N.05
Settembre/Ottobre 2011
Studi /

Il primato educativo della famiglia

  1. Riscoprire l’Amore

I Vescovi Italiani negli Orientamenti per il decennio dedicato alla sfida educativa hanno sottolineato con forza il primato educativo della famiglia. Credo che la prima difficoltà da superare nel parlare della “Famiglia” è l’attuale concetto di “amore”.

È cioè il fatto che oggi questo termine è spesso abusato e svuotato di significato.

Si dice “ti amo” con molta più facilità del passato e, purtroppo, con una facilità ancora maggiore ci si lascia il giorno dopo averlo detto. Forse rischiamo davvero di non sapere più cosa sia realmente l’amore.

Ecco perché, vorrei partire dalle parole di Benedetto XVI, al n. 2 della sua prima enciclica Deus Caritas est:

«Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola “amore”: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per il prossimo e dell’amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» (Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 2).

Il Santo Padre ci parla di situazioni concrete di vita: la patria, cioè il luogo dove siamo nati e viviamo; la professione che si svolge, anche quando fosse quella così preziosa di donna di casa; l’amicizia, cioè le relazioni autentiche che abbiamo intorno a noi; il rapporto tra genitori e figli, cioè tra generazioni diverse, e con il prossimo e con Dio, cioè con chi è presente nelle nostre giornate e poi, soprattutto, l’amore sponsale, cioè tra uomo e donna, come archetipo, quindi modello originario, di ogni tipo di amore.

Proviamo per un attimo a togliere l’amore da tutte queste dimensioni che ci toccano quotidianamente. Immaginiamo quindi un mondo dove non ci sia più amore per la propria patria, il lavoro non si svolga più con amore, non ci siano più amicizie vere, i genitori si disinteressino dei figli e i figli li abbandonino quando sono anziani, un mondo dove non ci sia più rispetto per le persone intorno a noi e dove Dio sia come cancellato e, soprattutto, dove non esista più una famiglia unita. Qualcuno forse per un attimo ha pensato che questa potrebbe essere la descrizione della società attuale dove viviamo.

Invece non è così. Infatti, sono proprio quei piccoli gesti di amore quotidiani, molte volte compiuti in famiglia, che pur se imperfetti danno senso e gusto alla nostra vita e rendono bello il vivere.

«Anche una fiamma leggera che si inarca, solleva il pesante coperchio della notte», aveva detto Giovanni Paolo II ai giovani riuniti nella GMG di Toronto. Cioè, proprio quei piccoli e deboli gesti di amore (la fiamma che si inarca) danno luce ad un mondo che luce non ha.

Già all’inizio del suo pontificato Karol Wojtyla ci aveva offerto indicazioni chiare al n. 10 dell’enciclica Redemptor Hominis  «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor Hominis, n. 10).

Ci rendiamo però conto che occorre approfondire il senso di questa parola, altrimenti rischiamo di confondere con la parola “amore” quello che amore non è.

  1. Modelli di umanità compiuta

A questo proposito, vorrei farmi aiutare da un modello speciale, una Santa della Famiglia di epoca recente e piemontese: Gianna Beretta Molla. Era un medico pediatra di Torino, sposata con un industriale, Pietro, morto poco più di un anno fa, che pochi anni prima aveva festeggiato il 50° anniversario di matrimonio con lei già in cielo.

Nella celebrazione per la sua canonizzazione era presente anche la figlia, Gianna Emanuela, nata per un gesto di amore speciale.

Infatti Santa Gianna aveva contratto un tumore all’utero, ma con suo marito fu molto chiara: «Se doveste scegliere tra me e il bambino, non abbiate dubbi, lo esigo, scegliete il bambino».

Vi sono lettere bellissime che Gianna e Pietro si scrivevano durante il loro fidanzamento. Pietro aveva ritmi di lavoro estenuanti e si vedevano molto saltuariamente, così confidò a Gianna di essere molto stanco per affrontare il viaggio necessario per andare da lei.

Lei rispose che desiderava moltissimo poterlo vedere, ma ancor più desiderava la sua felicità, così preferiva rinunciare a incontrarlo, ma potergli regalare un momento di riposo. Allora scopriamo che l’amore vero non è mettere al centro l’io, ma è passare al tu, è provare felicità per la felicità dell’altro, esprimendo la stessa tenerezza di Gesù che si china sulle nostre solitudini e sulle nostre ferite.

 

  1. Il matrimonio e la famiglia: risorse feconde

Oggi è sotto gli occhi di tutti la situazione della famiglia: è cambiata la mentalità, la cultura dominante sembra non avere più un modello unico di famiglia; il pensiero comune è influenzato da riferimenti lontani dal Vangelo, staccati dalla radice. Noi crediamo, invece, in una strategia alternativa: il matrimonio e la famiglia sono una risorsa, sono capaci di creare una cultura nuova e di rifondare la stessa Chiesa. La famiglia potrà così essere il punto di riferimento di ogni azione pastorale e sociale.

Questo è il nucleo fondante: se approfondiamo la riflessione sul sacramento del matrimonio, possiamo metterne in risalto la sua dimensione di Risorsa, di Grazia, di Mistero per la società e per la Chiesa.

Tutto questo scaturisce proprio dalla Grazia del battesimo, dal sacerdozio battesimale, che prende corpo nella vita familiare. È la santità dell’accogliere una nuova vita quando si è in precarietà lavorativa, della fatica di accompagnare nella crescita i figli adolescenti, o dell’accudire una persona di famiglia inferma. Potremo così condurre le famiglie ad essere il soggetto centrale dello sviluppo della società e della edificazione della Chiesa; una Chiesa dove ogni coppia di sposi dovrebbe saper spiegare con parole belle e chiare, con la vita, cos’è il sacramento del matrimonio.

C’è infatti, nella nostra società, un bisogno profondo di portare la Buona Notizia del matrimonio e della famiglia. Esistono infatti oggi le cosiddette nuove povertà, verso cui occorre spalancare i nostri cuori: prima di tutto la sofferenza negli ospedali, l’abbandono degli anziani, delle vedove, lo smarrimento dei figli senza famiglia e con famiglie divise, la tristezza di chi ha ripetutamente fallito cercando nella separazione una forma di emancipazione o di chi ha subito una separazione non voluta, la solitudine di uomini o donne che non conoscono il calore della famiglia.

Noi non possiamo stare semplicemente a guardare. Soprattutto non possiamo agire come quelli che non hanno speranza, che non credono più all’Amore e che quindi non credono più al matrimonio e alla famiglia.

  1. La sponsalità culla della vita

Nella Grazia di Cristo Sposo, come dice l’Evangelium Vitae al n. 92, la Famiglia diviene «il santuario della vita, il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un’autentica crescita umana. Per questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita» (EV 92).

Occorrono quindi coppie che diano una testimonianza credibile difendendo la parte fragile della vita, da quella nascente fino a quella all’ultimo faticoso stadio.

Tempo fa ero ad Assisi e con me c’era una coppia con una figlia disabile celebrolesa che era in carrozzella. Mi hanno riempito di vita con il loro sorriso sereno.

Le coppie cristiane non sono quindi migliori o più forti delle altre ma, come dice la Lettera a Diogneto, un prezioso scritto del II sec., possono essere per la società «come l’anima per il corpo».

Apparentemente deboli ed esteriormente uguali alle altre, possono portare là dove vivono il segno visibile dell’Amore che si respira nella Trinità, umanizzando, come usava dire il Grande Giovanni Paolo II, gli ambienti che frequentano. Aiutano così a cambiare il volto del mondo, in un cammino che è in salita, talvolta con cocenti cadute, ma sostenuti dalla forza della Parola, nutriti dal Pane del Cielo nell’Eucaristia, confortati dalla vita di Comunità.

Un cammino orientato, come dice la Familiaris Consortio al n. 17, a «custodire, rivelare, e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione all’amore di Dio per l’umanità e dell’Amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» (FC 17).

Ecco perché «questo Mistero è Grande» (Ef 5,32). Perché, il Sacramento del matrimonio è l’unico dove i Ministri sono gli stessi coniugi. È proprio l’amore umano della coppia che è sanato, guarito dagli inquinamenti egoistici del cuore ed è elevato a sacramento. Infatti, ancora una volta, ricordiamoci che Dio ha creato la coppia, non ha creato la parrocchia, per quanto sia preziosa, o le nostre varie organizzazioni pastorali o sociali. 

  1. Un cielo di stelle

I tanti sacramenti del matrimonio che sono nelle nostre comunità ecclesiali possono essere come le stelle che illuminano un cielo tenebroso.

Oggi viviamo la notte oscura dell’individualismo che sta soffocando la nostra società: famiglie in crisi, separazioni o semplici convivenze, con situazioni familiari instabili. Questo però non ci deve scoraggiare. La fedeltà di cui parliamo non è un’apparenza o una forma, ma è vivere in continuo stato di conversione. È lasciarsi ogni giorno cambiare dalla Grazia vivificante del Padre capace di far nuove tutte le cose. Le famiglie credenti sono come tante fiamme leggere che da sole rischiano di spegnersi, ma insieme possono riaccendere il fuoco dell’Amore sulla Terra. Possono far realizzare una nuova Pentecoste dello Spirito in cui le coppie cristiane appaiono come gli Apostoli del terzo millennio. Si inaugura così, come ai primordi della storia, una Nuova Creazione, ridando alla società l’ossigeno del Paradiso, la brezza leggera della Comunione Trinitaria, la bellezza originaria della coppia così come era stata creata da Dio. Questo Mistero è davvero Grande!

  1. La famiglia come metodo

Nella Costituzione Italiana, al n. 29, sta scritto che la nostra società è fondata sul matrimonio. Per quanto tempo ancora questo resterà un principio? Già in parte ne siamo stati derubati. Spesso nei mezzi di comunicazione appaiono solo situazioni familiari difficili. Ancora oggi, invece, la famiglia è realmente apprezzata dalla nostra gente e, anche se rare, esistono testimonianze di straordinaria bellezza, nella semplice quotidianità della vita familiare. In una recente indagine risulta che gli adolescenti esprimono ancora in modo forte il loro bisogno di famiglia.

Ma come essere veramente incisivi nella nostra azione pastorale su questo fronte? I vescovi Italiani ci hanno più volte invitati ad una vera conversione pastorale e ad abbandonare una pastorale di sola sacramentalizzazione, che mira alla conservazione dell’esistente, per aprirsi ad una pastorale di missione e di annuncio. In un mondo con tendenze così fortemente individualistiche, anche la nostra programmazione pastorale può essere condizionata dalla mentalità corrente. Un vero segno profetico sarebbe, invece, impostare la parrocchia sulla famigli e non più sull’individuo, come spesso accade. La famiglia non solo, come ci dice il Direttorio di pastorale familiare, deve essere oggetto della nostra pastorale, ma soprattutto soggetto attivo delle nostre comunità. Perché questo si realizzi occorre però anche che la famiglia divenga “metodo” della Pastorale. Proviamo ora a vedere in concreto cosa questo significa.

L’orizzonte è intessere nella Comunità parrocchiale e nella società delle relazioni simili a quelle familiari. Gli amici ce li scegliamo, i fratelli, invece, ci sono dati; c’è quindi una comunione che è originaria, che precede la nostra scelta e che possiamo soltanto rifiutare o accogliere, ma c’è comunque, al di là delle nostre scelte.

Quando Caino uccide suo fratello Dio gli dice: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?». (Gen 4,9).

Si, tu sei Custode di tuo fratello. Anche nel descrivere la Creazione, si dice che l’uomo fu posto nel Giardino dell’Eden perché lo “custodisse” (Gen 2,15).

L’uomo è quindi custode del proprio simile in quanto gli appartiene come fratello, ed è allo stesso modo posto a custodia di ogni aspetto del Creato. Come ci ha ricordato il Santo Padre Benedetto XVI più volte, l’uomo che cancella Dio dalla sua vita difficilmente può vedere l’altro come fratello e rischia così di distruggere, senza quasi accorgersene, tutto ciò che il Signore ha creato.

Se siamo fratelli, siamo una Famiglia. Un giorno un sacerdote disse ai suoi parrocchiani: «Noi ci diciamo fratelli. Ma se sapessi che mio fratello sta dormendo sotto un Ponte che farei?». «Se non diventerete come bambini… non entrerete nel Regno dei Cieli» (cf Mt 18,3).

La risposta venne infatti da un bambino che qualche giorno dopo gli portò il proprio salvadanaio per la costruzione di una Casa Famiglia, che fu poi realizzata. In seguito la provvidenza ha fatto il resto.

  1. La comunione che guarisce

Oggi la situazione del numero crescente di famiglie in crisi ci pone seri interrogativi. Quando si ha un raffreddore ci si cura anche da soli. Se si ha un tumore occorre andare dal medico. Noi abbiamo un vero specialista delle ferite che riguardano la comunione tra due o più persone e questo è Gesù Cristo che è presente nel sacramento di salvezza che è la Comunità.

Molto spesso le Scienze Umane sono strumenti preziosi per le crisi familiari. Ma la divisione si guarisce solo con la Comunione.

Soltanto una vera comunità di famiglie può sostenere i colpi che la vita moderna infierisce alla famiglia. Anche perché l’origine del male, in molti casi, sta nell’Isolamento a cui è condannata oggi la Famiglia, nell’affrontare le sue difficoltà.

Mons. Carlo Rocchetta, un teologo della coppia, recentemente mi diceva che, quando alcuni coniugi in crisi si presentano, chiedendo aiuto, alla sua “Casa della Tenerezza”, lui, dopo qualche incontro, li affida ad una “coppia angelo” che possa accompagnarli, creare un rapporto fraterno, innescare un dialogo profondo (lui con lui, e lei con lei). È possibile pensare qualcosa di simile nelle nostre comunità parrocchiali? O almeno a livello diocesano? È la Comunione che guarisce e non una relazione funzionale, per quanto specialistica. Svolgere un ufficio non è sufficiente. È necessario far vivere un’esperienza di Comunità, far divenire le nostre parrocchie la famiglia di chi non ha famiglia e di chi non crede più alla famiglia.

Anche i sacerdoti hanno bisogno nelle comunità parrocchiali di un vero clima familiare dove esprimere la propria paternità, di avere cioè intorno coppie di sposi che li circondino di affetto.

Nella parrocchia dove ero parroco fino a due anni fa, ci ho messo quasi otto anni per costituire il Consiglio Pastorale Parrocchiale. Volevo evitare in qualsiasi modo che fosse un ambiente formale o dove si scatenassero i protagonismi personali e le varie competizioni. Volevo soprattutto che ci fosse un clima di vero calore umano.

La cosa che mi ha reso più felice è stata la descrizione che ne ha fatto il nuovo parroco, subito dopo il primo incontro che lui ha tenuto dopo che io ero andato via; ha detto: «Sembrava di essere in famiglia».

Questo non significa che non si discuta a volte animatamente e che spesso ci sia bisogno di perdono. Ma implica che l’altro mi appartiene come un fratello. Anche il tuo parroco ti appartiene; come non hai scelto il padre e la madre che Dio ti ha donato, ma hai dovuto sceglierli dopo, altrimenti non eri te stesso, così sei chiamato a scegliere nell’amore il prete che Dio ha pensato per la tua comunità. Chi sceglierebbe genitori diversi da quelli che ha avuto (con tutti i loro limiti), rischia di essere sempre in fuga, senza radici. È dal rapporto tra sacerdozio battesimale dei laici e sacerdozio dell’Ordine che nasce una comunità Famiglia di famiglie, Famiglia anche di chi è senza famiglia.

  1. La sinfonia sponsale

Il Santo Padre nella sua Enciclica, al n. 54 di Caritas in Veritate dice che la Famiglia è ad immagine della Trinità, e poi fa un bellissimo paragone:

«Come l’Amore sacramentale tra i coniugi li unisce spiritualmente in “una carne sola” e da due che erano fa di loro un’unità relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro e li fa pensare all’unisono, attirandoli e unendoli a sé» (Caritas in Veritate, n. 54).

C’è quindi una missione importante dei sacerdoti e delle famiglie all’interno della Comunità ecclesiale. Vorrei però precisare che qui non sto parlando di sacerdoti o di famiglie perfette – che non credo esistano –, ma di pastori e coniugi in continuo stato di conversione.

Penso anche a quelle situazioni di famiglie ferite, oramai sempre più presenti nelle nostre comunità. Negli anni scorsi ho vissuto un cammino fatto di lacrime e di momenti forti di comunione co persone separate e divorziate. Ci sono stati incontri particolarmente toccanti e in cui si respirava una comunione particolare. Le persone ferite sono una vera risorsa per la parrocchia.

La comunità parrocchiale infatti – e anche noi sacerdoti – è chiamata a prendersi cura particolarmente delle famiglie ferite. La parrocchia può così diventare la casa di chi non ha casa e la famiglia di chi non crede più alla famiglia.

Il passaggio per i giovani sposi dall’essere coppia, celebrando le nozze dinanzi a Dio e nell’abbraccio della Chiesa, al sentirsi pienamente famiglia, con il vagito del primo figlio, è tra i momenti più emozionanti della vita coniugale. Oggi, però, va considerato che sempre più coppie vivono la difficile esperienza di scoprire al proprio interno problemi di fertilità. È questo un momento molto faticoso dell’itinerario sponsale, che talvolta mette seriamente a rischio anche l’unità stessa della coppia. C’è quindi una situazione di particolare fragilità che necessita di una attenzione speciale di accompagnamento da parte dell’intera comunità cristiana.

In questi ultimi anni, molte parrocchie in Italia hanno fatto grandi passi nel sostenere il cammino dei giovani sposi. Siamo però chiamati ad una nuova fantasia pastorale per mettere in gioco, come preziosi soggetti attivi, anche quei coniugi che soffrono il peso della sterilità. La mancanza di fertilità, infatti, non impedisce di vivere una vita coniugale profondamente feconda e di essere pienamente famiglia.

Abbiamo tutti dinanzi agli occhi la grave emergenza educativa che attraversa la nostra società. È questa una sfida che si vince solo, come dice il Santo Padre, realizzando forti “alleanze educative”. In una parrocchia che cerca di camminare come famiglia di famiglie ci possono essere ampi spazi di paternità e maternità spirituali per quei coniugi che non possono avere figli.

In un’ottica di nuova solidarietà tra famiglie, infatti, queste coppie possono sostenere le famiglie numerose nel difficile rapporto tra orari di lavoro e necessità della vita familiare. Sono inoltre preziose per accompagnare i fidanzati nella preparazione al matrimonio ed i giovani sposi nell’aprirsi alla vita, insegnando loro ad accogliere con umiltà, e a volte con fatica, il disegno di Dio.

In molti casi, dimenandosi tra faticose difficoltà burocratiche, queste coppie possono aprirsi all’affido familiare o all’adozione di figli orfani, divenendo la famiglia di chi non ha famiglia. La Storia della Salvezza è particolarmente ricca di coppie sterili che la potenza di Dio ha reso in vari modi feconde e certamente molte pagine restano ancora da scrivere.

È necessario allora restituire il primato educativo alla famiglia, sia nelle proprie relazioni interne, sia come presenza nella comunità cristiana e nel vivere sociale.

Per questo occorre che preti e coniugi operino insieme, con la consapevolezza che tutti noi siamo chiamati a testimoniare Cristo e la vita buona del Vangelo. Siamo già entrati nel decennio pastorale dedicato alla sfida educativa. La vera sfida sarà diffondere, preti e sposi insieme, una nuova cultura di vita. Per questo però bisogna tornare alle sorgenti della vita, all’acqua viva che è lo Spirito di Gesù. È necessario quindi essere educati da Cristo per essere inviati ad educare.

 

  1. Una carità coniugale feconda

Si può allora camminare verso una nuova fantasia della carità coniugale, provando ad immaginare itinerari differenziati all’interno delle comunità parrocchiali e con una profonda attenzione ai movimenti e alle associazioni, come in una famiglia, dove i criteri educativi sono chiari, precisi e delineati, ma si traducono diversamente nelle differenti sensibilità e attitudini dei vari figli.

Potremo così accompagnare con forza le giovani coppie di sposi e renderle sempre più consapevoli del dono ricevuto. Occorre infatti tornare a raccontare la Trinità.

Percepiamo chiaramente che la famiglia ha un futuro solo nel respiro della Trinità, che resta il vero faro che ci guida nelle tempeste della storia alla ricerca della perla preziosa.

Per chi ha «faticato tutta la notte senza prendere nulla» occorre “riannunciare” che sulla barca di Pietro, con Gesù, si può tornare a «prendere il largo» (cf Lc 5,1-11).

Possiamo credere davvero in una nuova primavera della Chiesa, dove la famiglia divenga realmente la culla in cui fiorisce una pluralità di vocazioni all’Amore.

Come diceva Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae al n. 92: «Come “chiesa domestica”, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. (…) Con la parola e con l’esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà autentica, che si realizza nel dono sincero di sé» (EV 92).

È crescere nella capacità di donarsi l’orizzonte luminoso dell’umanità.

Ecco perché, come sperimentiamo oggi, la piccola “chiesa domestica” può vivere solo nel grande abbraccio della Chiesa Universale.

La famiglia non può vivere staccata dalla Chiesa. Solo in una rete di comunione si può crescere. Comunione tra le singole persone, tra le famiglie, tra le varie vocazioni, nella differenza e nella reciprocità.

Talvolta, alcune nubi possono oscurare la luce del sole e il rapporto quotidiano tra preti, sposi, religiosi e religiose può incrinarsi.

In alcuni casi appare la stessa fatica tra i tanti movimenti, associazioni e nuove comunità che il soffio dello Spirito ha donato alla Chiesa. Ma la rete della comunione non si spezza, perché tutti noi possiamo esistere solo come famiglia e l’altro ti appartiene come fratello e questo legame resta sempre, al di là delle fatiche e delle incomprensioni. Perché è un legame che non abbiamo creato noi, fragili uomini. È un legame che porta impresso il sigillo del Dio eterno. L’altro ti appartiene perché abbiamo un unico Padre.

È proprio la figliolanza che ci rende fratelli e più scopriamo Dio come Padre e più possiamo vivere come sacerdoti e consacrati, come sposi e laici impegnati, nei diversi compiti e Ministeri nell’unica Famiglia di famiglie che è la Chiesa.

Più amiamo Dio e più ameremo il parroco e il vescovo che ci è stato donato, e che siamo chiamati ad accogliere come «familiari di Dio e concittadini dei santi» (cf Ef 2,19).

  1. Nuovi orizzonti di santità sponsale e familiare

Proprio i santi ci ri-offrono l’orizzonte della sponsalità delle varie vocazioni.

I coniugi Zelie e Louis Martin, genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino, pensavano entrambi di consacrarsi a Dio per seguire il Signore in modo più radicale. Poi però, nel discernimento, indispensabile

per scoprire ogni vocazione, ma soprattutto con l’aiuto del loro Padre Spirituale (proprio un consacrato, a testimonianza della reciprocità delle due vocazioni), hanno intuito che il Signore li chiamava a santificarsi nel matrimonio. È possibile che, se avessero seguito la via della vita religiosa, avremmo avuto tre santi in meno, loro due e la figlia (Santa Teresina).

I coniugi Martin avevano un’attenzione speciale all’educazione dei propri figli. Lo si deduce dalla dichiarazione delle figlie al processo di beatificazione di Teresa: «La nostra mamma vigilava con grande attenzione sull’anima delle sue bambine e la più piccola mancanza non era lasciata senza rimprovero. Era un’educazione buona e affettuosa, ma oculata e accurata»1.

Ma talvolta sono i figli a guidare i propri genitori su percorsi di santità. È il caso di Chiara Badano, di cui i genitori sono tuttora viventi, conosciuta meglio come “Chiara Luce”, recentemente beatificata scomparsa a 19 anni per una terribile malattia.

Vi sono interessanti episodi riguardati la sua vita che ci offrono una luce speciale in tal senso.

«A Sassello c’era un ragazzo, [Cesare Merialdo, ora deceduto] un po’ ritardato, che diceva cose sconclusionate, fuori posto. Quand’era in chiesa, cantava ad alta voce, stonando molto e disturbando tutti. Le persone lo tenevano in disparte.

Un giorno, alla messa del pomeriggio, Cesare si trovava nel banco davanti alla mamma di Chiara. All’improvviso si voltò e le chiese di sedersi accanto. Ma la mamma non si mosse. Tornata a casa, la signora racconta alla figlia l’episodio. Chiara si fa seria e domanda: “Non ti sei spostata? Gesù era in Cesare”. La mamma rassicurò la figlia: subito dopo era andata a sedersi accanto a Cesare. Questo ragazzo, quando seppe della morte di Chiara, visitò la salma, si tolse il cappello, le baciò i piedi e da solo recitò il rosario. (…)».

«Ad appena undici anni, si propone di “amare chi mi sta antipatico”. Quando invitava qualcuno a pranzo diceva alla mamma di mettere la tovaglia più bella, “perché oggi Gesù viene a trovarci”.

In paese c’era una certa signora Maria, una donna emarginata, che non godeva di nessuna considerazione e non andava mai in chiesa. Chiara, incontrandola spesso per strada, l’aiutava a portare gli oggetti pesanti e la chiamava “signora” Maria. Quando Maria seppe della morte di Chiara, volle andare in chiesa. Si vestì come si deve, partecipò alla Messa e diede come offerta ben cinquantamila lire, molte per quei tempi.

Un giorno un’amica domanda a Chiara: “Con gli amici al bar, ti capita di parlare di Gesù, cerchi di far passare qualcosa di Dio?”. “No, non parlo di Dio”. “Ma come, ti fai sfuggire le occasioni?”: E lei: “Non conta tanto parlare di Dio. Io lo devo dare”» 2.

Ecco allora il modo per rigenerare lo stupore della santità: occorre dare Dio. Con i Beati Maria e Luigi Beltrame Quatrocchi la Chiesa ha poi osato una scelta profetica, proclamando Beati una coppia di coniugi insieme. Infatti è stato come aiutare a percepire che la loro santità parte da lì, ha la vita coniugale come centro, è fatta di quotidianità di comunione familiare. Una comunione non angelica e non di cristallo, ma fatta di creta che si lascia plasmare quotidianamente dalla Parola di Dio. «Come l’argilla nelle mani del vasaio… così gli uomini nelle mani di Colui che li ha creati» (Sir 33,13).

Una comunione che necessariamente deve quotidianamente rigenerarsi e alimentarsi alla Mensa della Parola e dell’Eucaristia (ogni giorno i due coniugi iniziavano la giornata con la S. Messa nella Basilica di S. Maria Maggiore, accanto alla loro casa), all’ossigeno della preghiera, al respiro della vita sociale, all’impegno civile ed ecclesiale. Una comunione così stretta che lascerebbe pensare che continui in cielo.

E questo era, anche per Maria e Luigi fin dall’innamoramento. Infatti, il 14 Luglio 1905, Luigi scrive:

«Domani si compiono quattro mesi dal giorno beato in cui ti aprii il mio cuore e tu me lo colmasti di gioia ineffabile dandomi la certezza che anche tu mi amavi. Non sono che quattro mesi, ma mi pare alle volte che io sia tuo e tu sia mia da tempo infinito: mi pare che tu sia stata sempre la mia Maria adorata…» 3.

È proprio questo amore, brezza dell’Infinito, che, maturando ed esplodendo come una spiga di grano, ha dato vita a quattro vocazioni alla vita consacrata, mostrando come la famiglia è la vera culla di ogni vocazione.

  1. La fantasia della carità educativa

Vorrei allora concludere con un episodio specifico sull’arte dell’educazione che riguarda Luigi e Maria, e in particolare Paolino, che è il solito figlio birbante, e, avendo poca voglia di studiare, tentenna a scuola.

A quel tempo c’erano gli esami di riparazione a settembre e lui regolarmente finiva per avere due o tre materie a cui era rimandato e quasi sempre tra le materie c’era la matematica.

La famiglia Beltrame Quattrocchi solitamente passava le estati in una casa in campagna. L’immagine che vorrei offrirvi è allora quella di Paolino sopra un albero, mentre sotto c’è il padre Luigi che con attenzione ascolta il figlio che gli ripete la lezione.Così, ho chiesto ad Enrichetta, l’unica figlia tuttora vivente, il perché di quella strana situazione: il figlio sull’albero ed il padre lì sotto a fargli ripetere la lezione. Lei mi ha risposto che avevano scoperto che era l’unico modo per farlo studiare. Ecco allora la sfida: trovare proprio quell’unico modo per incontrare il cuore delle nuove generazioni ed offrire loro un orizzonte luminoso. Si tratta allora di accompagnare con cura le giovani coppie di sposi e renderle sempre più consapevoli del dono ricevuto nel sacramento del matrimonio, portandoli ad essere autentici “genitori”, cioè capaci di generare i propri figli alla vita buona del Vangelo.

Temi