizzare me stesso e per piantare un paletto perenne nel tracciato della storia dell’universo.

  1. Mettiamo qualche paletto: educare alla perseveranza

In un’epoca come la nostra, che è propensa a celebrare unicamente l’elogio dello spontaneismo e della fuga da tutto ciò che esige sudore di continuità, come si fa ad educare alla perseveranza? Certamente non è un’impresa facile, perché occorre andare decisamente controcorrente. Tuttavia, siamo più che convinti: si può fare, nonostante tutto.

Ti propongo allora qualche passo progressivo in tale senso (ma non interscambiabile):

3.1. Vedere chiaro. La prima cosa è iniziare a vederci chiaro nella propria esistenza. Il pienamente e perfettamente chiaro sarà solo nella vita eterna, ma già fin da quaggiù è possibile avere un quadro sufficientemente chiaro e progressivamente sempre più luminoso. Si tratta di raccogliere i desideri più profondi, che ci portiamo dentro, e condensarli in quello che ci dà maggiore felicità (il progetto/vocazione della vita corrisponde a questo). Tutti hanno sentito dell’aneddoto del cane da caccia e della lepre: un cane da caccia aveva adocchiato una lepre e si mise all’inseguimento con grande foga ed abbaiature. Ad esso si associarono via via vari cani colleghi nel correre a caccia della lepre. Tuttavia, dopo un po’, questi si stancarono e smisero l’inseguimento, tornando indietro. L’unico che non si rassegnò fu il primo cane, che continuò nell’inseguimento a perdifiato, fino ad acchiappare la lepre. Perché? Perché esso solo vide la lepre, gli altri no. Se non si vede sufficientemente chiaro il progetto della propria esistenza e non ci si dà ragione di esso, è quasi impossibile perseverare nell’impresa.

3.2. Esigere proporzionalità. Un secondo passo assolutamente necessario è il calcolo della proporzionalità. Tanti non riescono ad innescare in sé la perseveranza, perché sono perfezionisti, oppure idealisti, oppure illusi,… in una parola sono sproporzionati. Non sono in grado di fare il calcolo della proporzionalità. Non basta sentire forte il fascino e il desiderio di un’impresa, di un progetto di vita, di una vocazione. Devo sapere coniugare questo desiderio con la realtà che sto vivendo, con le sue belle risorse ma anche con il ruvido quotidiano, le sue contraddizioni ed i suoi intralci. Se non so accettare la realtà in cui vivo, il desiderio e il fascino si sgonfiano in fretta come i palloncini da fiera. Se sento il desiderio a 1000, la mia capacità di realismo deve essere almeno a 500. Poi devo coniugare questi due dati con il livello di maturazione della mia persona (= età + valori interiorizzati personalmente + capacità di tradurli in pratica).Solo quando abbiamo una sufficiente proporzionalità tra questi tre fattori è possibile chiedere un passo decisivo nella perseveranza.

3.3 Scavare la pietra. “La goccia scava la pietra”, recita l’antico proverbio. Per dire che si richiede un esercizio quotidiano perseverante al fine di realizzare ogni cosa. Molti pensano che, siccome hanno trovato un grande sogno/progetto di vita, questo basti perché automaticamente si realizzi. Sono così ingenui da non sapere che invece esso si costruisce solo mettendo mattone su mattone di impegno quotidiano in tutti gli aspetti dell’esistenza, cementandoli con la fatica ed il sudore. Cosa che fa una terribile resistenza a noi contemporanei, malati di una specie di abulia indotta dal computer e dal terrore della fatica fisica. Occorre riscoprire la soddisfazione di un lavoro realizzato fino in fondo, con un grande rispetto per il lavoro stesso e per quello che si ottiene con la fatica, perché risulta evidente a tutti che ciò che si consolida e resta non è mai casuale o fortuito, giocando magari a “l’Eredità” oppure ad “Affari tuoi”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] HAWKING S. MLODINOW L.,  Il grande disegno, Milano, Mondadori, 2011.