N.04
Luglio/Agosto 2011
Studi /

Spiritualità familiare e prospettiva vocazionale

Il tema che mi avete affidato ha come punto focale il rapporto famiglia e vocazione. La chiamata è udibile sempre e solo dentro una relazione: anzitutto la relazione che ci chiama alla vita e poi la relazione che ci fa udire la chiamata alla vocazione, cioè alla vita buona. La chiamata è perciò possibile solo dentro la relazione che ci genera, che dà alla luce una vita e che dà una luce per vivere.

La famiglia è il grembo generante senza il quale non è possibile udire la promessa di vita buona che essa ci dona. La famiglia è il luogo originario della vocazione, perché ci dona la vita come promessa e apre lo spazio e il tempo perché la promessa possa essere scelta e portata a compimento. Famiglia e vocazione sono pertanto strettamente connesse. La vocazione della famiglia è rendere possibile la vita come vocazione, prima della coppia e poi dei figli.

 

  1. «Perché mi cercavate? Non sapevate che…» (Lc 2,40-52)

Per svolgere il nostro tema ho pensato di riferirmi al testo evangelico (Lc 2,40-52) che contiene una parola di Gesù mentre passa alla vita adulta e in cui fa valere la propria vocazione di «essere nelle (cose/dimora/relazione) del Padre suo» (Lc 2,49). Il testo è di intensa bellezza, perché è l’unico brano che ci ricorda una parola di Gesù mentre diventa grande; ed è di forte attualità, perché il suo linguaggio richiama molto da vicino i discorsi che ascoltiamo anche oggi.

 

a) Ritornello della crescita. 40Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
b) Introduzione geografica: i genitori salgono con

Gesù.

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa;
A] Gesù resta a Gerusalemme. 43ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
B] Perdita e ricerca (narrata) di Gesù. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
A1] Ritrovamento nel Tempio e reazioni. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
B1] Perdita e ricerca(dialogata) di Gesù. 48Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere nella (dimora) del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
b’) Conclusione geografica. Ritorno a Nazareth.

 

51Scese, dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
a’) Ritornello della crescita.

 

52E Gesù cresceva in sapienza, età (maturità) e grazia davanti a Dio e agli uomini.

 

La struttura narrativa

La struttura del racconto è relativamente semplice. L’episodio si snoda con una dinamica perfetta – Luca è un narratore consumato – perché, come si vede, il racconto ha una struttura concentrica, facile da riconoscere, e un climax (movimento) narrativo ascendente che culmina nella dichiarazione misteriosa di Gesù. Il figlio cercato, perso e ritrovato (B: momento narrato) viene perso di nuovo come “figlio” di Maria e Giuseppe e deve essere ricercato come figlio “del Padre suo” (B1: momento dialogato). Così la ripetizione dei due momenti centrali del brano (B e B1) mettono sull’avviso il lettore: non si tratta di una semplice scappatella, come succede a molti nel passaggio adolescenziale, ma il dialogo interpreta in modo anticipato la vicenda di Gesù adulto, che in qualche modo è anticipata nella storia con cui ogni figlio entra nell’avventura della vita.

  1. Il “segreto” di Nazareth

Sembra un paradosso: il nostro testo – tutto dislocato su Gerusalemme – ci introduce al “segreto” di Nazareth. A Nazareth, infatti, non è ambientato nessun racconto e gli evangelisti si riferiscono solo ad alcuni ricordi sommari. Eppure Nazareth è il periodo più lungo della vita di Gesù, è il periodo della sua incarnazione, cioè del suo prendere una carne umana, del suo entrare in una storia come la nostra, del suo farsi uno di noi. Si noti che sono trent’anni di assoluto silenzio, rotti solo da questo episodio e dalla parola che squarcia l’umiltà di Nazareth. Entriamo anche noi, come da dietro le quinte, nel mistero di Nazareth.

2.1 La famiglia e la promessa: l’incubazione della Parola

Il “segreto” di Nazareth è tutto concentrato nel ritornello, introdotto dalla frase seguente: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,40). Il segreto di Nazareth parla del mistero di Gesù in un modo singolare. Formuliamolo in modo semplice: Gesù, la Parola che viene dall’alto, il figlio del Padre, si fa bambino, cresce come un ragazzo in una famiglia, assume la nostra umanità, diventa come uno di noi. Così diciamo spesso a Natale e questo fatto suscita la nostra tenerezza. Vedere il “figlio dell’Altissimo” vestire i panni della fragilità, della povertà, nascere dal grembo della Vergine, abitare una famiglia che l’evangelista colloca nel solco degli anawîm, dei poveri di Jhwh, vederlo accompagnato dai pastori e da personaggi che esprimono la parte migliore della speranza di Israele, tutto ciò suscita in noi la nostalgia che ogni uomo sente nascere dentro di sé a Natale. Tutto questo, però, non è il mistero di Nazareth, l’infanzia di Gesù che ha affascinato Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld. Anche queste figure spirituali hanno prestato la loro psicologia e la loro esperienza per vivere il mistero di Nazareth, come mistero del nascondimento e del silenzio! Questa, però, è solo la superficie del mistero di Nazareth, ne è come la teca che nasconde un segreto prezioso. Gesù, la Parola che è nel seno del Padre, il Figlio unico, non solo si fa figlio della Vergine, diventa uno di noi, ma cresce nella “sapienza e nella grazia”. Riceve la propria umanità come uno di noi, anzi, la assume come il figlio singolare del Dio dei Padri. Ecco, allora, il segreto di Nazareth. Diciamolo con una frase un po’ alta, per poi rileggerlo nella concretezza del panorama di Nazareth: Gesù, la Parola di Dio in persona, si è sottoposto ad una lunga incubazione nelle fibre della nostra umanità (trent’anni), perché fosse possibile che il ministero della parola/azione di Gesù (in soli tre anni) facesse quasi esplodere dal di dentro il linguaggio umano, abilitandolo a diventare il tramite della Parola di Dio. Le parole di Gesù, le sue immagini, la sua insuperata capacità di guardare i campi, il contadino che semina, la messe che biondeggia, la donna che impasta la farina, il pastore che ha perso la sua pecora, il padre e i suoi figli diversi, il pescatore che raccoglie a riva i pesci, la sua sorprendente tendenza a raccontare, a paragonare, a immaginare, a pregare nella e con la vita, da dove vengono se non dall’humus, dalla terra e dall’immersione nella vita brulicante di Nazareth? Per questo Nazareth è il luogo dell’umiltà e del nascondimento: lì la parola si nasconde, lì il seme scende nel grembo della terra e muore per portare poi (in tre soli anni), molto frutto, tutto il dono Dio. Questo è il mistero di Nazareth!

Quanto abbiamo detto, però, non è ancora collocato bene nella dinamica del racconto che abbiamo ascoltato. Gesù viene presentato nell’ambito della sua famiglia dentro la spiritualità giudaica di piena fedeltà alla Legge. La famiglia e la Legge sono i due contesti dove Gesù cresce in sapienza, lui che è la Sapienza stessa, più grande di Salomone (7,3), e dove la grazia di Dio dimora sopra di lui, lui che ha riempito la Vergine di grazia (“piena di grazia”). Bisognerebbe conoscere bene la famiglia ebraica e la religiosità giudaica, una famiglia patriarcale e una religione domestica, per comprendere tutto il lavorìo di incubazione della Parola di Dio.

Questo è il mistero di Nazareth: c’è un aspetto che riguarda solo Gesù, la lunga incubazione che il Figlio del Padre ha vissuto e sperimentato dentro il linguaggio umano e dentro la storia del suo popolo; ma c’è un aspetto che tocca il nostro essere figli, perché anche noi non siamo stati generati solo una volta, ma continuiamo ad essere generati. Anche noi diventiamo ciò che abbiamo ricevuto.

Il mistero di Nazareth è anche per noi la famiglia e la religiosità, le nostre radici e la nostra gente. Prima per noi adulti e poi per i figli che generiamo. Non c’è nessuna avventura della vita che non parta da ciò che abbiamo ricevuto: la vita, la casa, l’affetto, la lingua (madre), la fede e le forme religiose con cui si esprimono. Questa è la nostra umanità e la sapienza che ci è donata. Tutto il cammino che potremo fare nell’esistenza sino alle vette del mistero di Dio, o alla dedizione sconfinata verso il fratello, viene da questo linguaggio originario. La nostra umanità è forgiata da questa grammatica di base, con le sue ricchezze e le sue povertà, a cui bisogna essere grati. Anche Gesù non ha avuto paura di attraversarla. Questa grazia contiene una promessa che ci fa prendere il largo…

2.2 Dalla coppia alla famiglia: la vocazione generante

Al termine di ciascuna parte della nostra riflessione suggerisco alcune indicazioni teologico-pratiche per la vita familiare. La vita della coppia ad un certo punto sente che l’amore, la fecondità della vita a due, l’intensità della dedizione che l’attraversa diventano desiderio di generazione in senso proprio: qui la coppia diventa famiglia. Così che, quand’anche non avesse o non potesse avere figli, sente che questo eccesso iscritto nell’amore di coppia deve in qualche modo espandersi. L’amore è generante per il fatto stesso di essere amore, il figlio non è che il frutto più alto di una fecondità che esplode nella vita stessa della coppia: se la vita a due è povera, faticosa, frenetica, preoccupata solo della propria carriera, se non genera un’atmosfera di gioia, di festa, di gratuità, di tenerezza, di serenità, di preghiera, di perdono, quando arriva il figlio nasce in una casa senza ossigeno e senza calore. Poi quando viene il tempo di generare – oggi sempre più tardi – è difficile costruire un clima in breve tempo e purtroppo alla città mercato non esiste nessun kit che crei l’ “atmosfera familiare”. Gesù nasce nel grembo della famiglia e della religiosità ebraica: pur essendo il Figlio, ha ricevuto in trenta interminabili anni l’umanità e la religiosità dentro il grembo generante della cultura religiosa giudaica. Vi propongo due atteggiamenti per far crescere questa “atmosfera” di una famiglia che “trasmette”.

Saper donare e lasciar ricevere

Il primo atteggiamento è quello del dono: il dono è una cosa facile per la coppia, ma può diventare anche un’insidia. La forma elementare del dono assume la figura del cibo e dell’affetto: si comprende bene che il cibo/affetto non può essere dato senza lasciare lo spazio per riceverlo. Un eccesso di alimentazione e un affetto soffocante generano un figlio obeso e dipendente, così come la mancanza di cura o la carenza affettiva generano un figlio senza stima del corpo e senza interiorità. Come fare a trovare il ritmo giusto tra cura e attesa, tra nutrimento e assimilazione, tra affetto donato e desiderio di riceverlo? Un’indicazione mi sembra importante: l’arrivo del figlio sposta la coppia da una relazione duale a una relazione a tre. È facile che il terzo (il figlio) entri come un turbine nella vita a due e scompensi i loro rapporti, che l’atmosfera della coppia non sappia più riconoscere i tempi di prima. È urgente vigilare proprio adesso sulla relazione di coppia, imparare a dirsi e a vivere molte cose in poco tempo, altrimenti la relazione di cura e di affetto con il figlio diventerà (specie per la madre) facilmente un sostituto del rapporto col padre che spesso è assente, mentre è occupato nella sua carriera professionale… Nel passaggio dalla coppia alla famiglia, non solo la coppia deve rimanere, ma ha bisogno di trovare un nuovo modo di essere coppia.

Scegliere e lasciar scegliere

Il secondo atteggiamento è quello della scelta: l’allargamento alla famiglia impone scelte nuove, riguardo alle cose, ai tempi e alle priorità. Finisce il momento dove bastava l’intesa complice tra i due, lungamente affinata dal corteggiamento e nell’innamoramento. Ora viene il tempo delle scelte, per ridare un ordine nuovo al mondo (di casa) scombussolato dalla presenza del figlio, per accorgerci che è arrivato veramente un altro, una nuova vita e una nuova libertà. Il mondo dell’altro irrompe nella casa: è il “nostro” figlio, ma non è un figlio “nostro”, è una promessa che ha iniziato il “suo” cammino. Questo impone ai due genitori di scegliere e poi, sempre più mentre il figlio diventerà grande, di lasciare il tempo e di insegnare il mestiere di scegliere.

Due cose sono qui importanti: scegliere significa che non si può più vivere con l’ottica della sola coppia e che bisogna tener conto che ora si è una piccola comunità e come una piccola chiesa. La libertà che i due sposi avevano costruito insieme deve far spazio e dare tempo, perché anche il nuovo venuto costruisca la sua libertà. L’incontro dell’uomo e della donna è stato un incontro tra due libertà adulte (pur con tutti i loro limiti), che poteva in qualche modo far conto sulle responsabilità di ciascuno. La libertà del figlio si dovrà costruire come responsabilità, come capacità di rispondere, non solo ai genitori, ma alla fine rispondere di sé dinanzi alla vita. Per questo – ed è la seconda cosa importante – è necessario concedere tempo alla “parola”. Prima nella forma del racconto, perché l’atmosfera familiare si trasmette con il racconto e il rito. Poi con la forma della parola detta e data che trasmette fiducia, desideri, speranze, giudizi, valori, regole. La famiglia è il tempo della parola raccontata e promessa: racconto e parola sono i modi con cui le forme pratiche della vita trasmesse nei primi anni ricevono senso e creano lo spazio per scegliere. Diciamolo chiaramente con il linguaggio che usano tutti: i valori non si trasmettono come le cose comprate all’outlet, riempiendo il figlio come un armadio di casa, ma hanno bisogno di complicità, di tempo, di racconto, di parola. Diamo meno cose, lasciamo che il figlio le possa conquistare: diamo invece più tempo, più racconto, più parola. Lì verranno trasmesse la fiducia nella vita, il senso di responsabilità e l’apertura al mondo.

  1. Perdita e ritrovamento: alla ricerca del Figlio

Ora prendano avvio l’azione e il racconto, la ricerca di chi è Gesù e di chi siamo noi. Essa ha un luogo e un tempo, Gerusalemme e la Pasqua, prima per Gesù e poi per noi. Voglio far notare che il movimento di salita a Gerusalemme avviene insieme, i genitori e Gesù. È come il movimento che porta nel cammino della vita, verso la vita buona e beata. I genitori, ogni anno, ripetutamente, vanno alla città santa, per la festa di Pasqua, nel cuore della fede ebraica. Anche Gesù, quando diventa adulto (al compimento del dodicesimo anno, quando il ragazzo ebreo diventa bar mizwa, figlio del precetto, con i diritti e i doveri che la Legge gli conferisce), parte con i suoi genitori. Il pellegrinaggio a Gerusalemme non può partire che da loro e con loro. Il ministero di Gesù inizia dentro una famiglia, nel solco della religiosità di un popolo, nello slancio dell’attesa ardente di Israele. Seguendo i suoi genitori, nel tessuto dei legami di Nazareth, Gesù va per la prima volta a Gerusalemme. I genitori vi salgono “di nuovo” secondo la consuetudine (kat’étos). Questa volta però partono in modo nuovo, perché non sarà un anno come gli altri. Sembra che sia un anno come prima, ma c’è una novità: Gesù passa alla vita adulta. Dentro questo salire di nuovo si delinea la prima azione di Gesù: egli scompare, sparisce, si perde e va ricercato nuovamente. Gesù rimane a Gerusalemme, non sta più con i suoi; resta nel Tempio, non sta più sottomesso ai genitori come intima la Legge; prende la sua strada proprio per dare compimento alla volontà di Dio espressa nella Legge. Gerusalemme, la Pasqua, il Tempio sono i segnali del suo destino, della sua missione. Leggendo il testo il lettore sa che Gesù non si è perso, ma che Gesù è rimasto a Gerusalemme, non sa però dove sia e perché sia rimasto là.

Anche noi con i genitori siamo alla ricerca di Gesù, così come tante volte dovremo, in questi anni, tornare alla ricerca dei figli! Anche noi si deve partire, tornare a Gerusalemme con Maria e Giuseppe. Comincia il tempo della ricerca. Essa si snoda in tre tappe: c’è un perdere, un non trovare e un ri-cercare. E si muove in due direzioni: prima cerca nella direzione sbagliata (nella carovana), poi arrischia di cercare in un’altra direzione (tornando sui propri passi). È un viaggio avventuroso che ha un termine: “dopo tre giorni”, un punto d’incontro, connotato in modo pasquale. Sarà una pasqua, un passaggio, un transito cruciale! Dov’è Gesù? Il ritrovamento avviene dove nessuno s’attende. Gesù, ritrovato al Tempio, fa tirare ai genitori un sospiro di sollievo; invece per noi è una sorpresa, perché Gesù è lì in mezzo ai “maestri”. Mentre i genitori sembrano rasserenati per aver ritrovato il figlio, il lettore è intrigato nel vederlo che interroga e ascolta. E Luca fa notare ai presenti (alla scena e al racconto): «E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (2,47). La scena raggiunge finalmente il suo vertice: suscita lo stupore, rinnova la meraviglia per questo bambino. Lo stesso stupore e la stessa meraviglia che susciterà il perdere, il non trovare e il cercare di nuovo i nostri figli. Vorrei farvi sostare per un momento sugli aspetti e i tempi della ricerca. La loro narrazione sintetica non deve nascondere che essi rappresentano una costante nella vita di ogni figlio, nel momento della generazione alla vita adulta. Per Gesù è giunto il momento di passare alla vita adulta. Anche per i figli giunge il momento di diventar grandi. L’adolescenza oggi sta diventando, nella vita di un ragazzo e di un giovane, una condizione “dilazionata”, “prorogata” o per qualcuno persino “interminabile”. È bello vedere che anche per Gesù, pur nella cifra di “tre giorni”, questo tempo ha comportato un “sottrarsi” (e un essere perso da parte dei genitori), un “non essere trovato” perché cercato nella direzione sbagliata (nella “comitiva”, ancora nell’ambito del grembo familiare) e ha richiesto una “nuova ricerca” che porta in direzione opposta a Nazareth, verso Gerusalemme, verso il luogo del “suo esodo”. Anche questo è il segreto di Nazareth. Nazareth non è uno spazio chiuso, ma ha una porta aperta. È uno spazio da cui bisogna partire, è una promessa che chiede di essere scelta.

3.1 La famiglia che fa partire: perdita e ritrovamento del figlio

Riprendiamo il nostro tema: il rapporto tra famiglia e vocazione. La famiglia è il grembo generante che, attraverso la cura, l’affetto e la parola, dona la vita con il senso della fiducia, della responsabilità e dell’apertura al mondo. La famiglia che ha generato non dà solo la vita, ma deve lasciare che la vita parta, cioè che segua la promessa che porta con sé. Ogni partenza è una perdita, ogni perdita chiede una nuova ricerca, ogni ricerca nuova comporta un trovare in modo diverso. Qui voglio indicarvi tre momenti decisivi di questo passaggio cruciale che nel racconto di Nazareth hanno la misura di tre giorni. «Dopo tre giorni»: il “terzo giorno” è un tempo pasquale, che contiene un passaggio, un tempo cruciale, che letteralmente “mette in croce”. Non dimentichiamolo, è una croce che porta alla risurrezione, o meglio, che riceverà in dono – non sappiamo quando e come – la vita risorta. I suoi momenti sono tre, lungo un tempo che oggi ha assunto una distensione interminabile.

L’angoscia della perdita

La cosa più drammatica che si sperimenta quando il figlio diventa grande e deve fare la sua strada è l’angoscia della perdita. I genitori devono passare dal figlio sognato al figlio reale, dal figlio che è quasi una protesi del loro desiderio al figlio che deve crescere rispondendo alla chiamata della vita. «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo…». Ciò impone di elaborare questa angoscia, di tenerci forte per mano, perché il figlio scompare come lo avevamo desiderato e pensato, sembra sparire dall’orizzonte da noi sognato.

Senza questo lutto guardato in faccia ad occhi aperti non nasce una vocazione: lo si vede già nella drammatica della scelta della scuola, poi degli amici e della compagnia, poi dei tempi dello studio e del divertimento, infine, della scelta di vita, della vocazione. È importante che questa angoscia non sia vissuta solo come un lutto o una privazione di noi («Figlio mio, perché “ci” hai fatto questo…»), ma come un “dramma” (da drama, azione), cioè come un metterci “in gioco” di nuovo, come uno “stare nella relazione”, come un tiro alla fune che mette in campo di nuovo la libertà dei genitori e del figlio, delle cose date e ricevute, delle parole da dire in modo nuovo, del racconto che comunica ragioni e delle ragioni che non smettono di alimentarsi ai gesti di cura e responsabilità.

Una nuova ricerca

Il secondo momento impone una “nuova” ricerca. Nel testo che stiamo commentando, la ricerca di Maria e Giuseppe va anzitutto nella direzione sbagliata: cerca ancora nel grembo familiare, nella comitiva dei parenti, nella direzione del passato. No, bisogna cercare dall’altra parte. Bisogna ascoltare insieme con i figli la voce della vita che chiama: occorre farla ascoltare e ascoltarla insieme a loro. Non bisogna pensare che sia la stessa voce che ha chiamato noi. È sempre la vita che chiama, ma essa chiama in modo diverso se la ascoltiamo anche noi genitori, educatori, catechisti, amici, sacerdoti, con loro e mettendoci insieme a loro. E si tratta di un ricercare di nuovo, di un ritornare sui propri passi, di un muoversi ancora. Ma, soprattutto, il modo “nuovo” di ricercare ha la forma di un tempo cruciale, che mette “in croce”, perché comporta di agire, di camminare. Si capisce scegliendo e si sceglie comprendendo sempre di più (che cos’è, se non questo, il discernimento di una vocazione?).

Occorre comprendere che la chiamata della vita non è subito chiara fin dall’inizio, essa ha la forma di un’intuizione sorprendente (ti prende-come-da-sopra) che chiede un cimento, è una sfida che domanda di investire tempo e anche se stessi, ha bisogno di un coraggio che non propone solo scelte, ma richiede di scegliersi per darsi un volto: il volto della vocazione singolare che risponde alla propria chiamata. Impone, in altre parole, il coraggio di agire, di prestar fede (può persino essere il luogo di un nuovo venire alla fede) alla promessa che la vita porta con sé.

Verso un rapporto a tre: testimoni della vita che chiama

Ai genitori (e a tutti gli altri educatori, nella scuola e nella comunità, catechisti e sacerdoti) la vocazione chiede infine di diventare “testimoni”. I genitori sono testimoni fino al martirio, cioè al prezzo della vita che si è sperimentata come buona e che si è disposti ad attestare ai figli nel suo carattere buono. Se generare è dare la vita, generare alla vocazione comporta che si sia disposti a dare la vita, perché papà e mamma “sanno” che non si può dare la vita senza testimoniare che essa è un bene, che merita di spenderla e di spendersi, se fosse necessario fino alla fine. Per questo, nel passaggio dalla vita donata alla vita che chiama (e chiede di rispondervi) i genitori sperimentano il passaggio dal rapporto duale con i figli al rapporto con un “terzo”. Essi stessi sperimentano che non possono far trovare ai figli la propria vocazione, se non riscoprono da capo il loro essere (stati) chiamati, se non diventano testimoni di una vita che chiama e che è più grande di loro. Se generare ti fa sembrare che il figlio sia tuo, fargli ascoltare la chiamata della vita esige che tu gli attesti che deve scegliere non te, ma Colui che chiama. La vita buona, la vita bella, la vita in “formato grande”, di cui tu, papà e mamma, devi essere un custode geloso, lo è se continui ad attestare che è più grande di te. Ha il nome del mistero della vita: il Padre dei cieli che chiama ogni figlio al coraggio di darsi un volto!

  1. Il difficile dialogo: la rivelazione di Gesù

A questo punto il racconto potrebbe essere terminato. Gesù è stato ritrovato. Ma ora l’evento viene portato alla parola, ha bisogno di essere ripreso nel dialogo. È un dialogo che si rivela subito “difficile” e che ci farà ascoltare la prima parola di Gesù. Non è un caso che la prima parola di Gesù abbia il tono di una risposta imprudente e impudente di un ragazzo adolescente! Non dobbiamo però troppo psicologizzare il racconto, anche se resta in ogni caso di straordinaria attualità, pure dal punto di vista del linguaggio. Il dialogo che svetta nella prima dichiarazione di Gesù è sorprendentemente moderno. Esso rivela la prima formulazione dell’identità di Gesù, il primo squarcio sul suo insondabile mistero, sgorga come uno zampillo di sorgente dal grembo dei legami familiari. La “madre sua” è il detonatore che dischiude la rivelazione del mistero. Anche se il dialogo terminerà con la notazione che i genitori non compresero le sue parole e che Maria deve custodirle e farle crescere nel proprio cuore. Proviamo a tradurre per sentire il tenore di questo dialogo, cioè la ripresa parlata della perdita/ricerca/ritrovamento precedenti. Maria dice con un tono di non troppo velato rimprovero: «Bambino mio (téknon, frutto del mio grembo, generato nelle viscere della famiglia di Nazareth), perché ci hai fatto così?». Onoriamo il mistero della maternità e paternità: dare la vita, con tutti i suoi doni, comporta un lasciar essere, un “lasciar andare”, un saper perdere la vita. Come esclama Clemente Rebora: «Quanto morir perché la vita nasca»! Gesù “deve” andare «per essere nelle cose del Padre suo», ma può farlo solo se riceve il suo essere filiale come un dono che lo lascia partire. Ciò crea angoscia nei suoi genitori («Tuo padre e io, angosciati»). È l’angoscia della perdita del figlio come “bambino”. Il ragazzo che diventa adulto va ricercato di nuovo e va ritrovato in modo nuovo («Ti cercavamo» è un frequentativo: continuavamo a cercarti). Proprio “i suoi”, coloro che lo conoscono, devono ricercarlo sempre di nuovo, non possono darlo per scontato. La conoscenza di Gesù non è un possesso sicuro, non avviene una volta per tutte. Ma così è anche per i genitori: i figli non sono loro proprietà, devono essere lasciati partire. Spesso si dice che i figli devono “fare la loro vita”, ma sarebbe meglio dire che devono trovare la loro strada. Lasciargli fare la loro vita può generare disinteresse, lasciargli trovare la loro strada esige cura e dedizione. La prima parola di Gesù corregge ad un tempo la ricerca sbagliata («Perché mi cercavate […così]») e apre il cuore “dei suoi” alla ricerca che lascia essere e che lascia andare («Non sapevate che io devo essere»…). Il lettore resta impietrito, così come resta sorpreso di fronte alle parole di Gesù a Cana, rivolte alla Madre: «Che ho da fare con te, o Donna?». La madre deve sapere come si genera, sa che appartiene alla sua vocazione materna lasciare andare, generare l’uomo nuovo nella sofferenza della separazione! La prima parola di Gesù si richiama al “sapere” proprio dei genitori, a quella sapienza che è iscritta nel dare la vita, nel gesto rischioso in cui bisogna essere disposti a mettere a repentaglio ogni cosa, perfino se stessi, tutto ciò che i genitori (e gli educatori) possono donare. E anche il figlio che riceve la vita impara il rischio che dovrà correre, perché dovrà scegliere il dono che ha ricevuto come una cosa buona da spendere a sua volta per altri. Così la vita trasmessa viene ricevuta e ridonata.

Sul sapere della generazione, sulla drammatica che tale conoscenza mette in atto ogni volta («quanto morir perché la vita nasca…»), s’innesta la prima rivelazione di Gesù. Essa è sufficientemente misteriosa da rimandare oltre e ad altro, ma anche chiaramente determinata nell’indicare il segreto di Gesù. Il Figlio è colui che deve essere nelle (cose/dimora) del Padre. Gesù deve vivere nella sua relazione a Dio, anzi, nella sua dedizione al Padre! Questo è il segreto di Gesù, anticipato e iscritto dentro il mistero di Nazareth. Ma questo è anche il segreto di ogni figlio… Il racconto si conclude spiazzando i genitori e il lettore e lascia aperto un interrogativo che dà da pensare e poi invita a seguire. Noi dovremo metterci accanto al cuore di Maria (e Giuseppe) che non comprende, ma che “custodisce” tutte queste parole che danno da pensare e questi fatti che chiedono di seguire.

4.1 Dalla famiglia alla coppia: perché questa rimanga

Concludo con una breve annotazione pastorale, portando a maturazione il cammino fin qui percorso. Nel terzo momento del racconto, il dramma della perdita, ricerca e ritrovamento del figlio, viene portato alla parola nel “dialogo”. È un dialogo drammatico, che manifesta due cose: primo, che cosa comporta per i genitori, secondo, che cosa rivela per i figli.

Per i genitori comporta quanto abbiamo sopra già anticipato: non cadere nella trappola del sentirsi privati di sé (Figlio, perché ci hai fatto questo…); superare l’angoscia per la perdita del figlio come figlio posseduto (Tuo padre e io angosciati…); e, infine, il richiamo al “sapere” radicale della generazione (Non sapevate che…). Diventare padri e madri fa maturare in questa “sapienza” che non è solo il generare, ma il “lasciar andare”. Ma questo “lasciar partire” è ancora generare, non ha la forma del disinteresse, bensì di una nuova cura, che è il senso stesso della dedizione paterna e materna: far diventare il figlio un uomo nuovo, adulto e autonomo, che non cessa di essere figlio, ma lo è da grande e libero, capace di rispondere non solo alla vita, ma anche di rispondere di sé. Per far questo, è necessario che la coppia “rimanga”, cioè che resti coppia, mantenga i legami belli tra marito e moglie, così che possano dirsi l’un l’altro: i figli sono diventati grandi, restiamo noi due. È stata un’avventura grande e drammatica, cerchiamo ora di star loro vicini perché essi stessi vivano da adulti!

Per i figli è necessario che sia custodito per loro quello che Gesù rivela come la sua vocazione: io devo essere nelle (cose/relazione) del Padre mio! Si noti che Gesù fa valere questo davanti a suo padre e a sua madre: c’è un aspetto della dichiarazione di Gesù che vale solo per Lui, perché il Padre suo è altro rispetto ai genitori terreni. Qui è, però, iscritta anche una verità universale. Anche per i genitori (ed educatori) umani vale il richiamo a quel mistero più grande della vocazione, che è la chiamata a cui ogni figlio deve rispondere.

Ciascun figlio lo può/deve fare in modo assolutamente singolare (io devo essere…), nessuno può sostituirsi a lui, alla sua scelta e alla sua decisione! Eppure, interessa anche ai genitori che il figlio risponda alla “sua” chiamata. È un tempo in cui i genitori devono inter-essere, stare-con loro, in cui devono “custodire” e “maturare” nel proprio cuore, come Maria, anche se non comprendono tutto e subito. Perché anche a loro la vocazione dei figli rivelerà qualcosa del “mistero grande” che è l’amore di uomo e donna e che non si può possedere solo nei gesti dell’affetto reciproco, dello scambio corporeo, del sogno comune, ma si può soltanto ricevere lasciando partire i figli, per ritrovarli uomini nuovi. Solo così la coppia rimane, perché ha dimorato e continua a dimorare nel mistero paterno e materno del Padre che è nei cieli e che Gesù rivela come il Padre suo. Il Dio di Gesù che genera nello Spirito!