N.04
Luglio/Agosto 2011
Studi /

L’esperienza umana di Gesu’ nella famiglia di Nazareth

In seno alle Scritture ebraico-cristiane vi è una composizione musicale che custodisce una squisita promessa di felicità indirizzata all’uomo, il Salmo 128 (127) «Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su Israele!»L’uomo, protagonista del Salmo, è detto “beato”, “felice”, “benedetto”, “fecondo” (applicato più precisamente alla sposa), destinato al “bene”, alla “pace” e – stando anche all’augurio «possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» del v. 6 – all’”eccedenza” di vita.

Si tratta quindi di un inno alla fecondità con il quale la Scrittura ci presenta il progetto di Dio sull’uomo! La fecondità, infatti, è il “sogno” di Dio sulla vita di ogni uomo, è la prima e principale vocazione. Non si tratta soltanto o innanzitutto di generazione biologica, ma di pienezza di vita, realizzazione massima dell’attrazione per il bene che l’uomo reca scritto in sé, un bene che è per sua natura diffusivo, che è “attraente”. Paolo dice in altri termini ai Tessalonicesi che «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione!» (1Ts 4,3). La fecondità allora appare come un altro nome della santità. Chi sceglie il bene, lo serve e lo diffonde. Chi sceglie il bene, ama la vita propria e quella degli altri, se ne fa custode e promotore! Chi sceglie il bene compie la propria vocazione e incentiva quella altrui: punta dunque verso la santità!

Attraverso questo Salmo possiamo gettare lo sguardo all’interno delle pareti della famiglia di Nazareth, luogo dove il feriale si fa straordinario per effetto di un amore di carne che si impegna a corrispondere all’immenso amore di cielo di un Dio che si consegna tra le mani di due creature: una – il capolavoro tra le creature, l’immacolata – concepita senza macchia, l’altro – un uomo, un figlio di Adamo, della discendenza di Davide – segnato dalla fragilità della condizione umana, ma che ha preso sul serio la Parola di Dio e da essa si è lasciato trasformare di giorno in giorno e – come dice san Paolo – «di gloria in gloria» (2Cor 3,18). Dio si consegna ad una coppia, gli sposi di Nazareth, Maria e Giuseppe. Dio si affida all’amore di due creature. Scrive infatti Charles Peguy nel suo Portico del mistero della seconda virtù:«Bisogna aver fiducia in Dio, lui ha ben avuto fiducia in noi. Bisogna dare fiducia a Dio, lui ha ben dato fiducia a noi. (…) Dio ci ha affidato la nostra salvezza, la cura della nostra salvezza. Ha fatto dipendere da noi sia suo Figlio sia la nostra salvezza»1. Questo evento sorprendente – che Dio cioè ha fatto dipendere da noi suo Figlio e la nostra salvezza – appare evidente nelle pagine della Scrittura dove il Dio di Israele, il Padre di Gesù Cristo, ama affiancarsi all’uomo, passeggiare con lui e aprirgli percorsi di libertà percorrendo la via della fiducia. All’uomo, Dio affida il creato, dona una terra, consegna suo Figlio. Più precisamente Dio lo affida ad una famiglia umana.

Dio ha creato la famiglia a sua immagine, perché Egli è in se stesso pienezza di relazione. E la famiglia, come ricordano i vescovi negli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, «resta la comunità in cui si colloca la radice più intima e più potente della generazione alla vita, alla fede e all’amore» (n. 12). Di questo speciale “terreno” non sono tanto importanti le condizioni esteriori – l’agiatezza e il benessere, idolatrati nella cultura contemporanea – ma le disposizioni interiori della coppia. Lo ricordava anche il Santo Padre durante l’Angelus del 26 dicembre scorso: «Quant’è importante, allora, che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l’amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell’amore del padre e della madre. È questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita». Inoltre, nella comunità umana dove arriva un bambino ciò che conta è una testimonianza solare degli adulti, indispensabile al processo educativo, come ricordano ancora gli Orientamenti della CEI: «…il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale. Il legame che si instaura all’interno della famiglia sin dalla nascita lascia un’impronta indelebile. L’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo… Il ruolo dei genitori e della famiglia incide anche sulla rappresentazione e sull’esperienza di Dio» (n. 27). Ciò significa che la trasmissione dei valori più alti avviene in famiglia nella misura in cui “si respira Dio”, in un clima di fiducia dove traspare la testimonianza della gratuità e si bandisce ogni strumentalizzazione dell’altro:«Il processo educativo è efficace quando due persone si incontrano e si coinvolgono profondamente, quando il rapporto è instaurato e mantenuto in un clima di gratuità oltre la logica della funzionalità, rifuggendo dall’autoritarismo che soffoca la libertà e dal permissivismo che rende insignificante la relazione… la meta del cammino consiste nella perfezione dell’amore» (n. 28). L’uomo e la donna nel matrimonio vivono la ministerialità di chi è chiamato ad essere segno dell’amore di Dio che ha la caratteristica del prendersi cura. La santa famiglia di Nazareth ci rivela la grazia della gratuità, la vittoria del dono sulla logica della funzionalità, ci ricorda la potenza dell’amore che da Dio discende sulla terra e si sprigiona nella capacità di condivisione e di gratuità di una coppia di sposi!

  1. Familiari di Dio

La storia della famiglia di Nazareth è racchiusa nei cosiddetti Vangeli dell’Infanzia di Matteo e Luca. In essi l’uomo scopre la grande verità della sua chiamata ad essere «familiare di Dio» perché Dio si è fatto familiare dell’uomo (cf Ef 2,19-22). Noi siamo «familiari di Dio», siamo suoi intimi, sua dimora, e lo siamo perché lui per primo si è reso nostro familiare, diventando – come dice l’Apostolo Paolo nel bellissimo elogio a Cristo della Lettera ai Filippesi – «simile agli uomini» (Fil 2,7).

Dio non ha voluto che suo Figlio venisse sulla terra come un estraneo alle dinamiche costitutive del vivere umano, ma, come ci dice Paolo, «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4), nato cioè in quella dinamica relazionale in cui viene al mondo ogni uomo: il contatto con la famiglia e il contatto con la società. Dio sceglie questa “via” perché il Cristo abbia una parola credibile per gli uomini e perché, essendo simile a noi in tutto, fuorché nel peccato (cf Eb 4,15), egli possa beneficare l’umanità intera, noi: egli è venuto infatti «per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,5). Inoltre l’autore della Lettera agli Ebrei ci fornisce un altro aspetto dell’Incarnazione di Gesù e del suo essersi reso simile agli uomini entrando nella storia attraverso una famiglia, un popolo, una terra: Cristo Gesù si è reso in tutto simile ai fratelli proprio perché, in virtù di questa assunzione piena della condizione umana, si è reso completamente disponibile a «venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18).

  1. Il Figlio di Dio tra le cure di un uomo e una donna

Seguendo il racconto dei Vangeli dell’Infanzia, il Verbo di Dio, che è «prima di tutte le cose» (Col 1,17), si fa carne in modo divino (attraverso il concepimento verginale) e in modo umano (tra il calore dell’amore di un uomo e una donna che costituiscono una famiglia). Dio sceglie una donna (Maria, la vergine, un unicum nella storia dell’umanità, creatura nella quale non vi è ombra di peccato, giovane donna “trasformata per grazia”) e sceglie un uomo (Giuseppe, il giusto, del casato di Davide). Dio non ha delegato a “Maria soltanto” la responsabilità educativa di suo Figlio. Per Gesù infatti ha “sognato” una famiglia dove potesse crescere come ogni “figlio d’uomo”, circondato dal senso di sicurezza di una coppia stabile da cui promana il calore materno che rassicura e la spinta paterna che rende capaci di abitare il mondo. Dio ama e benedice la famiglia da sempre (è la benedizione che inaugura la Scrittura in Gen 1,28) poiché essa è epifania di comunione, luogo nel quale Dio affida all’uomo e alla donna «la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore» (FC 17). La famiglia è icona del dono di sé totale e definitivo, ma è anche la culla di un’autentica pastorale vocazionale, nell’attenzione ai doni, nella loro promozione e nell’esperienza del valore unico e irripetibile della propria vita. Dio ha scelto una famiglia perché crede nella forza dei legami, nella potenza dell’amore. Questa “potenza” oggi va riscoperta al più presto per salvare il mondo dall’anoressia di rapporti che minaccia la vitalità umana e la sopravvivenza della specie che Dio ha creato «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,27). In una società come la nostra, dove la famiglia è minacciata, esposta ai danni di una cultura edonista e individualista, la sua unità infranta, la sua capacità educativa delegata e dove la figura del padre è stata esentata dal compito educativo, la paternità di Giuseppe e la maternità di Maria nei confronti del Figlio di Dio sono quanto mai attuali.

Oggi infatti si assiste ad un processo accelerato di “decomposizione” o “sfaldamento” dei rapporti. Dice il sociologo Bauman: «Anziché riferire la propria esperienza e le proprie prospettive in termini di “rapporti” e “relazioni”, uomini e donne parlano sempre più spesso… di connessioni, di “connettersi” o di “essere connessi”. Anziché parlare di partner, preferiscono parlare di “reti” (networks)… A differenza di “relazioni”, “parentele”… che puntano l’accento sul reciproco impegno… il termine “rete” indica un contesto in cui è possibile con pari facilità entrare e uscire»2. L’uomo ha perso quell’intuizione che lo fa grande: sentire che il contatto con il mondo interiore dell’altro lo arricchisce. Tutto è esteriore, nulla è da cercare; non c’è più niente da scoprire, ma tutto è da consumare. L’attenzione è tutta rivolta alla bellezza che si “capta” ai sensi, ma non a quella percepibile con la ragione, cioè la verità, e tutto diviene avventura. Ma come dice Adamo nella splendida opera teatrale La bottega dell’orefice: «L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio – solo lui è Eternità»3. Nazareth invece appare come la casa della fatica delle scelte, del peso dato ai rapporti, del rispetto del disegno di Dio sull’altrui vita. È la casa del sacrificio, dell’impegno, della verità, dove si respira l’atmosfera del dono: è la casa della fiducia, fiducia in Dio e della fiducia reciproca tra gli sposi. Combinazione perfetta!

Nella casa di Nazareth avviene un duplice prodigio: la kenosi del Figlio di Dio che abbraccia la condizione umana per riscattarla dal male e la kenosi dell’uomo che abbraccia l’amore di Dio, ripristinando la comunione fontale e originale tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e la donna. I Vangeli dell’infanzia appaiono allora come un ritorno al giardino di Eden. Sono la riscrittura del capitolo 3 della Genesi: lì dominava il peccato dell’uomo, nei racconti dell’Infanzia emerge la grazia di Dio che sostiene, accompagna ed eleva l’uomo. Isha è l’aiuto di Ish non perché viene dalla di lui costola, non è un “pezzo” dell’uomo riadattato oppure una sua versione riveduta e corretta; è aiuto perché l’ha ricevuta in dono da Adonai, gratis. Non è il trofeo della sua bravura. È supplemento di vita, irruzione di gratuità, sfida, spazio di alterità, occasione di meraviglia, stupore e contemplazione di chi mi sta davanti e mi guarda finalmente negli occhi, alla mia stessa altezza… con quell’energia che più si spende più si riproduce, che è l’amore che è «della stessa materia della manna»4, perché se lo risparmi lo fai morire. I racconti dell’infanzia mostrano la presenza di un altro tipo di umanità: Maria e Giuseppe sono l’umanità che non disobbedisce alla Parola del Signore, ma le si sottomette. Che “trema” dinanzi alla Parola divina (cf Is 66,2).

  1. La maternità di Maria

Matteo e Luca descrivono l’ingresso sulla scena della storia di Maria. Appare la nuova madre dei viventi che diviene la madre del Figlio di Dio e che sarà anche la madre dei credenti, Maria, nuova Eva, quando amplia la sua maternità ai piedi della Croce ricevendo Giovanni come figlio ed entrando tra i beni del discepolo del Figlio suo. Maria è la donna che non si nasconde davanti a Dio, ma parte subito dopo che il Cielo viene a “passeggiare” nel giardino della sua vita. Maria non attende lusinghe, non si sente una dea, ma si sente “serva”, ancorando la sua fede a quella dei padri: questo la rende vero “aiuto” per l’umanità!

Maria di Nazareth, la «vite feconda» di cui parla la benedizione del Salmo 128,3 è la creatura che fa la gioia di Gesù nel suo Testamento, quando, pensando al prodigio che si è compiuto nel seno della sua mamma meravigliosa, dice: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Cuore innamorato quello di questa giovane figlia di Israele che attira la visita di Dio, il soffio della sua brezza leggera (cf 1Re 19,12) che le attraversa il cuore e poi il grembo per impiantare in lei la tenda divina (cf Gv 1,14).

Sì, perché l’amore rende il cuore capace di docilità. L’amore rende obbedienti e fa aprire gli orizzonti della propria esistenza. L’amore viene da Dio e attrae il suo favore. Per questo Maria è colmata dalla grazia (Lc 1,28), trasfigurata dalla gloria celeste. Dio è così affascinato dalla sua bellezza – che consiste nella sua povertà di spirito e nella sua purezza di cuore (cf Mt 5,3.8) – tanto che decide di vivere in lei concretamente, corporalmente. Ed ecco il prodigio dell’Incarnazione: il Dio che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere (cf 2Cor 6,18) da Altissimo e Trascendente qual è, decide di farsi piccolo, di farsi carne, carne umana soggetta alla fatica e alla precarietà!

Maria è la terra vergine, dove Dio depone il suo seme per farlo germogliare in questo mondo. Dio sceglie una terra vergine, vergine nel corpo, ma ancor più nell’animo, nei pensieri, nella volontà, perché Maria fa affidamento solo su Dio e può accoglierne la mirabile onnipotenza. Maria si fida di lui incondizionatamente: come concepirà senza l’intervento di un uomo? Dio lo sa, Dio lo può: la riempie del suo soffio e la musica arriva nel mondo.

La Madre tesse al Figlio un corpo di carne che ha i tratti somatici propri di un figlio di Adamo. Il loro rapporto è speciale: lei lo segue e lo promuove. A Cana, Maria, ospite d’onore, accende il riflettore sul figlio: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Gesù, da parte sua, accoglie la richiesta della madre. Egli vede in lei il modello di chi fa la volontà del Padre (cf Mt 12,50; Mc 3,35), l’icona di chi ascolta la Parola e la mette in pratica (cf Lc 8,21). Sulla Croce, poi, dona alla madre i suoi discepoli e affida la madre ai suoi discepoli (cf Gv 19,26-27). Mutuo scambio: come suo figlio, l’affida a Giovanni perché se ne prenda cura; come suo Dio, affida a lei i suoi figli perché non li lasci mai soli e li porti al Padre.

Sì, perché una mamma porta al padre, aiuta i figli a conoscere il padre e Maria, nel Magnificat che è tutta la sua vita, celebra la grandezza del Padre dei cieli e nella casa di Nazareth aiuta Gesù a conoscere Giuseppe e a riconoscere in lui il suo papà. E non mescola l’amore a Dio con l’amore a suo figlio, con l’amore al suo sposo Giuseppe. C’è spazio per tutti perché quando Dio creò il cuore umano lo fece a sua immagine: cioè senza pareti…

  1. La paternità di Giuseppe

Nella storia della salvezza è proprio Giuseppe che immette Gesù nella storia: «Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (Lc 2,21). In Israele la circoncisione era una prassi destinata ai maschi e questo obbligo era il padre ad adempierlo. Attraverso questo rito, Giuseppe immette il figlio nella storia dell’alleanza del Dio di Israele con Abramo, lo introduce nel suo casato che è «la casa e la famiglia di Davide» (Lc 2,4; cf anche Lc 1,27) e lo rende «figlio di Davide». Imponendo poi al bambino il nome «Gesù» (cf Mt 1,21) – prassi connessa alla circoncisione – Giuseppe lo fa entrare nel popolo santo di Dio con un nome teoforico (che porta cioè al suo interno quello di Dio) che significa: «Dio salva».

I Vangeli sinottici ci mostrano che l’Altissimo non chiede a Giuseppe di “fare” il padre, recitando la parte di un copione teatrale, ma di essere realmente padre, incarnando una missione e sviluppando un’identità, pienamente coinvolto nella dinamica educativa. Egli deve quindi assumere Gesù in tutto ciò che lo concerne. Giuseppe non rimpiazza nessuno, né usurpa spazi che non gli competono, ma abita totalmente lo spazio concessogli da Dio con una paternità (giuridica) che ha pari dignità di quella biologica: introdurre il bambino nella storia e partecipare attivamente alla sua crescita umana, in vista della migliore fioritura della sua missione salvifica universale. È questo infatti quanto il Signore gli aveva chiesto per mezzo dell’angelo:

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).Le pagine evangeliche relative all’infanzia di Gesù sottolineano inoltre che è iniziativa dell’Onnipotente stesso quella di convocare Giuseppe nel team dei suoi più intimi collaboratori. È Dio che gli ha chiesto di prendere il bambino (e sua madre): prima che fisicamente, piuttosto nella sua interiorità, cioè nello spazio dei suoi pensieri, delle sue decisioni, della sua volontà. Prendere il bambino quindi equivale a trattare il bambino come il suo proprio figlio e poi a proteggerlo, portarlo prima in Egitto (cf Mt 2,13) e poi, terminata la minaccia, a ricondurlo a casa (cf Mt 2,20). Giuseppe lo fa senza vacillare dinanzi ai pericoli; lo fa con determinazione, non gli pesa. Egli parte ed è ben “equipaggiato”, come direbbe l’Apostolo: non indossa un’armatura da guerra, ma la cintura della verità, la corazza della giustizia, lo scudo della fede, l’elmo della salvezza, la spada della Parola (cf Ef 6,14-17). Consapevole del dono prezioso che gli è stato affidato, Giuseppe custodisce e difende Gesù come un uomo forte e coraggioso. Giuseppe è guardiano della vita indifesa e custode di doni delicati e preziosi, come il bambino che gli è stato affidato e la verginità della sua sposa. Ed è talmente responsabile da provare angoscia all’unisono con Maria, quando non riescono a trovare Gesù (cf Lc 2,43-45). Soffre quando colui che ama non è più sotto i suoi occhi, sotto le sue “ali” paterne. Allora inizia una ricerca affannosa, simile a quella che attraversa tutto il poema del Cantico dei Cantici, che è la ricerca di chi si ama sopra ogni cosa. Perdere chi si ama è sperimentare la morte, bere un calice di dolore. Quest’uomo mite e docile però “risorge” quando nel Tempio vede un lampo di luce: è suo figlio che dialoga con i dottori. Giuseppe, prima terrorizzato, ora è un padre fiero! Il bimbo a cui ha insegnato a camminare secondo la Legge del Signore e che ha sollevato alla sua guancia per fargli sentire tutto il suo amore (cf Os 11,3.4) è davvero il motivo della sua gioia! Ogni insegnamento che gli ha impartito è stato recepito a perfezione. La gioia più grande di un padre è sapere che tutto ciò che è suo appartiene a suo figlio (cf Lc 15,31) e che questi lo manifesta e lo supera. E quando Gesù risponde al rimprovero di sua madre: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), Giuseppe non è umiliato nel sentire che il ragazzo che sta facendo crescere parli di «Padre mio» senza riferirsi a lui. In fondo sa che lui e Gesù sono anche fratelli, figli dello stesso Padre che è nei cieli, che è la fonte della sua stessa paternità. Giuseppe insegna ad ogni uomo a riscattare la paternità, a riconoscerla come dono e non fardello, come partecipazione dinamica al fascino della crescita umana che procede per emulazione di testimoni credibili e che inaugura una fase nuova della storia, dove l’equilibrio e l’armonia dei due sessi nell’opera educativa aprono le porte alla fioritura di un’umanità completa. Giuseppe è inoltre l’uomo che ripristina la giustizia nella relazione con la donna. Agli occhi di tutti dovrebbe accusare e lapidare la sua promessa sposa. Ma non lo fa. L’amore non ammette aggressione, ma se è vero produce riservatezza, attenzione, delicatezza, discrezione. Giuseppe, il falegname, l’artigiano, sa che l’amore non è tanto un prodotto finito, ma il processo della lavorazione del legno. L’amore lavora quel tronco informe che è l’uomo, è la pialla che lo accarezza con decisione e forza per dargli forma. Giuseppe sa che l’amore è fatica, che l’amore è travaglio, che l’amore è anche andare oltre le proprie ragioni… perché la natura dell’amore è fidarsi del sì detto all’altro e del sì ricevuto, anche se pronunciati col fiato corto…

Maria avanza nel percorso misterioso e impervio che il Signore le ha aperto davanti non da sola, ma sostenuta dalla fiducia e dal premuroso amore di Giuseppe che le dà credito, piena fiducia. Da lui impara l’audacia della fede che non vede. Anche Gesù impara da Giuseppe, che è in ebraico è Ioséf, participio presente del verbo iasàf, che vuole dire “aggiungere”, “accrescere”. Giuseppe è colui che aggiunge. Egli cresce dinanzi alla Parola di Dio, per questo può far crescere la Parola fatta carne e accrescere l’umanità. Giuseppe è l’uomo che conosce lo spreco dell’amore. Egli sa che amare è sprecare. È colui che crede alle parole sconvolgenti della sua sposa e alla voce di Dio che gli turbina nel sogno. Egli crede con l’eccedenza dell’amore, non con la penuria del calcolo. Giuseppe per amore esce dalla sua terra, sfida la strada, il rifiuto, da emigrante in attesa di un visto, insegnandoci che quando apri la tua vita a Dio, non hai più una tua dimora. Così l’uomo “accresce”, vale a dire fa crescere la storia umana, fa crescere suo figlio, custodisce la sua sposa. Giuseppe è l’uomo del silenzio, presenza discreta nella Scrittura, ma non inefficace. Presenza muta nella Scrittura, non per carenza espressiva, non per punizione divina, come Zaccaria, ma per sottomissione totale alla Parola che interferisce nei suoi piani per consegnargli una paternità unica, non condivisa da nessun altro uomo sulla terra, ma solo dal Cielo, dal Padre nostro che è nei cieli. È lui la creatura dell’attesa, l’uomo in attesa che si compiano le parole senza ricevere segni o garanzie. L’uomo della fede che sfida ogni miopia, che vede il sole del Messia nella notte del sacrificio e della rinuncia.

Egli è l’Adamo che accoglie e protegge la donna che gli è data in dono; è l’Abramo disposto a legare e a sacrificare il suo progetto più grande: continuare a far passare la vita in Israele, rispondere al comando divino di crescere per moltiplicarsi e soggiogare la terra.

Giuseppe è l’uomo nuovo che prima ancora che l’”ora” di Gesù faccia entrare l’umanità nella nuova ed eterna alleanza, vive con armonia l’alleanza con il Creatore e l’alleanza con la sua sposa Maria. È l’uomo giusto che ci insegna che l’amore non è un capriccio, non può dipendere dagli umori della giornata: l’amore è il fuoco sacro di Dio che incendia il roveto delle nostre vite, ma non ci distrugge, l’amore è sacrificio, cioè azione sacra, della stessa natura del culto, sa di eucaristico, è gratitudine senza misura, è santo spreco, è vita spezzata per farsi dono.

  1. La figliolanza di Gesù

In questa famiglia Gesù inizia la sua esistenza terrena come ogni uomo la inizia: viene concepito nel grembo di una donna e viene partorito all’interno di una famiglia umana. È nella famiglia di Nazareth, con Maria e Giuseppe, che il Dio fattosi uomo passa la quasi totalità del suo tempo umano. Si fa bambino e si fa figlio. I bambini non agiscono autonomamente, osservano e imparano per imitazione dal genitore. Appropriarsi dei gesti e delle parole del padre e della madre è espressione di fiducia incondizionata, senza misura! I bambini non conoscono la misura della fiducia. Essi sono la personificazione della fiducia! Gesù nel rapporto con Giuseppe deve imparare a sperimentare quella figliolanza che vive divinamente nei confronti del Padre. E quindi Giuseppe deve semplicemente essere la perfetta immagine del volto del Padre celeste. Nella figliolanza di Gesù si incontra il cammino dell’uomo, che deve imparare a lasciarsi amare da Dio, e il cammino di Dio, che si mostra “indifeso” perché l’uomo possa sviluppare tutta la sua capacità di amare e di contraccambiare con le sue potenzialità l’immenso amore di Dio descritto dal profeta Osea:

«Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare… Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,1.3.4.8).

L’esperienza umana di Gesù e la sua figliolanza umana ci insegnano l’importanza dell’essere iniziati alla fede. Infatti le figure di Maria e Giuseppe, sposi e madre e padre di Gesù, e la figliolanza umana di Gesù possono ricordarci la grazia che è racchiusa tra le pareti domestiche, la bellezza del matrimonio vissuto in Dio, la luminosità di un ambiente familiare “impregnato” d’amore, di rispetto e di attenzioni.

La santità è un dono di Dio, ma è anche un dono che possiamo scambiarci reciprocamente. I cristiani non sono invitati solo ad una santità individuale, ma anche familiare.

Ricorderemo l’esperienza dei coniugi Zélie e Louis Martin, i genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino, beatificati il 19 ottobre 2008. La santa amava molto i suoi genitori ed era profondamente grata a Dio per il dono che erano stati per lei. Essi erano il terreno in cui lei era vissuta e dal quale aveva ricevuto non solo l’esistenza, ma tutto ciò che l’aveva aiutata a realizzare in sé il progetto di Dio. Senza questi genitori santi, forse, non avremmo avuto questa Santa che parlando di loro si esprime così: «Il buon Dio mi ha dato un padre e una madre più degni del cielo che della terra»5. Nella sua Storia di un’anima dice ancora: «Il fiore che sta per raccontare la sua storia si rallegra di dover fare conoscere le premure del tutto gratuite di Gesù… È Lui che l’ha fatto nascere in una terra santa, e come tutta impregnata di profumo verginale»6. La famiglia non dev’essere solo l’oggetto dell’azione pastorale della Chiesa, ma la “terra santa”, la scuola che rende presente il significato dell’investimento di sé: in essa si coltivano l’abbraccio costoso e gioioso alla quotidianità, la fedeltà agli impegni, la responsabilità, l’ascolto dell’altro, la fecondità, la disponibilità a spendersi, a trasfigurarsi in dono.

È possibile vedere Dio Trinità dentro la famiglia, comunità d’Amore, che trasmette una fede genuina, come accade per Timoteo, di cui l’Apostolo ricorda la fede schietta, «fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2Tm 1,3-5), fede che si trasmette innanzi tutto per via familiare.

  1. La famiglia, luogo di iniziazione alla fede

La vera fede, quella che Paolo definisce «priva di ipocrisia» (anypokritos pistis), è quella che l’uomo non pretende di creare da sé, ma che riceve dall’alto e da quanti lo hanno preceduto. Essa non aliena l’uomo, ma si presenta piuttosto come una realtà che tesse la sua vita in una fitta rete di relazioni, una realtà che non può esistere senza rendere l’uomo parte di una comunità, di una famiglia, senza aiutarlo a fare corpo con gli altri. La fede non è un “fai-da-te”, ma una consegna! La fede si riceve e poi va trasmessa, altrimenti sfiorisce. La fede nasce dalla relazione e produce relazioni. La vera fede è dinamica: ha radici e porta frutto!

Paolo riconosce il frutto della fede di Timoteo nel suo servire il Signore con coscienza pura e la radice di questa fede nell’esempio dei suoi antenati: nella nonna Lòide, prima, e nella madre Eunìce, dopo. Paolo vede nella famiglia un luogo favorevole di trasmissione e di crescita della fede. Lòide incontra Dio nel suo cuore e aderisce a lui e ai suoi precetti e, dopo aver generato Eunìce, le comunica tutto il suo bagaglio di fede: affidamento a Dio, docilità, comandamenti. Eunìce riceve questo tesoro dalla madre, lo accoglie e lo investe nell’educazione di suo figlio Timoteo. Risultato: il tesoro si moltiplica… e la ricchezza della famiglia aumenta. Questa la vera eredità: scoprire, all’interno della propria famiglia, di essere familiari di Dio! Allora la famiglia acquista un’ottica nuova. La famiglia non è stata pensata da Dio come un albergo dove farci alloggiare in questo esilio sulla terra, ma come un grembo dove essere educati ai valori più alti, una palestra per saper vivere sulla terra tenendo fisso lo sguardo al cielo. La famiglia è una scuola di fede, dove si imparano la sottomissione, la docilità e la corresponsabilità; è il primo luogo della “degustazione” della comunione dei santi; è infine l’epifania tangibile della comunione d’amore che abita il Dio Trino. Per concludere, potremmo dire che Maria, Giuseppe e Gesù nel loro essere famiglia ci presentano una nuova dinamica dei rapporti: dalle loro relazioni emerge la pastorale del prendersi cura dove l’amore per Dio e l’amore per il prossimo raggiungono l’alleanza più intima! Ci insegnano che la famiglia è il terreno più fecondo per la fioritura della nostra umanità e il suo calore è ciò che favorisce la crescita integrale dell’uomo, mediante un chinarsi sull’altro per prendersene cura in toto. Maria, Giuseppe e Gesù ci insegnano che è la famiglia il luogo dove s’innesta una vocazione e dove questa viene “vagliata”, “provata”, dove cresce… Scoprire la propria vocazione non è esperienza visiva, ma uditiva. Richiede orecchio… è questione di “vento”, di soffio divino che scalda l’atmosfera dell’esistenza e dà fiato alle movenze più intime del cuore. E l’orecchio viene “scavato” proprio in famiglia… dove l’ascolto della voce dei genitori può diventare, come dice la sapienza biblica, l’apprendistato della voce di Dio. Accogliere una vocazione è infatti abbandonarsi e al vento silente dell’Horeb e a quello eloquente di Pentecoste; è fare l’esperienza dell’incomprensione dei propri cari e poi quello di un dialogo rinnovato con essi, scoprendo che una vocazione non si spiega ma si vive, che non si attendono per essa approvazioni o plausi, ma bisogna accettare anche la morte e l’incomunicabilità con le persone amate per rinascere a una libertà più grande. La verità di una vocazione è infatti un itinerario, una “salita” verso la libertà interiore, quella che permette di essere libero da tutti per essere servo di tutti (cf 1Cor 9,19) e che ha bisogno di quel rinnegare se stessi che si apprende solo a partire dall’atmosfera del dono di un’autentica famiglia. Nella Scrittura possiamo scoprire come Paolo, campione della libertà interiore, insegna ai suoi figli nella fede a essere liberi rispetto alle convenzioni sociali e alla Legge, a lasciarsi “ri-configurare” l’esistenza a partire da quella libertà nello Spirito che regola e garantisce i rapporti tra fratelli (cf Lettera a Filemone). Paolo insegna che accogliere la Parola di Dio ed essere «in Cristo» è andare oltre la logica dell’egoismo ed è ciò che istaura nella società una nuova “architettura” di relazioni ed è anche ciò che porta ad un incremento di solidarietà tra gli uomini.

La gratuità che si respira tra le pareti della casa di Nazareth ci insegna la vera “atmosfera” di un’opera educativa feconda, dove ci si nutre di fiducia e si diffonde fiducia e dove le relazioni non sono il luogo dove reperire me stesso strumentalizzando l’altro, ma l’esperienza di una sorta di superamento di sé perché l’altro trovi ospitalità nelle mie progettualità, oltre le mie risicate misure. Ciò apre davanti a noi una via sicura anche alla trascendenza, un cammino certo verso Dio. È la Pentecoste d’amore, più volte invocata, che può svegliare la gratuità. In vista di questa Pentecoste dobbiamo renderci più vulnerabili all’amore, investendo il nostro «microcosmo del nostro sentire»7 in rapporti veri. Anche noi, come Maria e Giuseppe, siamo invitati ad imboccare la via della Parola di Dio, che arde del fuoco di Dio, che spinge oltre le proprie ragioni e lancia nella danza della fede, invitandoci a camminare per condurci verso la libertà più profonda. La famiglia di Nazareth ci invita a vivere anche le contrarietà col sorriso luminoso che viene dalla forza della comunione. Essa ci insegna che l’Incarnazione del Verbo della vita passa attraverso l’ospitalità di due cuori umani generosi nei confronti dell’Altissimo e attraverso quella speciale e amorevole di Dio nei nostri confronti. Gesù, Giuseppe e Maria ci insegnano che abbracciare il progetto di Dio per noi corrisponde ad abbracciare gli uomini e la storia con l’abbraccio di Dio, “pneumatoforo”, contagioso di Spirito Santo e di vita, e ci invitano a fare di quell’abbraccio l’espressione di una cura e di una dedizione che ha ancora il potere di sollevare l’uomo alla guancia paterna e materna di Dio (cf Os 11,4).