N.05
Settembre/Ottobre 2011
Studi /

Un alleanza vitale per educare. Riflessioni sulla questione educativa

  1. Il senso della questione educativa, oggi

«Viviamo in una società di orfani, e in una scuola della vita nella quale i maestri sono rari quando non assenti. Le famiglie, come l’insieme delle istituzioni, appaiono manzoniani vasi di cocci; generazioni di genitori inseguono più il mito della propria giovinezza che i traguardi impervi dell’insegnamento e del confronto generazionale. La più grande delle emergenze è quella educativa. Il nostro è un presente di individui che le nuove tecnologie proiettano in un’atmosfera senza tempo e spazio. Rarefatto è l’ossigeno della coscienza responsabile. Sottostimato il pericolo di una nuova solitudine »1. Queste lucide e icastiche parole di Ferruccio De Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», possono suscitare valutazioni diverse; indicano tuttavia con chiarezza come sia in atto una “crisi” che fa di quella educativa la più grande delle emergenze che abbiamo2.

Sarebbe errato pensare che oggi l’educazione non accada. All’interno delle società e delle culture le dinamiche educative accadono di fatto e necessariamente in una direzione o in un’altra, in uno stile piuttosto che in un altro. Infatti le comunità, civili o religiose, possiedono meccanismi e istituzioni con cui trasmettono codici di comportamento e quadri “valoriali” di riferimento che le identificano. Jacques Maritain aveva colto questo potenziale educativo delle dinamiche socio-culturali già nel 1943, quando, pur distinguendo tra la “sfera educativa”, costituita dalle entità collettive specificamente incaricate di educare o insegnare (famiglia, scuola, stato e Chiesa) e una sfera “extra- educativa”, sottolineava che «il fatto forse più paradossale è che la sfera extra-educativa – cioè l’intero campo dell’attività umana, particolarmente il lavoro e le pene di ogni giorno, le dure esperienze dell’amore e dell’amicizia, i costumi sociali, la legge (che è un “pedagogo” secondo San Paolo) la comune saggezza incarnata nelle tradizioni collettive, lo splendore ispirante dell’arte e della poesia, la penetrante influenza delle feste religiose e della liturgia – tutta questa sfera extra-educativa esercita sull’uomo un’azione più importante per il realizzarsi pieno della sua educazione, che non la stessa educazione»3.

In un passato non lontano le dinamiche del processo educativo evocato, costituto da atti di diverso momento e tenore, funzionavano reggendosi sul rapporto intergenerazionale che – nonostante ci siano sempre state difficoltà di comprensione tra genitori e figli o tra insegnanti e allievi – aveva un carattere

di comunicazione interpersonale e di esercizio di memoria che garantiva la trasmissione/condivisione del senso della realtà e del vivere umano. Nel contesto attuale l’acuirsi delle difficoltà di rapporto tra le generazioni, i cambiamenti che riguardano le età della vita e le complesse avventure della formazione dell’identità personale nel pluralismo postmoderno rendono più lancinante il senso della crisi. Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei nuovi venuti secondo la tradizione ereditata dai padri, oggi constatiamo la dissoluzione di questo automatismo, con tutti i rischi e le opportunità che questo porta con sé4: da un lato, infatti, la differenziazione sociale e la crescente individualizzazione hanno ampliato le possibilità di scelta della persona; dall’altro, nella tra svalutazione dei valori e nella fine delle grandi narrazioni che caratterizzano il nostro tempo5, i luoghi disertati dalle evidenze di ieri mancano di segnali precisi e lasciano vacante la zona dei quadri di riferimento divenuti incerti e sproporzionati al cambiamento che è in atto, con la conseguenza che per la coscienza è sempre più difficile distinguere il bene dal male e il vero dal falso.

In un momento come questo diventa decisiva una pratica educativa fondata sulla responsabilità e libertà per sé e per l’altro e su una rinnovata capacità di ricordare e”raccontarsi” tra generazioni6. Eppure dobbiamo constatare che molte persone e istituzioni abdicano al proprio compito educativo in nome di una sterile neutralità per cui tutto sembra indifferentemente possibile. Il che produce un abbandono dei più giovani alla loro solitudine di fronte al compito di interpretare il senso del vivere. Con il rischio di un «furto dell’anima» perché «la “pratica” nella quale siamo immersi è denotata sia dalla riduzione della capacità comunicativa e della capacità di provare sensazioni attraverso l’educazione e il rapporto stesso con la natura che dall’impoverimento dell’apparato sensoriale che guida l’organizzazione di una società, segnando così l’evanescenza del mondo»7.

Se i tradizionali processi educativi faticano a raggiungere i loro scopi, la formazione dell’uomo continua però ad accadere. Ne è un segno il fatto che le fragilità dell’identità personale che sperimentiamo non significano che le identità siano vacillanti e senza consistenza (ciò a cui potrebbe far pensare una eccessiva insistenza sul tema della “liquidità”), ma piuttosto che queste – nel contesto ampiamente pluralizzato in cui ciascuno vive – sono sempre in trasformazione e vengono rischiosamente reinventate, riprese e rielaborate dai singoli in prima persona perché non derivano più principalmente da prescrizioni e trasmissioni fissate e rigide. «Non si deve [perciò] pensare che il passato fosse una specie di età dell’oro dell’educazione. Si potevano ottenere più facilmente i comportamenti desiderati dagli adulti o dalla società, ma non è detto che questo avvenisse sempre nella libertà e avesse le sue radici nella coscienza»8.  Tuttavia oggi corriamo il rischio di cadere vittime di processi sistemici anonimi, disumanizzati e disumanizzanti, dove il conformismo  si sostituisce alla libera e responsabile ricerca della propria identità9. È per salvarci da questa pericolosa deriva che diviene irrinunciabile riproporre e riproporci la questione educativa. Il che non accade automaticamente e richiede una decisione in favore dell’educare.

I cristiani, che hanno il dono e la responsabilità della profezia, sono chiamati ad offrire il loro contributo su questa questione. È significativo, in proposito, l’appello di Benedetto XVI a un risveglio della passione educativa delle comunità cristiane, «quella passione educativa che è una passione dell’”io” per il “tu”, per il “noi”, per Dio e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi»10. Ma il risveglio della passione  educativa non può essere solo uno sforzo di volontà e d’impegno: esso chiede che l’educare sia ripensato a partire dal suo significato originario, mettendosi in gioco con libertà. È questo che caratterizza la ricerca, teorica e pratica, intorno alla questione educativa.

 

  1. Il significato antropologico e relazionale dell’atto educativo

Affrontare la questione educativa significa chiarire quali siano la natura e il fine dell’educare stesso, quale sia il suo significato antropologico e relazionale. Senza dimenticare che parliamo di “questione” educativa perché il significato effettivo dell’educare è di essere una domanda aperta, espressione della condizione esistenziale che caratterizza la vita umana quale docta ignorantia (non sappiamo pienamente chi siamo e che cosa vogliamo veramente e tuttavia sappiamo che deve esistere qualcosa che non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti11) che si esprime in un continuo, rinnovato impegno dell’affetto, dell’intelligenza e dell’azione, ossia di tutta la persona che, tra le contraddizioni e le speranze che la caratterizzano, e-siste edificando se stessa e il mondo12.

Ciò chiede di valutare e decidere se di educazione abbia senso parlare solo in termini di adattamento della persona al suo ambiente umano (e quindi come perfezionamento di conoscenze e abilità e sostegno all’espressione spontanea in riferimento alla condizione “naturale” del vivere) o se invece, accanto e oltre questo, educare significhi condurre il soggetto ad accedere all’unicum della sua stessa umanità e dunque al progressivo perfezionamento della sua identità personale e della sua relazione al mondo. La considerazione di una serie di elementi fondamentali coimplicati nell’atto educativo effettivo costituisce la base per giungere a questa valutazione/decisione in modo consapevole.

Il primo di questo elementi riguarda il fatto che la portata antropologica dell’educazione si comprende a partire dall’idea di “esperienza”, intesa come sintesi antropologica di soggettivo e di oggettivo, di particolare e di universale, di empirico e di trascendente13. “Esperienza”, in questo senso, dice la capacità stessa di relazione umana all’essere nelle sue molteplici e variabili espressioni, ovvero l’apertura dell’esistere umano in tutte le sue forme (affettive, pratiche e cognitive) alla realtà secondo tutte le sue possibilità in cui soggetto e oggetto accadono insieme. La persona umana vive facendo esperienza e questa dice la struttura antropologica del «chi» del quale l’educazione si prende cura.

Entro questo orizzonte di senso la cura educativa è anzitutto l’atto/relazione con cui l’uomo introduce via via il suo piccolo a dire di sì in modo liberoe originale, con responsabilità e competenza,alla vita che gli ha dato. In quest’ottica è anzitutto atto generativo in cui i genitori per primi «rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo»14, atto che ha la sua continuazione e il suo sviluppo nell’integrazione di auto relazione ed eterorelazioni che ciascuna persona vive nel corso della sua esistenza15. In questo senso l’educazione – che non è una tecnica per produrre qualcosa in qualcuno, ma un agire generatore che suscita l’identità e la capacità di azione di altri attraverso una relazione comunicativa16 – ha contemporaneamente una dimensione personale e una dimensione relazionale e comunitaria.

La comprensione di questo compito educativo e generativo, che nell’uomo si presenta in forma ben più originale, consapevole e prolungata di quanto avvenga nell’animale, suppone la consapevolezza di come quella umana sia – a differenza di quella dell’animale centrato sull’ambiente – un’identità aperta, in fieri, dove l’umano che ciascuno di noi ha ricevuto in dotazione alla sua nascita viene progressivamente plasmato e formato dal sentire, dalle azioni e dalle relazioni, dal pensare che ciascuno, vivendo, esercita come libertà e responsabilità. Così il vivere umano è un continuo dare forma al divenire17 in cui la vita consegnata nella nascita è affidata a chi è liberamente in grado di proseguirne la logica profonda di novità18. Educare è dunque aprire l’esistenza alla sua capacità di sempre nuovo inizio, «guidare lo sviluppo dinamico per mezzo del quale l’uomo forma se stesso ad essere un uomo»19, un uomo nuovo20. L’atto educativo è dunque molto più che una trasmissione di saperi e accade sempre – a diversi livelli – in una relazione libera, interpersonale e societaria. Perciò, in una società delle abilità, della tecnica e del saper fare come la nostra, l’attenzione all’educare ripropone in modo originale la «questione delle virtù», intese come abilità ad esistere, in grado di darci stabilità e consistenza all’interno di un mondo che sembra esserne privo e che tende a frantumare l’identità personale individuale in mille diversi ruoli, o personaggi, o esperienze, a seconda della prestazione che siamo di volta in volta chiamati a fornire21. Ma nello stesso tempo la consistenza della relazione educativa è compresa solo nella presa d’atto della necessaria mediazione storica della coscienza umana (nel doppio significato di autocoscienza e coscienza morale) per cui essa è l’evento di una datità originaria (naturale e/o sovrannaturale) e insieme comporta un carattere storico che si sviluppa vivendo.

La nostra identità personale, identità aperta, è quindi frutto di un elemento originario che via via prende forma in modi molteplici attraverso la memoria individuale e collettiva del passato, i pensieri e le azioni presenti e gli atti dell’attesa-progettazione del futuro. Perciò l’educazione accade nella distensione temporale della vita e delle generazioni che, grazie alla memoria condivisa, propizia la trasmissione/condivisione del patrimonio culturale contestuale ai grandi gruppi umani e alla loro storia istruendo a vivere il presente aperti al futuro22. In questo senso la storia precede l’individuo, ma l’individuo si pone come innovativo rispetto alla propria e altrui tradizione. La memoria condivisa di cui parliamo è sia memoria comunitaria, in cui avviene il racconto dei racconti dei testimoni, sia memoria culturale, in cui il patrimonio di sapienza ed esperienza intorno alla vita e al senso della realtà si conserva e si comunica ai nuovi venuti attraverso codici (miti, riti, stili di vita) che istituzionalizzano il ricordo e non attraverso la voce narrante di chi ha esperienza. In questo senso i singoli prendono significato entro le generazioni, ricevendo l’eredità e trasformandola, senza che la loro memoria, che custodisce l’antichità del Bene, si riduca al presente di una reminiscenza23.

Educare significa in tal senso iniziare a quei significati del vivere che sono inscritti nelle forme della vita comune e che definiscono la figura della vita buona. In questo la trasmissione educativa assume una consistenza radicale in rapporto alla formazione della coscienza24.

Educare significa allora mettere la persona – la mia persona, l’altra persona – in relazione consapevole con la “realtà” e quindi provocare incessantemente la sua libertà – radice del sentire, pensare e dell’agire in cui peraltro è radicata – all’affrontare e all’impegno, facendola entrare in un rapporto coinvolgente e integrale con gli altri,le cose, i processi e le circostanze in cui si imbatte25.

L’educazione è dunque l’arte di accompagnare l’inevitabile tensione della libertà delle persone ad “adeguare” la realtà. In questo senso essa è apertura al bene e alla giustizia che si offre e si promette anzitutto come quella “manifestazione” (o “rivelazione”) chiamante- coinvolgente che è la radice dell’adaequatio intellectus et rei che la nostra tradizione occidentale ha imparato a chiamare verità26.

Si tratta della correlazione tra libertà e verità quale condizione irrinunciabile di ogni processo educativo autenticamente umanizzante. Il che intercetta l’obiezione di certa cultura postmoderna che avanza l’ipotesi di una inconciliabilità tra un’autentica libertà umana e il fondamento veritativo. Tale obiezione si fonda però acriticamente su una doppia riduzione: quella che concepisce la verità in senso razionalistico deduttivo (dimenticando che l’apertura umana alla verità è integrale e vitale: estetica, etica e conoscitiva) e quella che intende la libertà come la capacità creativa di stabilire da me stesso cosa sia bene e male (ignorando l’essenziale elemento di incondizionatezza che la libertàporta sempre in sé27). Questa doppia riduzione di verità e libertà e del loro rapporto genera un serio fraintendimento circa la natura dell’educazione, fino a renderla impossibile. Infatti sia il soggetto che l’oggetto hanno la verità non solo in sé, ma per sé, come libertà: l’oggetto nel movimento dell’autorivelazione, il soggetto nel movimento dell’apertura. Quanto l’atto della verità significa il venire a se stessa e l’afferrare se stessa della persona umana, altrettanto la persona umana, per arrivare a se stessa, è assegnata e costretta all’altro che gli è di fronte e differente: l’altro uomo, il terzo della società e della tradizione, le cose, Dio che si rivela ecc.

Ad accoglierlo e a svelarsi a lui. Né essa è libera di decidere se vuole o meno rivelarsi, poiché già ritrova se stessa come chi, esistendo, è costretto – pur in forme e gradi diversi – alla sua propria rivelazione.

La persona è cioè già sempre dischiusa al mondo e il mondo è già sempre dischiuso a lei in modo che le condizioni di possibilità della sua rivelazione non solo si trovano prede lineate in lei stessa, ma lo sono anche nel suo altro, così che non gli resta altro che realizzare la sua libertà nella verità, che è perciò verità vitale. Questa sua disposizione non solleva la persona umana dalla possibilità e dal dovere di essere se stessa afferrando la propria libertà e ripetendola creativamente nella plasmazione della sua apertura

Al mondo nei modi fondamentali del ricevere e del donare, del servizio e della creatività, della giustizia e dell’amore, disposizioni diverse che sono tutte parti costitutive della dedizione, nella quale e per la quale solo avviene ogni auto rivelazione (in quanto dono, offerta) ed ogni apertura (in quanto accoglienza e ricezione) alla rivelazione dell’altro. Una dedizione che traspare anche nei suoi modi difettivi come il rifiuto e il dominio, l’asservimento e l’affratellamento ciarliero… che obnubilano la ricerca della verità nell’erranza dell’errore.

Il senso della correlazione di libertà-verità del pensare e dell’agire, alla luce della rivelazione cristiana, traspare nella sua realtà di mistero d’amore: la verità è rivelazione che avviene liberamente per amore, quell’amore che si esprime nell’agape connessa al divino ed è il cuore della novità del cristianesimo28

 

  1. La risorsa vitale dell’alleanza educativa

Le riflessioni sviluppate a proposito della questione educativa ci permettono ora di comprendere come quella che oggi viene chiamata “alleanza educativa” sia una risorsa vitale per il futuro di un’educazione autenticamente umanizzante. Essa non va intesa solo come strategia emergenziale di fronte alla congiuntura educativa, ma va compresa come appartenente al carattere originario dell’educare stesso, dove sono in gioco come concostitutive le relazioni parentali, i rapporti interpersonali e l’appartenenza alle istituzioni e alle diversificate espressioni sociali, religiose e culturali. La riproposizione della questione educativa sarà perciò tanto più feconda quanto più attiverà in maniera deliberata percorsi di comunicazione interazione fra i vari attori ed agenti – personali ed istituzionali – del complesso atto educativo, che siano rispettosi delle differenti caratteristiche e prerogative di ciascun partecipante al gioco – mettendo a confronto e in rete le diverse esperienze e unificati nel condividere la convinzione che l’atto educativo non può essere anonimo o neutrale, perché educare non è possibile se non a condizione di attestare e testimoniarsi reciprocamente ciò in cui si crede per vivere. Ai genitori, primi educatori, spetta di rendere ragione ai figli del carattere promettente della vita umana che hanno loro dato. Alla società sempre più pluralista e interculturale (e ai diversi corpi che la costituiscono come sistema di sistemi) di trasmettere in modo vivo il patrimonio della propria multiforme esperienza del vivere. Ai cristiani di poter dire Dio come promessa per il cammino della famiglia umana. Un’alleanza educativa di questo genere affianca gli uni agli altri nella ricerca della vita buona in modo che ciascuno, alla ricerca della verità dell’esistere che meglio si manifesta grazie al dialogo e al confronto con l’altro, possa dare e ricevere sperimentando in modo nuovo le realtà fondamentali della vita umana.

Quello dell’alleanza educativa è uno spazio in cui il credente e il non credente (a condizione di essere ambedue pensanti) si confrontano e cooperano per la crescita dell’uomo e della società. Qui «fede, cultura ed educazione – come scrivono i vescovi italiani – interagiscono, ponendo in rapporto dinamico e costruttivo le varie dimensioni della vita umana. La separazione e la reciproca estraneità dei cammini formativi, sia all’interno della comunità cristiana sia in rapporto alle istituzioni civili, indebolisce l’efficacia dell’azione educativa fino a renderla sterile. Se si vuole che essa ottenga il suo scopo, è necessario che tutti i soggetti coinvolti operino armonicamente verso lo stesso fine. Per questo occorre elaborare e condividere un progetto educativo che definisca obiettivi, contenuti e metodi su cui lavorare»29.

Questo è possibile perché tra la trasmissione/condivisione della fede e dell’amore cristiano e l’educazione della persona umana vi è un legame significativo per il quale ciascuna arricchisce l’altra rispetto alle dimensioni fondamentali dell’esistere umano30. Quando nella comunità ecclesiale e nel singolo credente accade l’esistere cristiano, quale intreccio di relazioni ed esercizio di pratiche nello stile scaturito dall’incontro personale con Gesù Cristo e dalla fede in lui, l’esperienza cristiana diviene luogo di educazione e di formazione dell’identità personale nel tempo stesso in cui la vita umana, individuale e comunitaria, permette al cristianesimo di divenire reale. Nella vita dei credenti, cioè, formazione cristiana e formazione umana procedono insieme e tendono ad essere un’unica cosa, perché i racconti evangelici non raccontano solo l’itinerario di Gesù, ma ciò che egli diviene in e per coloro che incrociano il suo cammino31. Per questo intrinseco potenziale di umanizzazione connesso al vivere in “stile” cristiano, i cristiani e la Chiesa custodiscono un tesoro che le nostre società rischiano di perdere. E nella misura in cui sapranno riscoprire la passione per l’educazione e suscitare vocazioni educative creative e competenti, lo offrono come contributo significativo all’impegno educativo della società plurale che vede «il coinvolgimento non solo dei genitori e degli insegnanti, ma anche degli uomini politici, degli imprenditori, degli artisti, degli sportivi, degli esperti della comunicazione e dello spettacolo»32. Lo donano a chiunque e da chiunque possono ricevere.