N.06
Novembre/Dicembre 2011
Studi /

Accompagnare: la questione del merito

Questione cruciale quella del metodo. Ancorché spesso disattesa, a causa forse d’un pregiudizio di natura vetero o neo illuminista, secondo il quale ciò che conta è la chiarezza delle idee, o a causa più semplicemente della fatica di tradurre la teoria (e le tante nostre teorie) in percorsi praticabili da tutti, o la spiritualità in regola di vita. O disattesa, ancora, perché sembrano permanere ancora dubbi, sia sul piano teorico o della dignità e consistenza del concetto di metodo, sia sul piano pratico e dell’effettiva possibilità di indicare una strategia generale e una serie di attenzioni metodologiche evolutive, un obiettivo finale e degli obiettivi intermedi. Eppure sempre, in ogni pedagogia o cammino di crescita, la questione del metodo è decisiva.

Non intendiamo certo qui affrontare per esteso nella sua complessità tale questione, ma per lo meno intenderemmo offrire qualche indicazione teorica e operativa circa la pedagogia dell’accompagnamento vocazionale (AV), lungo le sue successive fasi. Iniziando, però, da una questione preliminare, o che tale sembra, a proposito dei soggetti che intervengono in questa vicenda.

  1. Natura e definizione, attori e contesto

È impossibile parlare del metodo senza chiarire almeno per sommi capi la natura della realtà di cui parliamo, chi vi entra in gioco e all’interno di quale contesto o habitat credente.

Anzitutto partiamo da una certa idea di AV come di quel processo di natura psicopedagogica e spirituale lungo il quale un fratello o sorella maggiore (per età e/o esperienza di vita) si fa accanto a un fratello o sorella minore per un tratto di strada, per aiutarlo a sentire e discernere la voce di Colui che lo chiama, e a decidere di risponderGli in libertà e responsabilità.

Alcuni elementi da sottolineare velocemente.

Per prima cosa va rilevata la natura duplice di un AV, come realtà che procede secondo le leggi della scoperta della propria identità e della capacità decisionale, ma anche e sempre in forza di quel dinamismo spirituale condotto dalla Grazia che viene dall’alto: entrambe le realtà vanno sempre tenute insieme e ben presenti, poiché il progresso intrapsichico cammina di solito strettamente unito a quello spirituale. L’uno illumina l’altro.

L’AV non crea vincoli inossidabili ed eterni tra accompagnatore e accompagnato, poiché appartiene alla categoria delle mediazioni; non è una relazione duale, ma aperta a un Terzo, il Chiamante; non dura tutta la vita, ma solo un tratto di essa, a un certo punto deve finire.

Personaggio e attore più importante in questo cammino è Colui-che-chiama, il Padre Dio che non cessa di chi-amare colui che ha creato, perché si realizzi secondo il progetto della creazione e sia se stesso, nella verità e libertà. È la sua voce che va riconosciuta, è il suo progetto che va realizzato, è la sua grazia che dà la forza di seguirlo.

Interlocutore del Dio chi-amante è il giovane chi-amato. È lui che viene accompagnato per un’operazione di discernimento e poi di scelta. E dunque lungo una via nella quale dovrebbe raggiungere sempre più lo stato dell’adulto nella fede, capace di fare scelte da credente. Di per sé, dunque, tutti idealmente in una comunità credente andrebbero accompagnati vocazionalmente, non solo quelli che sembrano avere un qualche interesse in tal senso. L’AV non è premio o privilegio per alcuni chiamati, ma luogo normale (“ecclesiale”) di nascita e crescita della coscienza di esser chiamati.

C’è poi tra gli attori l’accompagnatore vocazionale, colui che in questa chiamata rappresenta il mediatore, colui che sta esattamente nel mezzo per favorire l’incontro tra Chiamante e chiamato. Non attira dunque a sé, né alla sua persona né al proprio eventuale disegno vocazionale sull’altro (magari legato alla sua istituzione). Il suo obiettivo è aiutare il chiamato a scoprire il progetto di Dio su di sé per decidere di aderirvi, non – almeno primariamente – andare a caccia di nuovi membri per la sua propria realtà di appartenenza. Deve essere libero dentro, dunque, umile e retto, e avere percorso lui stesso quella strada lungo la quale ora si fa compagno di viaggio dell’altro, con lui condividendo il pane del cammino. È grazie a questa sua personalissima esperienza che ora può aiutare a non smarrirsi girando attorno a se stessi.

Importante è anche osservare il contesto in cui avviene l’AV, ovvero la Chiesa come comunità di chi-amati anch’essi. Un’AV non avviene nel vuoto, non è qualcosa di privato e segreto, come non è nemmeno qualcosa di straordinario ed esclusivo, abbiamo detto, ma dovrebbe sempre più essere il modo normale ed ecclesiale di crescere nella fede di una comunità credente. Tutti sono infatti chi-amati, e se ognuno ha il diritto nella Chiesa di essere accompagnato in questo impegnativo cammino, tutti, pure, dovrebbero divenire chi-amanti, ovvero sentire la responsabilità della vocazione altrui, offrendosi come mediatori, in un modo o in un altro, del Dio chi-amante. Il passaggio dall’essere chiamato all’essere chiamante dovrebbe essere come una parabola di vita per tutti i credenti.

Passiamo ora alla questione vera e propria del metodo.

  1. Accompagnamento educativo

La prima attenzione dell’animatore vocazionale (anvoc) dev’essere volta alla persona che accompagna, al suo mondo interiore, cuore, sentimenti, passioni, ideali, desideri… a volte confusamente presenti in un guazzabuglio interiore che pare ospitare anche un certo barlume vocazionale. L’anvoc accorto non può darne per scontata l’autenticità, proponendo subito una vera e propria formazione vocazionale. No, non è ancora il momento, prima viene la fase educativa e solo poi quella formativa. D’altro canto non può dare per scontata nemmeno l’assenza del germe vocazionale, qualora il soggetto lo neghi. Fase educativa vuol dire entrare piano piano nel mondo interiore del soggetto per coglierne la verità1, per capire cosa c’è in esso, a livello il più profondo possibile, per dare un nome a quei sentimenti, passioni, ideali, desideri… che di fatto gli impediscono di “vedere” la verità della vita e di se stesso, di Dio e del suo progetto, del suo presente e del suo futuro, o gli impediscono di scegliere nella verità.

2.1 La verità a tre livelli

Più precisamente si tratta di dare alla prima fase dell’AV questa triplice finalità veritativa: conoscere e mettere a fuoco cosa disorienta il soggetto nel momento di scegliere, di scegliere da credente, di lasciarsi scegliere.

  1. a) Paura di scegliere

È il primo punto. Strettamente legato con la dinamica vocazionale e pure con la cultura antivocazionale odierna: i nostri giovani vivono in una cultura a-decisionale, in cui scegliere non va di moda, in cui ogni decisione si lascia sempre una via d’uscita o la possibilità di cambiarla se non va più bene… Non parliamo poi della scelta definitiva, del legarsi per sempre ad una persona o ad un ideale. Non è considerato né vantaggioso né possibile. E così stiamo costruendo una società di perenni indecisi, ove nessuna scelta è più credibile e creduta, e nessuno – alla fine – si fida più della parola di nessuno. La crisi vocazionale è anzitutto crisi proprio di questa capacità di scelta, a livello semplicemente umano. L’AV è efficacissimo antidoto in tal senso, provocazione ed esercizio ad imparare a scegliere, anzitutto scoprendo dentro di sé la paura corrispondente, mettendone in evidenza le radici a volte segnate da ferite, mostrando al giovane come sia succube della cultura del momento quando si tira indietro di fronte alla responsabilità e al dramma della decisione, e come sia stolto lasciarsene condizionare, privandosi d’una esperienza tra le più qualificanti l’esperienza umana e più espressive della sua dignità.

  1. b) Paura di scegliere da credente

È conseguenza di quanto appena detto e assieme aggravante la situazione del giovane e del credente. La paura di scegliere a livello umano contamina inevitabilmente anche l’atteggiamento credente, indebolendo o addirittura vanificando quello che dovrebbe essere il coraggio di fare scelte in linea con la propria fede. È una sorta di sindrome anch’essa abbastanza moderna e dunque facilmente rilevabile nella grande maggioranza dei giovani d’oggi, ovvero la schizofrenia tra la fede e la vita, tra la messa della domenica (quando c’è) e la vita feriale che scorre obbedendo a meccanismi automatici e incontrollati, spesso ambigui o pagani, senz’alcun raccordo con una fede più proclamata che professata. Anche qui scatta una paura (quanta paura nella generazione giovanile odierna!), la paura di complicarsi la vita se ogni scelta dovesse partire dall’ascolto di Dio.

E, assieme alla paura, l’incoscienza e l’ignoranza di quanta inedita libertà, in realtà, vi potrebbe essere nella vita di chi si lascia ispirare da questo ascolto.

L’AV in questa fase dovrebbe fare proprio questo: indicare la paura e, assieme, quell’imbecille ignoranza. Perché il giovane si renda conto del male che rischia di farsi con le proprie mani.

  1. c) Paura di lasciarsi scegliere

È il timore finale, quello che resta un po’ sullo sfondo degli altri due e che rappresenta pure, in ogni caso, una componente normale della fede: chi vive una relazione vera con il Dio di Gesù Cristo, sa che la maturità della capacità decisionale è nella libertà di lasciarsi scegliere, sa che gli conviene dare la precedenza al progetto di Dio su di sé, ma al tempo stesso teme tutto ciò.

È bene che l’AV porti allo scoperto questo intreccio tra paure e certezze, tra timori un po’ infantili-adolescenziali e bene reale della persona, lasciando che emerga tutto quel sottobosco emotivo col quale spesso l’uomo si difende da Dio complicandosi inutilmente la vita; così com’è bene che l’anvoc al tempo stesso provochi e aiuti il giovane a riconoscere questi sentimenti e a dargli un nome, a coglierne l’inconsistenza psicologica e la debolezza incredula, a decidere di non lasciarsene condizionare e imbrogliare. Per il suo bene anzitutto.

2.2 Più vero e più libero (d’essere chiamato)

L’AV nella fase preliminare, che è appunto quella educativa, deve mirare a “tirar fuori” questa verità, senza la quale davvero diverrebbe difficile e quasi impossibile ogni scelta per il proprio futuro, e dubbia sarebbe qualsiasi scelta già fatta.

È ovvio che nessuno può calcolare quando questa fase possa considerarsi esaurita, anche perché di fatto non lo è mai. Importante è che il giovane in cammino impari a guardarsi dentro con occhio diverso e più libero di scrutare la verità di sé, anche quella meno gradevole, per iniziare a vedere pure quella di Dio nei suoi confronti, anche la più costosa, che diventa poi per lui anche la più liberante.

È prezioso che egli apprenda a guardarsi così, non solo perché non si racconterà più balle, ma perché in tal modo sarà più libero, di quella libertà che nasce solo dal coraggio di dirsi e sentirsi dire la verità, su di sé e su Dio. Ponendo in tal modo le premesse per riconoscere la voce dell’Eterno chiamante e sentirsi provocato a rispondere. A questo punto può iniziare la seconda fase, quella formativa.

  1. Accompagnamento formativo

La formazione rappresenta la seconda fase di un cammino di accompagnamento, quella in cui si propone una forma, nel senso forte del termine, come modo nuovo d’essere, di sentire, di sentirsi, di vedere la realtà, di cogliere la verità, di percepire Dio, di leggere la sua parola, di scoprire la felicità, di motivare la vita, di decidere il proprio futuro.

Se il processo educativo ha come obiettivo la verità del soggetto, e lo provoca perché abbia il coraggio di “tirar fuori” la verità di sé, anche quella che a lui era sconosciuta, il processo formativo ha come obiettivo la libertà, la libertà di essere se stessi secondo la propria vocazione. Che ora l’individuo ha la possibilità di scoprire. Grazie al nuovo modo di porsi dinanzi alla realtà, personale e sociale.

Ma perché è nuova tale modalità percettivo-interpretativa?

Lo è perché ora il giovane si sta liberando di quelle contaminazioni o virus che gli impedivano di connettersi con la realtà, umana e non solo umana, o che gliela distorcevano. Nuova perché solo ora

– come vedremo – è il tempo di proporre un modello, perché i suoi sensi sono sempre più liberi di percepire la bellezza di Cristo e di avvertire il fascino della sua persona, del suo cuore e dei suoi sentimenti, come qualcosa di radicalmente nuovo e inedito, strepitoso e inimmaginabile, e che pure ora si pone come modello della propria vita, come forma di vita nuova.

3.1 Libertà in tre direzioni

Il dinamismo educativo, come abbiamo visto, aveva condotto il soggetto alla scoperta della verità di sé a tre livelli. In maniera corrispondente il dinamismo formativo vorrebbe accompagnare il giovane ad essere sempre più libero, effettivamente libero nelle tre medesime direzioni: libero di scegliere, libero di sperimentare il fascino del Signore Gesù e della sua proposta di vita e, infine, libero di lasciarsi da lui scegliere. Vediamo in ordine.

  1. a) Libertà di scegliere

La libertà di scelta è una bandiera della cultura odierna. Tutto sembra in funzione di essa o del principio di autodeterminazione, come un valore sommo che promuove l’io e la sua dignità. Peccato che poi questo mito o religione della libertà assoluta sia contraddetto dalla realtà dei fatti. Già prima, infatti, abbiamo rilevato che l’uomo non sembra approfittare di questa tanto decantata libertà se si ritrova poi con la paura di scegliere, tanto che se potesse non sceglierebbe mai. Ma non solo, sembra venir meno anche quella particolare ricchezza dell’essere umano che è la sensibilità, la capacità di appassionarsi, di provare entusiasmo, di innamorarsi di qualcosa che renda l’uomo coraggioso e creativo e dunque deciso nelle sue scelte. C’è chi dice che oggi addirittura stiamo “perdendo i sensi”. Perché questo contrasto? Perché la libertà è qui proposta senza la verità e la libertà senza la verità è un non senso, come una macchina senza freni a folle velocità che è meglio tener ferma, non far partire mai.

Ecco perché è importante, dopo il lavoro della fase educativa, passare ora ad una fase più propositiva, all’indicazione di una verità, della verità, anzitutto a livello umano. Non più solo quella – già qui presa in considerazione – che il soggetto acquisisce circa la sua persona e i suoi problemi, ma la verità della vita, il senso dell’esistere, la sua grammatica universale, valida e vincolante per tutti, credenti e non credenti, che potrebbe essere riconosciuta in questa affermazione sorprendentemente vocazionale: la vita è un dono ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato2. Questa è la verità e pure l’autentica libertà dell’essere umano, il quale è libero di fare nella vita la scelta che desidera (ci mancherebbe!), ma non è libero di uscire da questa logica, poiché sceglierebbe allora la propria infelicità andando contro la grammatica della vita. Questo va detto con chiarezza estrema al giovane: è nella natura umana la spinta al dono di sé, che non è qualcosa di eroico, ma nasce dalla constatazione del bene ricevuto.

L’annuncio vocazionale deve accompagnare lungo queste due piste con rigore e pazienza: prima la scoperta grata e commossa del bene ricevuto (con tutto il tempo che ci vuole, a volte tanto!), e poi la scelta del tutto consequenziale di far dono di sé. Come dire: il senso della vita è vocazionale! Se passa questo principio non solo si offre libertà nella verità, ma si può fare poi ogni proposta.

  1. b) Libertà di appassionarsi

Non bastano tuttavia la logica e l’evidenza intellettuale, per quanto sorprendente. Per decidere di sé e della propria vita ci vuole qualcos’altro, ci vuole la passione del cuore. Una passione – come ci dice la psicologia – che può nascere solo di fronte a un modello vivente, a una persona viva. Che per il cristiano non può che essere lui, il Signore Gesù, la via, la verità, la vita, la libertà, la gioia… Questo è il momento centrale, il cuore dell’AV. Momento nel quale l’anvoc è chiamato a confessare la sua fede e la sua passione per Gesù, il Signore della sua vita. Qui non funzionano tanto tecniche e strategie varie d’intervento; nessun anvoc a questo punto può fingere o barare: o è sinceramente appassionato lui stesso, o diventa tutt’al più un discreto orientatore che tenta di indicare la facoltà universitaria giusta. In effetti qui c’è come un bivio nell’AV: o il cammino si blocca e non va da nessuna parte (come succede sovente in tanti infiniti discernimenti – poco – vocazionali) o – al contrario – prende una decisa direzione vocazionale. E non potrebbe essere diversamente; di fronte al Maestro e Signore non si può restare indifferenti. Soprattutto se chi lo propone è un suo discepolo innamorato.

  1. c) Libertà di lasciarsi scegliere

Abbiamo indicato prima il punto più alto della piena maturità decisionale credente nel coraggio non tanto di scegliere, ma di lasciarsi scegliere. E siamo sempre più nell’ambito della fede, anzi, laddove la fede cessa di essere solo adesione intellettuale, magari motivata da prove inoppugnabili, e diventa invece fiducia. È un altro momento importante e decisivo dell’AV. Quello in cui l’anvoc deve avere il coraggio di sollecitare una scelta cristiana, invitando ad andare oltre la scelta solo umana e i suoi criteri. È interessante e provocante a questo punto indicare esplicitamente questa differenza. La scelta solo umana è sicura, elimina il più possibile gli elementi di rischio e cerca di prevedere tutto; è fatta su misura delle capacità della persona e di ciò che è sicura di saper fare. È scelta al minimo costo, non impone particolari sacrifici o rinunce, poiché è molto (e solo) ragionevole e logica. È scelta precisa e chiara, ben definita e calcolata, più prudente che coraggiosa; gestita totalmente dal soggetto in base ai suoi gusti e interessi e in vista d’un bene altrettanto soggettivo e privato. La scelta cristiana, invece, è scelta a rischio, ove si corre il più grande dei rischi (leggere la volontà di Dio) e si resta sempre con un margine possibile di dubbio, che solo la fedeltà della vita potrà progressivamente attenuare. È scelta al massimo costo, esprime cioè il massimo e il meglio di quel che la persona può dare, anche a fronte d’una rinuncia costosa, poiché laddove più alto è il sacrificio, più grande dev’essere pure l’amore. Chi sceglie da credente, inoltre, non mira a un bene soggettivo e solo suo, fosse anche di tipo spirituale (come la salvezza o la propria perfezione), ma fa una scelta che possa essere vantaggiosa anche per gli altri e che esprima il suo sentirsi responsabile dei fratelli, del loro bene e della loro salvezza. Ancora, la scelta cristiana è sì precisa, ma mai del tutto chiara al punto di garantire da ogni imprevisto; soprattutto non è calcolata, magari in base alle proprie doti e capacità, ma fiduciosa, tipica di chi trova la sicurezza fidandosi e affidandosi a Dio3; per questo la scelta cristiana è scelta di chi è libero di lasciarsi scegliere da Dio, anche quando la proposta divina supera nettamente le possibilità umane. Anzi, mira proprio a questo, poiché questa è la vocazione: il sogno che il Creatore ha sulla creatura, regolarmente eccedente ogni ambizione umana e pure garanzia di piena realizzazione per ogni creatura.

3.2 Come lo scriba del Vangelo

Attenzione: il rischio non è solo che il giovane non abbia il coraggio di andare oltre la scelta solo umana, ma anche che l’eventuale decisione benedetta di speciale consacrazione sia motivata da un atteggiamento più umano che autenticamente cristiano. Non è impossibile ed è già successo. Insomma, non tutte le scelte vocazionali sono scelte cristiane, per quanto strano ciò possa sembrare. E in genere ciò succede quando non c’è stato AV o non è stato condotto con metodologia intelligente da animatori vocazionali intelligenti. Chi sono questi “animatori vocazionali intelligenti”? Sono coloro, così umili e saggi, che prestano la loro voce al Dio-che-chiama; che sentono come un privilegio accompagnare il cammino vocazionale di qualche fratello minore e vi dedicano volentieri tempo ed energie; sono coloro che accompagnando altri non solo compiono un gesto fraterno e paterno di attenzione e responsabilità, ma scoprono anche sempre più la loro stessa chiamata e il modo di viverla nella fedeltà; insomma, vivono il servizio dell’AV come grazia di formazione (di formazione permanente). Assomigliano un po’ allo scriba del Vangelo, che estrae dal suo tesoro – come un padrone di casa – cose nuove (il loro essere chiamanti) e cose antiche (il loro essere chiamati, cf Mt 13,52).