N.06
Novembre/Dicembre 2011
Studi /

La domanda di compagnia educativa

La domanda di compagnia educativa nasce contemporaneamente dall’interno e dall’esterno delle persone. Dall’interno, perché gli umani conoscono la realtà attraverso i cinque sensi: udito, vista, tatto, gusto, odorato, più uno, il cuore, la coscienza. La compagnia è cercata perché è già contenuta nel movimento vitale del soggetto che si apre e conosce il mondo. Dall’esterno, perché in quanto mammiferi, gli umani sono sociali, come recita un noto proverbio africano: «Per fare un bambino occorrono un papà e una mamma; per crescerlo occorre un villaggio». L’esterno irrompe nella vita personale sotto forma di molteplici stimolazioni, in particolare quelle provenienti dai propri simili. L’intero percorso di vita di ognuno è scandito dal doppio ritmo dell’interiorità/esteriorità: mai da soli, mai senza l’altro, come diceva acutamente Michel de Certeau.

Un percorso mai compiuto: una relazione educativa autenticamente umana porta a scoprire, ci dice Agostino, qualcosa, o meglio Qualcuno, che è più profondo del nostro profondo e più alto di ogni possibile altezza.

 

  1. Ascoltare ed essere ascoltati

L’ascolto, nell’uomo, nasce fin dal principio. Ospite dal momento del concepimento nel corpo della propria madre, il bambino vive costantemente immerso in un universo sonoro, scandito dal ritmo del cuore della mamma. Poi, quando nasce al mondo esterno, è un costante e ininterrotto flusso di suoni e di rumori.

In questo caos di sollecitazioni sonore, è la voce della mamma, del papà e delle persone del background socio-familiare a dare ritmo e ordine ai messaggi: la parola e il suo significato e soprattutto il tono e le sue modulazioni.

Moltissimi aspetti della personalità e dell’intelligenza umana nascono in primis dalla qualità e quantità delle sollecitazioni sonore ricevute nella primissima infanzia. Non è un caso che i ricordi più importanti sono quelli legati alle musiche ascoltate nell’infanzia e nella giovinezza, e questa memoria ci accompagna tutta la vita.

Il dialogo dirige la crescita, che è costantemente scandita dalla domanda: «Perché questo? Perché quello?».

All’inizio le domande vengono poste ai genitori, poi, gradualmente, agli altri e a se stessi.

È per questo motivo che gran parte della dinamica educativa avviene sulla base della reciproca modulazione fra educatore ed educando, e niente è oggi così in crisi come questo aspetto e la gran parte degli educatori non fanno che ripetere: «I ragazzi di oggi non sanno più ascoltare!». Ma siamo capaci di chiederci in quale universo sonoro stiamo facendo crescere i nostri figli? Siamo in grado di coltivare consapevolezze significative sul tono della voce che gli educatori utilizzano nella relazione? E sulla pregnanza dei messaggi che trasmettono ai giovani? L’ascolto fonda la relazione educativa e i ragazzi non sanno più ascoltare perché gli adulti educatori non sono più capaci di ascoltarli.

Nei luoghi educativi c’è bisogno di sperimentare l’ascolto profondo, senza interruzione e contraddizione immediata, che al giorno d’oggi è spesso molto forte e violenta, non solo nei talk-show televisivi, ma proprio nella quotidianità delle relazioni, educative e non. La capacità di lasciare esprimere l’altro è la prima forma di compagnia educativa: ci sono, sono qui con te e, al meglio che posso, ti dono tutto il mio tempo e la mia attenzione.

È forse arrivato il momento di riportare il silenzio attento e amorevole nel cuore delle pratiche educative. Ignazio di Antiochia diceva che Gesù è «la Parola uscita dal silenzio». Sapienza universale: gli Indiani di America ritenevano importante far precedere ogni tipo di comunicazione verbale da un momento di rispettoso silenzio.

L’ascolto profondo dell’altro è mostrato così bene nel Vangelo, nella pratica quotidiana di Gesù, che attraverso l’ascolto mostrava la propria bella umanità! Gesù appare come uno che è capace di ascoltare il cuore di chi ha di fronte ed è per questo che la sua parola è così efficace, perché nasce dall’amore totale per l’altro.

La prima forma di risposta alla domanda di compagnia educativa è l’ascolto.

 

  1. Vedere ed essere visti

Un altro senso fondamentale per la conoscenza della realtà, e quindi per un’educazione autentica, è la vista. Solo un poco più tardiva nell’acquisizione (nel grembo materno la luce arriva davvero molto attenuata e nelle prime settimane di vita la vista del bambino è ancora approssimativa), ma poi assume un ruolo molto potente. Lo sguardo è ciò che dà vita e, al pari della luce solare, è quello che attiva nel bambino piccolissimo l’attenzione e perciò gran parte degli apprendimenti fondamentali. Attraverso la vista conosciamo il mondo, ne apprezziamo la grandezza e la vastità. È pur vero che esistono gli abbagli, le visioni distorte e perfino le manipolazioni del vedere e ne viviamo le tragiche implicazioni nel nostro tempo, in cui le immagini assumono le fattezze dell’oscenità: nella mercificazione del corpo, specialmente femminile, nell’esibizione dell’orrido e della morte, nello sguardo perversamente indagatore della privacy.

Ma è proprio per questo che è importante recuperare la capacità di coltivare uno sguardo puro. Qui l’implicazione educativa è fortissima: il rapporto fra “soggetto” e “oggetto” del vedere ci richiama all’inter-essere di tutti i viventi, come canta bene Francesco, l’innamorato di Dio e del cosmo: «Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature. Spetialmente messer lo Frate Sole, lo quale è iorno e tu allumeni noi per lui. Et ellu è bellu, et radiante cum grande splendore. De Te, Altissimu, porta significatione».

Chi guarda e chi viene guardato fanno parte di un’unica meravigliosa realtà e al centro c’è la potenza stessa dello sguardo, come spiega bene il Magister Ugo di San Vittore: «La forza dell’amore è tale per cui tu sei, necessariamente, simile a ciò che ami, e sei trasformata – per la stessa comunione dell’amore – a somiglianza di ciò cui ti unisci per mezzo dell’affetto» (De Arra Anime).

Nella relazione educativa vedere va insieme con la domanda di essere veduti. Che si esprime nel bambino che, quando gioca a pallone, desidera profondamente essere veduto dal suo papà: «Papà, guarda!» E sappiamo bene che quando siamo guardati con amore tutta la nostra vita è trasformata e il nostro cuore è toccato nel profondo… Sì, siamo un po’ tutti come Zaccheo, che sale sul sicomoro per vedere quale fosse Gesù. Ci sentiamo sempre un po’ piccoli di fronte al soggetto/oggetto del nostro amore e siamo felici quando gli altri si accorgono di noi e a loro volta ci guardano con attenzione, affetto, fiducia.

La seconda forma di risposta alla domanda di compagnia educativa è uno sguardo puro, pieno di amore compassionevole.

 

  1. Stare vicini, stare lontani

L’ascoltare e l’essere ascoltati e il vedere ed essere visti rimandano alla terza forma di compagnia educativa, quella legata al tatto. Potremmo dire: alla condivisione.

Come nella cena di Emmaus, i nostri occhi si aprono al riconoscimento di chi è davvero chi abbiamo di fronte nel momento in cui il pane viene spezzato. Ascoltare ed essere ascoltati; vedere ed essere visti… Sono due azioni essenziali dell’essere umano, fondate sui due sensi principali. Due movimenti che possono a volte prevalere uno sull’altro, ma che di norma, in un’educazione sana, sono in armonia.

E cosa li può tenere in armonia se non il con-tatto?

Nella relazione educativa c’è un estremo bisogno di stare vicini. Ti sto vicino significa: mi interessi, mi stai a cuore, sono partecipe di quello che fai. Nel caso della paternità/maternità, ma non solo, la vicinanza assume le caratteristiche forti della responsabilità. Io mi sento responsabile per te, sono coinvolto a tal punto nella relazione che sto costantemente attento a quello che vivi e che fai.

In una visione profonda questo senso di responsabilità diventa attenzione per tutti gli esseri umani, al punto che, ci dice Levinas, l’altro da un lato è irriducibilmente diverso da me, eppure mi è così vicino che non può mai essermi in-differente. Il volto dell’altro mi interpella nella mia umanità più profonda.

Tuttavia, se nella relazione la vicinanza è eccessiva diventa soffocante. L’amore assume le sembianze del possesso. Invece la vita umana ha bisogno di libertà! E qui entra in gioco quella forma di amore che si esprime nella lontananza. Ti sto lontano significa: ti lascio libero di andare, di sperimentare e anche di sbagliare.

Luigi Giussani lo ha felicemente chiamato il “rischio educativo”. Non c’è relazione autentica senza lo spazio della libertà. Quante volte, nel Vangelo, Gesù vede da lontano quelli che poi diventeranno i suoi amici, come Natanaele. E da lontano il Padre misericordioso scruta l’orizzonte, in attesa del ritorno del figlio lontano. Anche quando siamo lontani, possiamo coltivare l’un l’altro uno sguardo pieno di amore e di compassione non giudicante: non siamo mai soli, ma sempre inter-dipendenti gli uni gli altri.

Questo doppio movimento si esprime bene nel riconoscimento delle proprie radici. Nel culto sincero dei propri antenati biologici, culturali e spirituali, la relazione educativa può trovare quel bell’equilibrio fra vicino e lontano, fra nuovo e antico, e ricondurre a unità la frammentarietà delle tante esperienze di vita.

Andrea Canevaro esprime bene questa verità attraverso l’immagine dell’educatore che cova il caos, come il Signore all’inizio della Creazione. Come la gallina cova l’uovo, l’educatore dà all’educando la vicinanza che dà calore e la leggerezza che non rompe l’uovo.

La terza risposta alla domanda di compagnia educativa sta nella ricerca di equilibrio fra vicino e lontano.

 

  1. Camminare insieme

L’immagine della cordata alpinistica è quanto più efficace per descrivere cosa è una compagnia. Si cammina insieme, legati, con ampio spazio fra l’uno e l’altro, per non intralciare i movimenti, ma nello stesso tempo non troppo lontani. Nella cordata è l’unione che fa la forza e, nello stesso tempo, ognuno è responsabile per sé e per gli altri. E quello che più conta è il ritmo.

«Due persone vogliono la stessa cosa. L’una dice: “Lo voglio e ci riuscirò!”, e tutti applaudono, ricordandosi che a scuola la maestra ripeteva loro quel ritornello: “Se tu vuoi, puoi!”. Si commenta:  “Costui è un duro e andrà lontano”. E poi, invece, non approda a nulla! Credo sia stato Napoleone a dire che la gente che sa dove va, non arriverà mai troppo lontano. Allora, giustamente, l’altra persona è uno che non sa troppo bene dove vada ma possiede uno slancio irresistibile, conosce la direzione e l’andatura. Costui conosce i segreti dell’abbandono: tutto il resto verrà da solo. È come uno sportivo: al momento buono dimentica la sua volontà, e si abbandona al giusto ritmo, perché è il ritmo, non la volontà, che lo farà vincere»1.

Camminare insieme significa trovare un ritmo comune.

Gli etologi hanno osservato che nel volo in formazione delle oche lo stormo è unito, ma non tutti compiono uno sforzo identico. Ci sono oche in testa alla formazione, che fanno la fatica maggiore perché frangono l’aria e che di tanto in tanto vengono rimpiazzate; poi quelle ai lati, che di impegno ne mettono parecchio; quelle al centro, che lavorano mediamente; e infine le oche che stanno in fondo, le più deboli, quelle più protette. Lo stormo va alla stessa velocità, ma non tutti compiono un identico sforzo e ciascuno può trovare il proprio ritmo, in accordo con quello degli altri.

Nella regola benedettina questo equilibrio è mirabile: da un lato sono indicate con minuziosità regole e procedure e dall’altro sono sottolineate moltissime eccezioni, sempre legate al contesto, alle condizioni particolari. E intrecciati a tutto l’amore, la compassione, uno sguardo buono su di sé e sugli altri.

La relazione educativa è compagnia in quanto si cammina insieme verso un fine comune e, come dice Clemente Alessandrino, uno solo è il Maestro, dell’uditore come dell’ascoltatore. Camminare insieme fa entrare profondamente in contatto educatore ed educando con la dimensione assoluta della vita, in cui l’inter-essere di tutte le persone e le cose è la fonte autentica dell’umiltà del conoscere e del fare.

Come dire: nel camminare insieme il limite non è impedimento, ma utile segnale per andare avanti. Nello scautismo questa pratica, bella e utile, viene chiamata “punto della strada”: siamo partiti da qui, abbiamo fatto questo tratto di strada, vogliamo arrivare là…

La quarta forma di risposta alla domanda di compagnia educativa è camminare insieme.

 

  1. Sostare

Nel fare strada il ritmo è importante, come è importante la capacità di fermarsi.

«Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’», dice Gesù ai suoi amici. Il Vangelo è pieno di momenti in cui il Maestro lascia tutto e si ritira, da solo o con un piccolo gruppo, per pregare, riposare, stare tranquillo. Nella relazione educativa è importante essere capaci di sostare, da soli e insieme ad altri, per fare silenzio, per guardare meglio le cose, per raccogliersi in quell’interiorità così importante per una vita autenticamente umana.

Oggi le relazioni sono inquinate dal rumore, dalla luce abbagliante dei riflettori, dalla vicinanza soffocante e massificante, dalla solitudine disperata e spesso riempita con eccitanti e droghe. Anche le pratiche educative che si vorrebbero umanizzanti sono spesso vissute nel segno del troppo pieno, della congestione, della fretta.

In una comunità religiosa si prendeva il pasto di mezzogiorno in silenzio, come d’abitudine. Al termine del pasto, insieme alla frutta, la sorella che faceva compagnia agli ospiti intavolò una breve conversazione in cui i commensali erano invitati a presentarsi. Immancabile la domanda di una signora: «Ma perché abbiamo mangiato in silenzio?». Ci si sarebbe aspettati una risposta del tipo: «Così possiamo rivolgere il pensiero a Dio!», invece la sorella rispose: «In silenzio possiamo meglio vedere quello che c’è nel piatto e gustare meglio il cibo!».

Il maestro zen Thich Nhat Hanh fa del pasto consumato in consapevolezza uno dei cardini di una vita buona. Sostare, nella grande tradizione buddhista, è l’occasione per sperimentare la potenza trasformatrice del respiro consapevole, della meditazione seduta e camminata, del consumo responsabile, della cura per il Creato. Un tornare all’essenza delle cose. Thich dice una cosa bellissima: quando mangi un pezzetto di pane, tutto l’universo si è radunato per nutrirti (la luce del sole che ha reso possibile la crescita della pianta, la nuvola e la pioggia che l’ha bagnata, i sali e i nutrienti presenti nella terra dove è cresciuta, il contadino che l’ha tagliata, il mugnaio che l’ha macinata, il fornaio che ha fatto il pane, eccetera!). Il mangiare in consapevolezza, mostrando la profonda inter-connessione delle cose, apre alla meravigliosa realtà della vita e al suo Creatore.

Dice Roberto Mancini che il silenzio è via verso la vita. È tempo di recuperare, anche e soprattutto nella pratica educativa, la capacità di fermarsi, di stare in silenzio. Un educatore deve saper coltivare il proprio silenzio interiore, premessa di una vicinanza amorevole ed empatica nei confronti dei propri educandi.

La quinta risposta alla domanda di compagnia educativa è la capacità di sostare, in silenzio, da soli e insieme agli altri.

 

  1. Sapere e fare

Non c’è conoscenza vera senza amore e non c’è vero amore senza conoscenza. È una verità antica, ma quasi dimenticata. La relazione educativa è realmente una compagnia quando è nutrita dalla condivisione e dalla fiducia. La stessa etimologia della parola compagno rimanda a cum-panis, colui con il quale spezzi il pane. Siamo ancora alla cena di Emmaus.

Si cammina insieme e intanto si compiono esperienze. Si conosce insieme il mondo e quanto più lo si conosce e tanto più se ne scorgono l’immensità e la sua meravigliosa bellezza. Conoscenza come nuova, continua, meravigliosa, infinita ri-nascita. Lo spiega bene Raimon Pannikkar, quando illumina la parola conoscere attraverso il vocabolo francese: con-naître, nascere insieme.

La compagnia dell’altro è qualcosa che rende nuove tutte le cose. Lo sanno bene i genitori, che si sentono continuamente sfidati e messi in causa dai propri figli, specialmente quelli adolescenti! Ne fanno esperienza quotidiana gli educatori di ogni tipo, nel momento in cui certezze consolidate da anni di studio vengono messe in discussione da domande in-carne-e-ossa: la disabilità, la dipendenza, il dolore innocente e sempre, sempre, sempre, una domanda di senso, che in definitiva sta sulla soglia… Chi ha un minimo di esperienza educativa sa bene quanto su questi nodi la stessa autostima dell’educatore viene continuamente messa alla prova e chi in qualche modo ha la responsabilità della guida di anime lo sa meglio di tutti gli altri.

La conoscenza è illuminata potentemente dall’amore, dal senso di un’avventura comune, di un unico destino che com-pagina gli umani, gli animali, le piante, i minerali e il cosmo intero.

Conoscenza senza amore è una noia mortale, il dovere per il dovere.

Amore senza conoscenza è narcisismo, ricerca del rispecchia-mento della propria immagine, che inevitabilmente decade e lascia amarezza, sconforto e solitudine.

Conoscenza con amore è gioia, stupore, meraviglia di quanto è bello il mondo e quanto è grande Dio.

Amore con conoscenza è compassione, condivisione.

Amore con conoscenza è dare frutto, è generare alla vita, è far fruttificare i talenti propri e altrui.

Il sapere in compagnia nasce soprattutto da un fare insieme, dalla pratica condivisa, dall’appartenenza alla comune specie dell’homo faber. Facendo insieme si impara meglio quello che già si sapeva e si sperimentano forme nuove di conoscenza, potenziando ulteriormente l’amore e la gioia di stare insieme.

La sesta forma di risposta alla domanda di compagnia educativa è la conoscenza, nutrita da un fare amorevole.

 

  1. Gustare

Se è vero che non c’è amore senza conoscenza e non è data conoscenza vera senza amore, è altrettanto vero che non c’è sapere senza sapore.

Il gusto è un senso importante, un potente fattore di equilibrio delle cose dette finora.

Infatti, la capacità di camminare insieme presuppone la necessità di fare frequentemente il “punto” del cammino. Dunque, quello che abbiamo fin qui tentato di descrivere ha bisogno di criteri. Non abbiamo il tempo di approfondire il tema del giudizio, della valutazione e dei tanti aspetti che ruotano attorno a queste parole. Che a nostro avviso sono un po’ malate, perché inquinate da molti fattori.

Il principale, a nostro avviso, è quello che dà il titolo a questo contributo: la compagnia. La sua mancanza è il fattore principale di avvelenamento del giudizio e della valutazione. Come dire: quando giudico e valuto da solo posso sbagliare e di grosso; quando nel valutare mi affido a una comunità più ampia, il rischio si riduce.

Ma siamo ancora in superficie… Infatti, per fare un esempio riguardante il cibo, il gusto è dato solo dalla prima impressione, oppure diventa decisivo considerare molteplici altri fattori, per esempio la persistenza, il retrogusto e, non per ultimo, la salubrità di quello che abbiamo messo in bocca? E poi ancora, quale la salute globale del nostro organismo?

Così è nella relazione educativa: chi decide cosa è buono e cosa è cattivo, cosa fa crescere e cosa invece danneggia lo sviluppo armonico di un essere?

Qui ci viene in potente aiuto Ignazio di Loyola: tutto ciò che dà pace, gioia, felicità va in generale considerato buono e viene da Dio. Viceversa, quello che dà dolore, tristezza, angoscia e desolazione va considerato cattivo e viene dal «nemico della natura umana». Un messaggio molto simile a quello del Buddha Shakyamuni, che apre il suo insegnamento offrendo all’uomo una via concreta e praticabile per uscire dalla sofferenza. È bellissimo il modo in cui, in una della cerimonie zen del tè, questo venga bevuto in tre sorsi: il primo per il gusto, il secondo per il cuore, il terzo per la testa.

Il gusto dei sensi, quello del cuore e quello della mente. È buono? Perché? Dove mi conduce? Ecco alcuni buoni criteri di orientamento per la vita e per la relazione educativa. Va da sé che il gusto dipende dalla cultura e che può e deve essere coltivato. E torniamo alla condivisione!

L’ottava risposta alla domanda di compagnia educativa è la convivialità piena di senso condiviso.

 

  1. Domandare

La compagnia educativa, che è il cuore della relazione, si nutre di domande. Che in fondo sono due. La prima: mi vuoi bene? La seconda: pensi che sono in gamba? Alla fine, tutta la crescita umana e spirituale di una persona si può riassumere in questo: la stima di sé, sia sul piano dell’affettività, sia sul piano della competenza.

L’uomo è un’infinita domanda di amore e niente davvero lo può mai riempire.

«Homo capax Dei, quidquid Deo minus est, non implebit», dicevano i Padri.

Allora, ci si potrebbe chiedere, che senso ha farsi compagnia fra umani? Che senso ha la stessa educazione?

Qui ci viene in soccorso la sapienza antica. Quella di Socrate, che sa di non sapere, ma non per questo manca di divertita curiosità per la vita e per chi ne fa parte: umani, animali e cose. Quella di Agostino, che di fronte alla domanda: «Cosa c’era prima della Creazione?», risponde che il tempo è coevo a essa, quindi che la domanda è mal posta… Quella di Gesù, che di fronte ai sapienti che vorrebbero coglierlo in fallo sul rapporto tra fede e potere chiede: cosa è raffigurato sulla moneta?

Sì, quella di Gesù, che sempre ai sapienti che vorrebbero coglierlo in fallo sulla morale sessuale, rimanda prima alla legge mosaica, e poi alla propria coscienza. Gesù, che ai suoi amici chiede: «E voi, chi dite che io sia?».

Fare le giuste domande… sembra facile!

La relazione educativa, come la vita, è piena di domande mal poste, potremmo dire illegittime. Gesù, con tutti i grandi maestri spirituali di ogni grande tradizione, mostra una via sicura: quella dell’amore. A tuo figlio che ti chiede un pane, non dai certo un sasso, o se ti chiede un uovo, non gli dai di sicuro uno scorpione! Tutto ciò che viene fatto nel segno dell’amore conduce alla compagnia, cioè alla condivisione, alla misericordia, alla serenità e alla pace.

Una relazione che voglia rispondere alla domanda di compagnia deve rimandare all’interiorità profonda dell’uomo, e coltivare l’ascolto, il silenzio, la sosta. E nello stesso tempo indicare in alto, lassù, in alto, in alto, verso l’infinito, e ancora più su.

Verso Colui che è all’origine di ogni compagnia autenticamente umana.

La nona forma di risposta alla domanda di compagnia educativa insegna a porsi le domande giuste, nel giusto modo.

 

  1. Guardare le stelle

Guardare le stelle in una notte limpidissima fa sentire piccoli.

Nel profondo del cuore nascono domande decisive: da dove veniamo? E dove andiamo?

Il già citato maestro zen Thich Nhat Hanh dice: quando bevi il tè bevi una nuvola, perché nel tè l’universo si è radunato: acqua, sole, terra, lavoro dell’uomo. La profonda consapevolezza dell’appartenenza a un’avventura meravigliosa, che possiamo chiamare vita, apre alla coscienza che non siamo mai soli, che siamo sempre preceduti e seguiti da una nube di testimoni e compagni.

Il Sole illumina e dà vita, ma se viene guardato direttamente, può accecare. Non resta che guardare le stelle, meno abbaglianti, ma altrettanto belle, perché fatte della stessa sostanza del Sole.

Siamo fatti per l’infinito e ce ne rendiamo conto attraverso esseri e cose (in apparenza) finite.

Certo, anche guardare le stelle può incutere timore, ma l’importante è seguire quelle che ci indicano un cammino buono. Camminare insieme significa seguire la stella polare…

Con Bernardo di Chiaravalle possiamo cantare: «Segui la Stella: chiama Maria».

Le certezze che Maria ci dà sono: un bimbo indifeso, in una mangiatoia; un giovane uomo appeso a una croce; una tomba vuota, illuminata da un luce di meravigliato e timoroso stupore… Maria ci indica la via sicura, che è il saluto che il Risorto dà ai suoi: «Pace a voi!»

La pace, mai senza l’altro, sempre in compagnia.

 

 

NOTE

1 F. Garagnon, Giada e quei benedetti misteri della vita, Paoline, Milano 2004, pp. 30-31.