N.05
Settembre/Ottobre 2011
Studi /

La scuola: areopago di incontro e di crescita

  1. Che c’entra la scuola?

Quando San Paolo giunse ad Atene, l’antica metropoli non aveva più lo splendore dei tempi migliori. Senz’altro però esercitava ancora un notevole fascino culturale, al punto che l’autore degli Atti annota: «Tutti gli Ateniesi e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). Essere presi e condotti all’areopago da un gruppo che ha desiderio di sapere (At 19ss.) avrà rappresentato certamente una chance unica e formidabile per l’apostolo delle genti!

Oggi le cose vanno ben diversamente nei riguardi della scuola. Non è affatto scontato che nell’azione pastorale ordinaria, così come nell’opinione comune, essa rappresenti un areopago, ovvero un ambito promettente e di grande interesse. Anzi, la percezione è ben diversa: resta diffusa l’idea che si tratti di un luogo un po’ impenetrabile e molto confuso, ove succedono cose a cui bisogna che prima o poi sia posto rimedio nella formazione cristiana dei ragazzi. Di primo acchito prevale un senso di distanza se non di sfiducia e in definitiva di irrilevanza. Ne è segno il fatto che la scuola non c’entra molto o quasi per niente con le attività e le iniziative della programmazione pastorale, se non quando viene il momento di richiamare le famiglie alla scelta dell’insegnamento della religione cattolica (IRC).

Chi scrive si è sentito dire da qualche collaboratore o parrocchiano: «Perché mai perdi ancora così tanto tempo nella scuola, quando ci sarebbero cose ben più urgenti da fare in parrocchia o per la diocesi?». Una domanda così posta – e può essere riformulata in termini analoghi per altri areopaghi del nostro tempo – segnala una fatale riduzione di orizzonte: non si guarda più ai ragazzi nel loro concreto vivere, trascurando il fatto elementare che essi trascorrono a scuola la maggior parte della loro settimana, proprio nell’età in cui si aprono alla conoscenza del mondo, degli altri e di se stessi.

Il punto di svolta sta nell’operare una conversione pastorale, che inverta la rotta e torni a prendere il largo. Occorre cercare il senso di Cristo in questo ambito fondamentale di vita e imparare a starvi con intelligente amore e speranza. La responsabilità educativa riguarda ogni adulto coinvolto a vario titolo nel mondo della scuola, pur essendo evidente che sotto l’aspetto funzionale non tutti hanno il medesimo ruolo. È indispensabile allargare lo sguardo e recepire con maggior attenzione cosa sta avvenendo. La scuola è in crisi perché gli adulti sono in crisi: la loro incertezza talvolta porta a dubitare che sia ancora possibile educare. La tentazione è talora quella di abdicare al proprio compito. Al contempo, conviene tener presente che “crisi” non va intesa con un’esclusiva accezione negativa, ma indica un momento che può preludere ad una soluzione e ad un superamento positivo. Comporta una sfida da raccogliere e perciò il dovere di dare risposte all’esigenza di verità e senso, al bisogno di un fine che orienti e muova la vita, all’assunzione di scelte concrete. Tale condizione riguarda anche chi svolge un servizio pastorale nella Chiesa: sarebbe ingenua presunzione considerarlo problema di altri invece di condividerlo, cercando di affrontarlo insieme.

Infatti, solo se amiamo il nostro tempo con le sue luci e le sue ombre e impariamo ad accoglierne le istanze più vive e drammatiche, sapremo stare in ogni ambito dell’esperienza umana. Anche la scuola si trova nel campo del mondo, dove viene seminato il Vangelo del regno (cf Mt 13,38) e va coltivato il frumento buono. In definitiva, la comunità cristiana non può passare oltre, ma deve imparare a farsi prossima al mondo della scuola. Occorre avere molta più stima per quella sorta di congenialità originaria, di cui la Chiesa dispone: la sua missione infatti è essenzialmente educativa per mandato del suo Maestro e Signore (cf Mt 28,19). Oggi la scuola è un areopago e, come fu per San Paolo, avere fiducia che vale la pena interessarci ad essa, fino a lasciarci prendere e condurre dentro alle sue ricchezze e alle sue contraddizioni, diventando sinceramente appassionati a tutto l’umano teso al suo compimento.

 

  1. La scuola in un’epoca di transizione

Il terzo capitolo del rapporto-proposta sull’educazione, elaborato e diffuso dal Comitato per il progetto culturale1 in vista degli orientamenti pastorali2 per il decennio in corso nella Chiesa che è in Italia, costituisce un testo qualificato e fecondo per nutrire il confronto e la riflessione. È senz’altro di grande utilità riprenderlo in mano, per conoscere che cosa il mondo della scuola è oggi: un areopago frequentato da tutti i bambini e i ragazzi, dai loro genitori e da quanti vi lavorano. La lucidità del giudizio sull’attuale condizione del sistema di istruzione nel nostro Paese e sulle tensioni alle quali è sottoposto dà la misura concreta del fatto che la Chiesa non può restare estranea a tale ambito, non per ragioni di egemonia, quanto per la sua ragion d’essere che è la missione.

Per sgombrare il campo da ogni equivoco, occorre sottolineare che la comunità cristiana non ha interesse a rivendicare uno spazio o ad ottenere qualche momento per prendere la parola, giacché – nella più felice delle ipotesi – si tratterebbe di una parentesi che verrebbe presto richiusa. Parimenti sarebbe illusorio ritenere che le scuole cattoliche siano delle oasi in cui si riescono a creare condizioni ideali, in contrappunto ad un panorama generale così contrastato.

L’idea che esse si distinguano come ambiente “protetto” e “sano” finisce per far perdere di vista il valore genuino di tale esperienza, che rappresenta un patrimonio per il bene comune dell’intera società: sono scuole che si misurano non tanto sulla preservazione o la difesa dai pericoli, quanto sulla validità di una proposta, cristianamente ispirata e interpretata da un soggetto comunitario che educa alla libertà vera in un confronto a tutto campo con la realtà. Occorre ricondurre l’impegno per la scuola al punto interiore che muove la vita dei cristiani, dà senso al loro operare e allo stare in rapporto con tutti coloro in mezzo ai quali vivono. Per ritrovare uno sguardo d’insieme giova ricordare un passo degli Orientamenti pastorali:

«Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile» (Benedetto XVI). La sua sorgente è Cristo risuscitato da morte. Dalla fede in lui nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità di amare. In questo noi individuiamo il contributo specifico che dalla visione cristiana giunge all’educazione, perché «dall’essere “di” Gesù deriva il profilo di un cristiano capace di offrire speranza, teso a dare un di più di umanità alla storia e pronto a mettere con umiltà se stesso e i propri progetti sotto il giudizio di una verità e di una promessa che supera ogni attesa umana» (Nota pastorale dopo il Convegno di Verona). Mentre, dunque, avvertiamo le difficoltà nel processo di trasmissione dei valori alle giovani generazioni e di formazione permanente degli adulti, conserviamo la speranza, sapendo di essere chiamati a sostenere un compito arduo ed entusiasmante: riconoscere nei segni dei tempi le tracce dell’azione dello Spirito, che apre orizzonti impensati, suggerisce e mette a disposizione strumenti nuovi per rilanciare con coraggio il servizio educativo.

L’interesse dei discepoli di Gesù per la scuola – allo stesso modo per la statale e la paritaria – e quindi per tutto l’umano che in esso cresce, non nasce dalla volontà di approfittare di un vuoto per occuparlo, ma dal desiderio di corrispondere ad un Amore che riempie la vita e offre un compimento. Non dall’egemonia ma dal servizio.

Infatti la luce della fede dona uno sguardo nuovo su ogni ambito della vita3 e perciò consente di comprendere che la scuola è per se stessa un luogo di primaria rilevanza vocazionale. A delineare sinteticamente tale prospettiva concorrono tre direttrici.

 

  1. La realtà è amica

Un’affermazione così netta sembra sfiorare l’ingenuità di fronte alla cultura dominante. Tuttavia, questo assunto sonda il fondo dell’esperienza umana, perché tocca il senso dell’essere e rende ragione della nostra sete di conoscenza e di verità. Lo si percepisce nei momenti “dell’inizio”, quando si avvia il processo di apprendimento nella scuola, ma lo si constata anche prima e oltre esso. Basti pensare al sorgere della curiosità e dello stupore, che si attivano in noi fin da bambini, ma non cessano con il formarsi della nostra personalità e della nostra coscienza, anzi, si affinano. La docilità non è uno spazio vuoto che via via va restringendosi, quanto più si accresce il volume delle conoscenze. È piuttosto un’attitudine che proprio nel suo approfondirsi spalanca alla recettività e perciò alla ricerca della verità e del bene.

La realtà è amica perché di essa si serve il Signore per venire incontro all’uomo e chiamarlo all’incontro con sé, passando nella trama di circostanze e rapporti in cui è immersa la vita di ciascuno. In ogni circostanza è racchiuso un segno della sua presenza.

Mediante i rapporti, che esprimono affetto, amicizia, dialogo, confronto e conflitto, ogni persona si costruisce come soggetto-in-relazione, ultimamente teso al Tu di Dio. Ecco perché è importante far uscire dall’attesa illusoria di condizioni che si presumono ideali e liberare dalla pretesa di evitare tutto ciò che costa: anche in questo sta il compito dell’educere, ovvero del condurre fuori. Un condurre fuori per introdurre a tutta la realtà e questo implica: sostenere la fatica, imparare dall’errore, riprendere ogni volta da capo, perseverare nello sforzo e accettare il sacrificio. Riprendiamo uno stralcio del dialogo dell’allora Patriarca Angelo Scola con i giovani di Venezia:

«La realtà mi è amica. E perché mi è amica? Gesù è venuto a rivelarcelo. Perché il desiderio della mia libertà è mosso da un Padre, che mi genera, come genera ciascuno di noi, e ci tiene in piedi. Per questo vale la pena andarGli dietro. Ogni circostanza ed ogni rapporto in un certo senso sono il manifestarsi di questo Padre che, attraverso Gesù, chiama la nostra libertà a dirGli di sì. La vita è vocazione. In questo contesto, anche il negativo è come un modo attraverso cui la nostra libertà è con realismo chiamata alla lotta. Perché una cosa vera costa. Nessuno guadagna la verità, in nessuno dei suoi aspetti, se non si espone e non paga di persona. Però anche la cosa apparentemente più brutta – persino la morte di una persona cara – siccome in ultima analisi è tenuta in mano dal Padre, ti rivelerà a suo tempo il destino di bene che ha in sé, se tu ci stai»4.

 

  1. La vita è vocazione

La portata di tale assunto non è mai abbastanza recepita nell’azione pastorale. Occorre in primo luogo coglierne il carattere universale e perciò riconsiderare quale incidenza assuma nell’ambito  della scuola e delle finalità che le sono proprie. Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI ha offerto un insegnamento ricco di spunti, esplicitando a più riprese la correlazione tra vocazione e sviluppo integrale dell’uomo5 inserendosi nel solco del magistero papale di chi l’ha preceduto. Riportiamo qui due passi chiave:

«Nella Populorum progressio, Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”. È proprio questo fatto a legittimare l’intervento della Chiesa nelle problematiche dello sviluppo. Se esso riguardasse solo aspetti tecnici della vita dell’uomo, e non il senso del suo camminare nella storia assieme agli altri suoi fratelli né l’individuazione della meta di tale cammino, la Chiesa non avrebbe titolo per parlarne. (…)

Dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo. Non senza motivo la parola “vocazione” ricorre anche in un altro passo dell’Enciclica, ove si afferma: “Non vi è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana”. Questa visione dello sviluppo è il cuore della Populorum progressio e motiva tutte le riflessioni di Paolo VI sulla libertà, sulla verità e sulla carità nello sviluppo. È anche la ragione principale per cui quell’Enciclica è ancora attuale ai nostri giorni»6 (…).

«Oltre a richiedere la libertà, lo sviluppo umano integrale come vocazione esige anche che se ne rispetti la verità. La vocazione al progresso spinge gli uomini a “fare, conoscere e avere di più, per essere di più”. Ma ecco il problema: che cosa significa “essere di più”? Alla domanda Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale dell’ “autentico sviluppo”: esso “deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Nella concorrenza tra le varie visioni dell’uomo, che vengono proposte nella società di oggi ancor più che in quella di Paolo VI, la visione cristiana ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore incondizionato della persona umana e il senso della sua crescita. La vocazione cristiana allo sviluppo aiuta a perseguire la promozione di tutti gli uomini e di tutto l’uomo»7.

Vengono messe in campo le questioni fondamentali: la libertà, la verità, il valore della persona. Vengono nello stesso tempo rimessi al centro gli interrogativi più profondi e le aspirazioni, che sono nel cuore di ogni uomo e specificamente di ogni studente: è lui la ragion d’essere della scuola! Tutto questo preme con intensità nella fase cruciale dell’orientamento, che attiene al senso dell’offerta formativa fin dal suo inizio. A ben vedere, il termine stesso “orientamento” evoca una prospettiva vocazionale. Proprio su questo punto sensibile si avverte il bisogno di un logos, nell’accezione pluriforme del termine greco: una parola, un senso, una ragione, un perché e ultimamente un “per chi”. Insomma, un messaggio che sia capace di reggere una proposta di vita. Lungi da ogni facile applicazione strumentale è proprio il compito dell’orientamento che mette a nudo la responsabilità educativa del soggetto educativo e perciò il suo autoesporsi testimoniale.

 

  1. L’insegnante è testimone

La terza direttrice è tesa a provocare l’attivazione piena del soggetto, cui è affidato il compito di trasmettere il sapere. Nella sua autentica capacità testimoniale si gioca infatti la qualità dell’azione educativa. Interroghiamo la nostra memoria: cosa ricordiamo della scuola che abbiamo frequentato? Non immediatamente un episodio da una serie di fatti, qualche momento forte nell’insieme delle attività scolastiche, qualche particolare tipico del luogo o di quegli anni… Prima di tutto ricordiamo le persone: questo o quell’insegnante! Ciò che è stato decisivo per la nostra formazione non è stato l’automatico funzionamento di metodi e la “somministrazione” di contenuti. Tutto questo aveva nomi e volti. Quello che ci ha segnato sono le relazioni educative con dei soggetti viventi, implicati in ciò che facevano e hanno trasmesso ciò che avevano dentro.

Il rilievo non va colto solo ad un livello morale, bensì va riconosciuto come condizione imprescindibile di ogni rapporto interpersonale. In ambito scolastico occorre infatti sfatare la convinzione che l’insegnante debba avere, quasi distintivo di professionalità, un atteggiamento neutrale per non influire sulla libertà dello studente. In realtà nessun insegnante è neutrale, semplicemente perché non può esserlo, pena l’annullarsi del soggetto che si riduce a funzione erogatrice di dati e conoscenze. È inevitabile che ognuno comunichi nel suo insegnare ciò che lo appassiona, l’intenzionalità di fondo che innerva la sua azione, insomma, testimoni un senso della vita.

Lo si nota benissimo anche in altri ambiti di istruzione, ad esempio laddove si impara uno sport: non basta spiegare che cosa fare o come farlo, ma bisogna allenare a farlo e quindi farlo insieme al proprio allievo. E nell’introdurre a questa abilità chi insegna ha l’arte di rendere partecipi di un’esperienza, la gioia e il gusto di riuscire a fare. In ogni forma di trasmissione del sapere si instaura un rapporto testimoniale tra l’educatore e l’educando. Si tratta di un punto fermo che acquista un grande significato per l’attenzione pastorale in genere e vocazionale in specie. In alcuni passi di un grande pedagogo del Novecento, quale fu Romano Guardini, incontriamo spunti profondi su questo tema:

«Che cosa dunque significa educare? Di certo, non che un pezzo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano di uno scultore. Piuttosto, educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti ed interpreto il suo cammino – non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in mano una storia umana e personale. Con quali mezzi? Sicuramente, avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimolazioni e “metodi” di ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente “forza di educazione” consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere. (…) È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro.

Da ultimo, come credenti diciamo: educare significa aiutare l’altra persona a trovare la sua strada verso Dio. Non soltanto far sì che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo “bambino di Dio” cresca fino a raggiungere la “maturità di Cristo”. L’uomo è per l’uomo la via verso Dio. Perché lo possa essere davvero però, deve egli stesso percorrere quella via. È assurdo parlare ad un uomo della strada verso Dio, se non la si conosce per esperienza personale, o almeno non la si cerca. (…) Deve sempre permaner viva una positiva, santa insoddisfazione. Siamo figure incompiute, soltanto abbozzate. Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato.

Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere»8.

 

  1. «Andate anche voi nella vigna» (Mt 20,3): tre attenzioni promettenti

Nel delineare la scuola come areopago a più riprese è venuto in primo piano il significato dell’incontro e perciò del dialogo e del confronto all’interno della comunità scolastica, specialmente degli studenti con gli insegnanti. San Paolo ha accettato il rischio che il suo messaggio non fosse compreso, apprezzato e accolto, ma non si è sottratto alla circostanza che gli era data. Senza fare calcoli, è andato in quel luogo pubblico a dare testimonianza del Cristo risorto. Urgeva in lui quella spinta continua a raggiungere tutti, ben espressa anche in una parabola del Regno narrata dall’evangelista Matteo. Il padrone esce all’alba per trovare lavoratori a giornata da mandare nella sua vigna (Mt 20,1-16). Lo fa a tutte le ore del giorno, trovandoli anche in piazza, mentre se ne stanno là disoccupati.

Per certi versi la scuola di oggi assomiglia a quella piazza, dove le nuove generazioni, sono insidiate dal venir meno della passione per la verità, dal ritrarsi degli adulti strettamente al ruolo e dall’incerto affacciarsi di proposte educative. Questo ingrigisce la vitalità della scuola e insinua noia e mediocrità. Si possono indicare almeno tre attenzioni promettenti per chi entra nell’areopago della scuola missionariamente.

1) Partire dal bisogno del senso, farlo proprio e, parimenti, far crescere l’interesse per la domanda ed educare all’ascolto. L’ascolto è un atteggiamento essenziale alla disponibilità di recepire, ovvero accogliere l’altro e la sua parola. Ogni storia di vocazione inizia dall’ascolto.

2) Scommettere sulla capacità che ha la persona dell’alunno, come pure quella dell’insegnante, di unificare le esperienze e le conoscenze, giacché la riunificazione del soggetto è un’esigenza oggi urgente, per poter superare molte obiezioni esplicite o indotte, che finiscono per inibire la libertà e la intrattengono in conformismi nuovi, ma sempre insoddisfacenti. Ogni cammino di vocazione si lascia provocare da ciò che avviene nella trama delle circostanze e dei rapporti, non li evita o li salta. Questo vale, ovviamente, anche per l’esperienza scolastica.

3) Assumere come criterio del proprio lavoro il servizio alla vocazione integrale della persona, testimoniando che la verità e l’amore non sono mai autoprodotti, ma sempre e solo donati, sono una scoperta e non un’invenzione9. Infatti la vocazione, mentre fiorisce dal basso mediante l’affronto delle circostanze e si fa intendere da dentro, nel cuore e nell’intelligenza, viene generata sempre dall’alto e può essere solo ricevuta e perciò accolta come un dono.

A ben vedere, prima ancora di aggiungere contenuti è bene dare attenzione agli studenti che incontriamo. Anche i più annoiati e i più “difficili” portano dentro una voglia di vita che non sanno spiegarsi. L’educatore non si impone, si propone e si mette a cercare, ad ascoltare, cammina insieme. Proprio nella fedeltà al suo compito diviene testimone che la vita è vocazione. Per nutrire questo sguardo può essere utile concludere con una pagina preziosa di Romano Guardini:

«Anche la nostra nascita alla Vita di Dio giace in una profondità oscura; nel mistero del Battesimo, della Grazia. Nel seno di Dio. E noi sperimentiamo che questo vivere prende rilievo nella coscienza solo di tanto in tanto. Annotiamo la sua chiamata, il suo ammonimento e le sue leggi. Abbiamo il presentimento delle sue possibilità eterne. E dobbiamo credere che questo esistere è reale; più reale ancora dell’altro. Anche nell’altra persona dobbiamo vedere la Vita di Dio e come educatori averne viva sollecitudine.

La prima questione, in cui l’educatore aiuta l’educando, è nel guadagnare la ferma convinzione di avere un destino ed una possibilità di affermazione. Così è anche riguardo l’esistenza divina in noi.

Quest’esistenza è generata da Dio dentro la nostra vita e noi crediamo che questo Dio l’aiuterà e la condurrà a piena libertà. Che Dio ci farà incontrare le cose che giovano alla vita divina in noi; che Egli allontanerà ciò che le nuoce; e ci proteggerà dalla tentazione. A tutto ciò è legata anche la ferma convinzione, proveniente dalla fede, che il mondo non è per nulla un automa rigidamente programmato, ma sta nelle mani di Dio; che in ogni istante il mistero dell’azione del Dio vivente penetra il mondo.

È giusto che ciò sia posto come ultimo sigillo alla nostra comune riflessione. Ogni naturale educare possiede un senso positivo. Ma ciò che è unico ed originale è il fatto che in noi avviene una nascita, generata da Dio. C’è in noi una realtà alla quale dobbiamo prestare attenzione, in cui crediamo e per la quale dobbiamo pregare, che Dio la guidi a compimento»10.