N.04
Luglio/Agosto 2011

Formare al discernimento spirituale nel contesto della storia familiare

Nel dialogo con gli esperti sono state presentate alcune domande emerse nei gruppi di studio. Esse riflettono alcuni punti nodali che gli educatori vocazionali incontrano nel loro servizio di accompagnamento dei giovani in particolare nella relazione con la famiglia d’origine e della grande famiglia della Chiesa, madre di tutte e ciascuna vocazione. Le risposte di Mariateresa, Gilberto e don Paolo completano e integrano le loro precedenti relazioni e offrono ulteriori spunti di riflessione.

 

Ci vuole aiutare a comprendere come la circolarità e la reciprocità delle vocazioni potrebbe tradursi concretamente nella pastorale?

Don Paolo Gentili

C’è una custodia reciproca delle diverse vocazioni che è sicuramente da riscoprire. Pensiamo a quanto è più custodita, incarnata, la vocazione di un prete quando è a contatto con famiglie che manifestano la verità dell’amore sponsale! E nello stesso tempo, come è confermata la vocazione degli sposi quando vi è un sacerdote che aiuta a fare scelte orientate dai valori cristiani: anche i rapporti familiari sono maggiormente rinsaldati, i rapporti genitori-figli, i rapporti nella fratria, i rapporti con gli altri familiari. Se il legame di sangue non rinasce nello Spirito non acquista la sua pienezza, perché non è pienamente illuminato.

E così anche il valorizzare la vocazione alla vita consacrata con il suo singolare servizio spirituale, l’accompagnamento degli educatori, delle famiglie, dei giovani… Occorre riconoscere ciò che è specifico di ogni vocazione, perché ciascuno possa aiutare l’altra ad essere più pienamente se stessa, secondo la logica di Rm 12: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda». Questo è ciò che è necessario nella nostra pastorale: ridare dignità a tutte le vocazioni e non servirsene solo in senso funzionale per ciò che è più urgente nelle comunità, divenendo segno e sostegno gli uni per gli altri.

 

I passi di crescita implicano il distacco e quindi la perdita. Come l’educatore vocazionale può aiutare la famiglia a fare un vero distacco e il figlio/a a distaccarsi?

Gilberto Gillini

Se noi descriviamo i passi di crescita usando solo parole di segno negativo come “distacco” e “perdita” rendiamo un cattivo servizio alla maturazione dei giovani. Infatti dimentichiamo la parte principale e più bella della crescita che è connessa con la capacità di rispondere gioiosamente alla propria vocazione. Da parte del figlio questo implica mostrare ai genitori che lui finalmente è autonomo; e da parte dei genitori implica accogliere la realizzazione di un sogno che ogni genitore normale ha fatto da quando il bambino era nella culla (e l’autonomia era molto lontana). I genitori, infatti, desiderano in cuor loro da sempre la realizzazione del figlio come uomo o donna (“Quando sarà grande…”, “Chissà come sarà da grande…”) e non certo come una perdita, ma come un guadagno per la famiglie e per l’umanità! Il termine perdita allora non può essere assolutizzato, ma va contestualizzato.

L’educatore vocazionale si pone allora a fianco del ragazzo e dei genitori per contemplare i passi della crescita anche in quei casi in cui la crescita c’è, ma non con le caratteristiche che i genitori avevano immaginato!

E questo stare a fianco tenderà a mostrare che il processo di crescita e di scelta è una realizzazione per entrambe le parti. Sia per i genitori: «Tu, mamma, saresti stata contenta se tuo figlio di cinque anni ti avesse chiesto di essere allattato al seno?». Certamente no, perché lo vedevi ormai come cresciuto! Sia per il figlio, il cui amore per i genitori non resta sempre uguale: un conto è amare i genitori da bambino di cinque anni, da quindicenne, da venticinquenne, da persona adulta che ha fatto una scelta di campo vocazionale, formandosi una famiglia o aprendosi ad una consacrazione.

La complessità della vita non ci offre delle risposte standard su come si sta accanto, ma solo l’invito a stare accanto con amore e accoglienza.

 

Se un giovane in cammino vocazionale trova la resistenza forte della famiglia, come aiutarlo?

Lo riscontro in tanti giovani che entrano in seminario, ma lo vedo anche in giovani che fanno un percorso di fidanzamento vero, autentico e serio. Io non vedo un’altra soluzione: mi sembra che l’orizzonte sia da una parte il riconoscere quell’onora il padre e la madre. A me piace molto quel termine “onora” perché è stato interpretato anche nel nuovo rito del matrimonio “amarti e onorarti tutti i giorni della vita”. È come il profumo di un tempo antico dove la dignità umana è riconosciuta, dove l’altro avrà una dignità che dovrai riconoscere.

Però dall’altro lato mi rendo conto anche che questi figli non crescono mai se non operano questo taglio dalla propria famiglia e questo taglio non è possibile se si sta tutta la vita ad aspettare il consenso dei genitori, perché a volte questo non arriverà mai. Così ti perdi la tua vocazione.

Noi siamo anche portatori di una paternità e maternità nuove che non possono mai sostituire quelle naturali, perché comunque occorre riconciliarsi con le proprie origini, cioè non si può andar via di casa sbattendo la porta. Questo vale per qualsiasi vocazione.

Per tutti viene l’ora delle scelte. Non credo ci sia un cliché, uno schema unico per il discernimento. C’è solo da restare in ascolto dello Spirito e delle persone. E nell’ascolto dello Spirito e delle persone a volte si riconoscono dei miracoli e le situazioni evolvono quando meno te lo aspetti.

 

Come aiutare a vivere questo conflitto senza rotture che producono ferite che si trascinano nel tempo, sia per il giovane sia per la famiglia?

Mariateresa Zattoni

Nel linguaggio comune le ferite sono per sempre. Ma se guardiamo bene, non è così: non sempre ciò che sembra un regresso lo è veramente! Un grande psichiatra e psicoterapeuta sistemico, Alfredo Canevaro, porta l’esempio del cormorano per parlare del dolore del “prendere il volo”.

I cormorani, prima di spiccare il volo definitivo, fanno dei tentativi di volo, poi tornano al nido e hanno dei comportamenti regressivi, tipici di fasi precedenti dello sviluppo che magari hanno lasciato da tempo. Ma, nel complesso, tutto questo processo che contempla questi momenti regressivi è progressivo, al punto che questo psicoterapeuta inventa il termine “re-progressivo”: infatti, il risultato finale è quello di un cormorano che spicca definitivamente il volo quando è maturo per farlo e nonostante i momenti regressivi che ha messo in atto.

Non possiamo sapere con certezza quando avviene il distacco definitivo. Non sempre coincide con il momento in cui il giovane o la giovane lasciano la propria famiglia, può avvenire anche dopo la consacrazione religiosa, anche dopo il matrimonio.

Una coppia abitava esattamente a metà strada dalle due famiglie d’origine. Ci diceva il marito che la moglie si sentiva in dovere di dare alla propria mamma il doppio di attenzioni, di tempo… di quanto dava alla mamma del marito. Quando siamo di fronte a manifestazioni di apparente ritorno indietro, dobbiamo pensare che la persona abbia bisogno di più tempo per imparare il distacco e non dobbiamo aver fretta: la lezione re-progressiva del cormorano diventa importante.

Si dice oggi che la maturità psicologica avviene verso i 25-30 anni; spesso la maturità emotiva si raggiunge ancora dopo! Non avere fretta vuol dire sapere che ci sarà un momento in cui la ferita del distacco sarà risanata. Quando si accompagna una persona a questo distacco, bisogna tenere ben salda questa certezza. Ogni passaggio nella maturazione può comportare sofferenze che, però, sono indirizzate alla vita. L’accompagnatore si trova oggi a gestire delle situazioni di distacco che anche solo 20-30 anni fa non erano pensabili in quanto l’autonomia era segnalata da comportamenti inequivocabili, socialmente condivisi (la prima busta paga, i rapporti sessuali dopo il matrimonio…). La società oggi non presenta più al giovane e ai genitori un itinerario di sviluppo. Oggi i genitori sono confusi e confondenti per cui il distacco diventa più doloroso e più lungo.

Certe ferite si trascinano nel tempo. Non possiamo però smettere di sperare che ci sarà un tempo in cui la ferita si rimargini.

 

Di fronte a situazioni familiari complicate, irregolari, possono nascere lo stesso scelte vocazionali significative e affidabili?

Don Paolo Gentili

Come Ufficio Nazionale della Famiglia abbiamo fatto la scelta di organizzare il prossimo Convegno Nazionale della Pastorale Familiare sull’accompagnamento delle famiglie che vivono la separazione.

Il titolo del Convegno è Luci di speranza per la famiglia ferita:

persone separate, e divorziati risposati nella comunità cristiana.

Nella mia esperienza ho visto più volte fiorire dai gineprai dei boccioli stupendi, cioè ragazzi che, pur avendo famiglie distrutte alle spalle, hanno fatto scelte di vita splendide!

In qualche modo tutti noi dobbiamo riconciliarci con gli eventi della vita. I ragazzi e i giovani che accompagniamo in questo cammino di riconciliazione con la propria vita li possiamo aiutare a scoprire che, per esempio, il fallimento del matrimonio dei genitori non è determinante, non segna in modo definitivo il futuro della vita. Anzi, proprio attingendo alla personale esperienza, può sorgere un adulto che può aiutare in modo veramente attento le famiglie che vivono la separazione. E questo adulto potrebbe essere un domani un prete con una sensibilità particolare nei confronti delle persone che soffrono a causa dei conflitti familiari. Potrebbe essere una religiosa che ha una sensibilità particolare per ragazzi che hanno alle spalle famiglie ferite, come ha vissuto lei. Potrebbe nascere un bellissimo matrimonio, dove i figli crescono in una famiglia salda. È il Signore che conferma e rinnova: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Il che non vuol dire cancellare il passato, ma far crescere in modo nuovo, quasi riprendendo tutto il passato, anche il negativo, anche le liti dei propri genitori, per farne una novità di vita. Un compito educativo importante è aiutare a scoprire che la propria storia può divenire una storia salvata. Questo è scoprire la vocazione: scoprire che la tua storia diventa storia salvata.

 

Come aiutare i giovani quando i genitori sono contrari alla loro “differenziazione” per evitare due atteggiamenti: da una parte l’opposizione difensiva, dall’altra cedere ai ricatti affettivi?

Gilberto Gillini

Comincerei a prendere in considerazione il racconto di questi giovani che sottostà alla loro domanda di aiuto a compiere un discernimento vocazionale.

Ogni persona che si trova in una interazione importante, come quella coniugale o genitoriale, vede/racconta/resta colpito dalla reazione dell’altro. Il marito racconta: «È lei che è una strega urlante». Di fatto cosa vede questo marito nella interazione con la moglie? Il comportamento della moglie e mette tra parentesi il suo. Tale visione è semplicistica: lo dobbiamo sapere!

Non voglio dire che il giovane, che mi viene a raccontare che i suoi genitori sono contrari alla sua vocazione, non stia dicendo la verità, ma certamente viene a dirmi la sua visione della realtà, esattamente come il marito che mi viene a dire: «Mia moglie è fatta così».

La prima domanda da porre a chi vi sta raccontando che: «Mia moglie è…»; «I miei genitori sono…»; «I miei superiori sono…»; «Il mio vescovo è…» dovrebbe essere: «Cosa fai tu perché l’altro ti risponda così?». Nella interazione si è sempre almeno in due. Il ragazzo che dice: «I miei genitori sono contrari alla mia differenziazione» è un ragazzo che ha sicuramente una sofferenza (e questa va accolta), ma non dobbiamo essere così ingenui da prendere per oro colato la sua narrazione e, anzi, dobbiamo aiutarlo ad uscire dalla sua semplificazione stereotipata. Il nostro chiedere non è per sapere “noi” più informazioni, ma deve servire “a