N.02
Marzo/Aprile 2012
Studi /

Esplorando il Cantico dei Cantici: le espressioni dell’amore

In questo Convegno dall’intrigante titolo Rispondere all’Amore si può, mi è stato chiesto di “esplorare” il Cantico dei Cantici. Una scelta felice, anche se difficile, perché questo libro biblico parla d’amore; esso canta l’amore tra un uomo e una donna, l’amore sponsale, che però riverbera l’amore divino. Perché amore umano e amore divino si richiamano a vicenda e si illuminano reciprocamente.

È molto significativo, a tale proposito, che la Scrittura, in particolare i profeti, per parlare della relazione tra il Signore e il suo popolo, ricorra spesso, accanto alla metafora paterna, a quella sponsale, presentando Dio come sposo e amante del suo popolo e di ogni credente. E se l’immagine paterna esprime l’amore originario, creativo, che dona la vita e se ne prende cura, l’immagine sponsale, complementare all’altra, sottolinea il consenso e la libera adesione della persona amata, parla di una dimensione di esclusività che si esprime all’interno di una relazione paritaria, in cui l’amore suscita amore, nella reciprocità e nel dono di sé, senza riserve e senza ritorno.

E dono dell’amore divino sono le vocazioni, dono da accogliere  nella gratitudine, nella libertà gioiosa di chi, sentendosi amato, risponde con amore all’amore. Vocazioni che riguardano ogni persona, perché tutti, anche se in diversi stati di vita, sono chiamati ad amare; ma in particolare, per chi vive il celibato, per i consacrati, la via da percorrere è quella specifica di un rapporto personale, intimo, totalizzante con la Persona amata, cioè con Dio.

Ora, per assumere con maggiore consapevolezza e passione questa strada di amore, abbiamo l’aiuto di un testo biblico pieno di poesia, di gioia e di bellezza che ci viene offerto come il poema che simbolicamente apre allo sguardo credente le meraviglie dell’amore di Dio. È appunto il Cantico dei Cantici, i cui protagonisti sono due innamorati che, in una terra incantata, si parlano e ci parlano di amore e così ci insegnano cosa vuol dire amare.

Ma, poiché Dio è amore, l’origine assoluta che nell’amore sponsale si fa presente e ne svela il senso più profondo, i due innamorati del Cantico, mentre ci parlano di loro stessi, ci parlano di Dio. Perciò la tradizione spirituale della Chiesa per secoli ha interpretato il Cantico dei Cantici come il dialogo tra il Signore e l’umanità, tra Dio e l’anima credente. E anche senza cadere in interpretazioni spiritualizzanti o minuziosamente allegoriche, che vanno oltre il senso del testo, la lettura simbolica di questo libro biblico si impone e ne svela tutta la ricchezza. Perché l’amore dei due protagonisti rimanda a qualcosa che li trascende, racchiude in sé il segreto di un mistero infinitamente più grande, in cui Dio stesso si rivela per amarci e insegnarci ad amare.

L’uomo impara ad amare ascoltando parole d’amore. “Esploriamo” dunque il Cantico dei Cantici, ascoltiamo queste parole d’amore per imparare ad amare. Altri relatori poi affronteranno questioni più specifiche riguardanti la risposta vocazionale come risposta alla chiamata ecclesiale all’amore; noi, qui, leggeremo brani del Cantico e cercheremo di vedere come questo libro biblico presenta l’amore.

Nel Cantico, le parole dei due innamorati ci vengono donate per suscitare emozioni, intuizioni, coinvolgimenti; vi propongo perciò di ascoltare insieme la sua poesia e di gustarne la bellezza, perdendoci nel labirinto magico delle sue immagini. Perché, come ho già detto, l’amore che lì si esprime è l’amore di un uomo e di una donna, ma che ci parla dell’amore di Dio, ci insegna ad amare e, nel nostro specifico, ad amare rispondendo a quel dono d’amore che sono le vocazioni. Con questo spirito dunque leggiamo il Cantico, ascoltiamo le sue parole, che sono Parola di Dio.

Per la lettura del testo utilizzerò una mia traduzione dall’ebraico non strettamente letterale, in cui mi sono presa alcune libertà, ma sempre cercando di rispettare e di rendere il senso del testo e, possibilmente, anche la sua forza poetica.

Attraverso il Cantico, vedremo cinque aspetti, cinque diverse dimensioni dell’amore, tra loro connesse. La prima è l’amore come “dialogo che unisce”.

  1. L’amore è dialogo che unisce

Una delle prime cose che subito risaltano nella lettura del Cantico è la percezione dell’amore come relazione dialogica che crea unione. Lui e lei si parlano, si guardano, si cercano, in una reciprocità che li congiunge intimamente. Sono due, ma diventano uno, vivendo già nello spirito la realtà sponsale annunciata da Gen 2,24: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne».

A tal proposito è molto significativo il gioco di sovrapposizione delle voci dei due innamorati presente nell’episodio dell’incontro poeticamente descritto nel cap. 2 del Cantico. È lei che parla e dice:

Sento il mio amato,

eccolo che viene,

saltando sui monti,

balzando sui colli.

È come una gazzella

l’amor mio,

somiglia ad un cerbiatto.

E canta l’amato mio,

e mi parla:

Alzati, amica mia,

mia bella, vieni.

Guarda, l’inverno è già passato,

è finita la pioggia,

se ne è andata via.

Alzati, amica mia,

mia bella, vieni (2,8-9a.10-11.13b).

 

Lei lo sente arrivare, sente la sua voce, lui le parla, ma è lei che dice le parole di lui. Le due voci si fondono, sono diventate una, in quella di lei risuona quella di lui, in un parlare all’unisono che esprime la perfetta comunione, la profonda intimità che li lega. Sono due amanti che si incontrano e si perdono l’uno nell’altro. È l’esperienza dell’appartenenza reciproca tipica dell’unione sponsale, che serve ai profeti per parlare dell’alleanza (cf Ger 2,2-3; Ez 16,8-14; Os 2; 4,25; ecc.), del Signore come il “Dio di Israele” e di Israele come “popolo di Dio”, così sottolineando l’appartenenza e l’unione.

Nella stessa direzione va un’altra caratteristica del Cantico, una certa “specularità” che affiora spesso nel poema, dove sia lui che lei utilizzano immagini simili, soprattutto per descriversi. È un altro modo per dire l’unione, la somiglianza, quel perdersi per ritrovarsi nell’altro che è tipico dell’amore. Così, lui appare a lei come un cerbiatto, che salta sui monti per raggiungerla (2,9; cf anche 2,17; 8,14), ma anche i seni di lei sembrano a lui due cerbiatti, che pascolano tra i gigli, cuccioli frementi che giocano, si muovono, così dipingendo il movimento dei seni che si percepisce sotto la tela leggera del vestito quando lei cammina, corre, oppure danza (cf 4,5; 7,4). E gli occhi di lei appaiono a lui come due colombe che occhieggiano dietro il velo (cf 1,15; 4,1), ma allo stesso modo gli occhi di lui sembrano a lei colombe lavate nel latte, che si specchiano su rivi d’acqua purissima (cf 5,12). E lei appare a lui come un giglio (cf 2,2), ma lui, dice lei, ha labbra di giglio che stillano mirra (cf 5,13).

E se le vesti di lei hanno il profumo del Libano (cf 4,11), l’aspetto di lui è maestoso come il Libano con i suoi cedri (cf 5,15).

Lui e lei si assomigliano, si vedono con gli stessi occhi di innamorati, si fondono in un’unica realtà, in una appartenenza reciproca totale e incondizionata. Così è l’amore, che crea e fa scoprire inaudite “somiglianze”, come quella, stupefacente, tra l’uomo e Dio stesso; chi cerca Dio e si lascia amare da Lui finisce per assomigliarGli.

  1. L’amore è assoluto

Perché l’amore è totalizzante, coinvolge tutto l’essere, invade tutti i pensieri e prende tutte le energie. È la seconda dimensione dell’amore: esso è “assoluto”. La passione è travolgente; perciò, nel

Cantico, alla tenerezza si accompagnano espressioni forti che dicono la sensazione di perdersi, dolcemente, in tanta bellezza e in tanto amore. Ecco le parole con cui la ragazza del Cantico esprime questo sentimento:

Rianimatemi con uva passa,

ridatemi le forze con le mele,

sto morendo d’amore (2,5).

 

E poi:

Io vi scongiuro,

ragazze di Gerusalemme,

se trovate l’amor mio

che gli direte?

Ditegli, vi prego,

che sto morendo d’amore per lui (5,8).

 

L’amore è come una malattia, dolcissima, che illanguidisce e insieme dà forza. Se ho tradotto “sto morendo” è per dire tutta l’intensità del sentimento, con un’espressione che spesso gli innamorati usano; lei nel testo ebraico dice, letteralmente, che è “malata d’amore”, ma non chiede di essere guarita, chiede solo di essere aiutata e sostenuta, rianimata in quel suo venir meno, per vivere ancora più intensamente la sua dolce, travolgente “malattia”; una malattia che non uccide, ma fa vivere, perché è un libero abbandonarsi, in un totale dono di sé. E lei vuole che lui lo sappia, il suo amore deve essere dichiarato; non è un amore da vivere nel segreto. Lei muore di un amore ricambiato, da questa certezza viene la sua richiesta.

E anche lui, infatti, è nello stesso languore, e si dice stordito dalla bellezza di lei:

Come sono dolci le tue carezze,

sorella mia, mia sposa,

inebriano più del vino;

stordisce il tuo profumo,

più di tutte le essenze (4,10).

E ancora, anche se con un’immagine finale di difficile decifrazione:

Nel giardino dei noci sono sceso,

a vedere i germogli della valle,

a guardare se le viti hanno gemmato,

se è fiorito il melograno.

Ma ora non so più nulla, sono smarrito.

Mi sta portando via il mio desiderio,

come su un cocchio di principi (6,11-12).

Anche per lui la passione è irresistibile ed egli ne è sopraffatto, il desiderio lo travolge, quasi portandolo fuori di sé. Tutto fa allusione ad una felice intimità, alla gioia di un’unione che accende il desiderio, tanto da sentirsi smarriti e trascinati via, per perdersi nell’oggetto del proprio amore. Così è anche nel rapporto con Dio, nella dolcezza di perdersi in Lui, nel suo amore, e in Lui pienamente ritrovarsi.

  1. L’amore trasfigura

C’è poi una terza dimensione: “l’amore trasfigura” la realtà. La forza totalizzante dell’amore fa sì che tutto l’essere di chi è innamorato tenda verso colui che ama. L’altro è al centro del mondo, e gli occhi, cambiati dall’amore, vedono tutto in modo diverso, più positivo, in particolare la persona amata e la sua bellezza. E allora, per descrivere l’altro, si cercano paragoni, si fanno comparazioni, perché le parole usuali, le immagini e gli aggettivi di sempre, non bastano a dire quello che si prova, sono troppo poveri, troppo usati, così inadeguati.

D’altra parte, l’amore ha bisogno di esprimersi; i due innamorati del Cantico devono dunque percorrere altre strade, cercare nuove parole e nuove immagini per dire quello che sembra impossibile dire, per descrivere un fascino talmente grande che non si può descrivere. Questo evoca per noi l’esperienza dell’ineffabile, tipica anche e ancor più del rapporto con Dio, quando è ancora più difficile dire l’esperienza dell’amore divino; non ci sono parole adeguate per esprimerlo, bisogna inventare nuove parole per dire tanta grandezza.

Nel Cantico, i due innamorati si fanno aiutare dal mondo seducente e misterioso della natura, dall’imponenza delle città e dei suoi monumenti, dalla gioiosa visione di scene campestri, in accostamenti arditi e pieni di tenerezza.

Scelgo qualche esempio tra i più significativi, anche per assaporare la bellezza poetica di questo libro biblico. Dice la ragazza del suo amato:

Sacchetto di mirra è per me l’amato mio,

riposa tra i miei seni.

Grappolo di cipro è per me l’amato mio,

delle vigne di Engheddi (1,13-14).

L’immagine evoca un’intimità piena di dolcezza e soffusa di profumi; lui le riposa in grembo ed è come un sacchetto di mirra custodito nel luogo segreto e caldo del corpo di lei, dove quella resina odorosa può sprigionare tutta la sua fragranza. E lui ha il buon odore del cipro, un cespuglio che produce fiori a grappolo profumati e che viene qui accostato alle vigne di Engheddi, la rigogliosa oasi che si offre inaspettata, in pieno deserto, nei pressi del Mar Morto, col suo tripudio di verde e di cascate d’acqua zampillante.

Profumi inebrianti, fiori, vigne cariche d’uva, acqua che sgorga come un miracolo nel deserto: tutto questo è concentrato in questa scena fatta di tenera intimità, e lui ne è al centro, cantato da lei, accolto da lei tra i suoi seni.

E quando poi lei, più avanti, vuole descrivere l’amato in tutta la sua bellezza, allora è tutto il mondo che viene coinvolto per trovare immagini adeguate:

L’amato mio ha di latte e rose il volto,

spicca tra mille.

È d’oro purissimo il suo capo,

coi riccioli che son grappoli di palma,

e come piume di corvo tanto son neri.

I suoi occhi sono come colombi

che si specchiano nell’acqua,

lavati nel latte,

posati presso i rivi.

Le sue gote sono aiuole profumate,

siepi fiorite di aromi fragranti.

Di giglio ha le labbra,

e stillano mirra.

Le sue mani son ceselli d’oro fino,

tempestati di pietre preziose.

Il suo ventre è d’avorio levigato,

e vi brillano zaffiri.

Colonne d’alabastro son le gambe,

ben salde su basi d’oro puro.

Come il Libano è il suo aspetto,

stupendo come i cedri.

Al suo palato si colgono delizie,

tutto in lui è meraviglioso.

Questo è l’amato mio,

ragazze di Gerusalemme,

questo è il mio amore (5,10-16).

 

Non serve dilungarsi nel commento; un simile testo si commenta da sé. Tutto il corpo di lui è percorso dallo sguardo innamorato dell’amata: il volto dal roseo incarnato, i capelli ricci e nerissimi, gli occhi mobili come colombe, presso rivi d’acqua in cui immergersi e dolcemente naufragare, le gote dal profumo fragrante in cui perdersi durante l’abbraccio, le labbra che nascondono aromi inebrianti a cui abbeverarsi.

E poi le sue mani, perfettamente cesellate, che nessun orefice saprebbe fare più belle, il suo ventre, magnifico come una scultura d’avorio, levigata al tatto, calda nel colore, e infine le sue gambe possenti, dai muscoli scattanti, solide e forti come colonne di alabastro prezioso.

Tutto in lui è affascinante, lui, alto e stupefacente come i cedri del Libano, giganteschi, carichi di storia e di mistero, protettivi ed imponenti, lui, tenero amante pronto a donare, all’amata che lo bacia, le delizie del suo palato.

E anche lui descrive lei perdendosi nella bellezza irresistibile del suo corpo:

Quanto sei bella, compagna mia,

quanto sei bella

coi tuoi occhi di colomba

luccicanti dietro al velo.

I tuoi capelli

sono un gregge di capretti

che scendono saltellando dai monti di Galaad.

I tuoi denti,

come un gregge di bianche pecorelle

che salgono dal bagno

tutte appaiate, e nessuna ne manca.

Nastro scarlatto son le tue labbra,

la tua bocca dischiude dolcezze.

Spicchio di melagrana la tua gota

che arrossisce dietro al velo.

È come la torre di Davide il tuo collo,

costruita in modo perfetto.

Favo stillante son le tue labbra,

sposa mia,

e la tua lingua nasconde

di miele e latte la dolcezza.

Profumano di fresco le tue vesti,

come profuma il Libano nei boschi (4,1-4a.11).

 

Come per lui, anche di lei si canta il fascino degli occhi, colombe che si intravedono ritrose e ammiccanti dietro al velo; e i suoi capelli neri sono come i capretti che scendono dai monti di Galaad, e come quelle bestiole si muovono saltellando, ondeggiando nel movimento aggraziato della testa e delle spalle di lei. Poi, in contrasto, ecco il biancore scintillante dei denti, candide pecorelle appena lavate, tutte appaiate, perfette nella loro simmetria. E su quel bianco, risalta lo scarlatto delle labbra e la sfumatura rosata delle gote, che richiamano il colore delle melagrane, reso ancor più acceso dal rossore dell’eccitazione e del pudore.

E anche lei, come lui, ha delizie da donare, nascoste tra le labbra, più dolci del miele, e un profumo di fresco che esala dal suo corpo e fa sognare: affondare il viso nelle sue vesti fragranti è come vagare in una foresta incantata, felici di smarrirsi nei boschi magici del Libano.

Come tutto cambierebbe se anche noi ci lasciassimo incantare dalla bellezza di Dio come questo innamorato del Cantico si lascia incantare dalla bellezza di lei; i nostri occhi allora sarebbero trasformati, vedrebbero tutto in un modo nuovo, la realtà sarebbe diversa, trasfigurata. Perché cambiano gli occhi e cambia il cuore, se ci lasciamo abbagliare dalla luce e dalla bellezza di Dio e del suo amore.

L’innamorato del Cantico, lui si lascia abbagliare, lui sa come cantare l’amore. E non è solo la natura a venirgli in soccorso per celebrare la bellezza di lei. Più avanti, continuando a percorrere con lo sguardo e il canto il corpo di lei, lui la paragona alle grandi città, Gerusalemme, la città santa in cui Dio abita, a cui va il desiderio e la nostalgia di ogni israelita, e Tirza, città cananea, antica capitale del regno del Nord:

 

Bella tu sei, compagna mia,

bella come Tirza,

affascinante come Gerusalemme,

conturbante come una costellazione di stelle.

Distogli da me il tuo sguardo,

mi turbano i tuoi occhi (6,4-5a).

E poi, quando lei danza, davanti a lui si aprono abissi d’incanto:

I tuoi piedi scattanti,

o principessa,

così belli nei sandali,

le curve dei tuoi fianchi preziosi,

gioielli lavorati da un artista.

Il tuo ombelico,

diafana coppa lunare

sempre colma di vino inebriante,

e il tuo ventre di grano maturo,

circondato dai gigli.

I tuoi seni sono due cerbiatti,

due gemelli di gazzella (7,2-4).

La descrizione è vivida, davanti agli occhi di chi legge si materializza leggera la figura di lei che si muove al ritmo della musica, e si rimane incantati, come il suo amato, alla vista di quei piedi agili ed eleganti, delle linee morbide dei fianchi perfetti che si muovono inquietanti, dell’ombelico con la sua offerta di vita, portatore di promesse come coppa ricolma di vino inebriante.

E poi c’è il fascino di quel ventre abbronzato che si contrae e si distende nel movimento della danza e sembra un cumulo di grano dal colore caldo dell’oro o un campo di grano maturo che il vento dolcemente fa ondeggiare. E infine i due seni, irresistibili, come cerbiatti che giocano muovendosi felici, quei seni che poi, nei versetti seguenti, diventano per lui come i frutti della palma che egli desidera cogliere facendosi inebriare dal profumo del respiro fragrante di lei e dal vino dolcissimo delle sue labbra:

Quanto sei bella, e quanto amabile,

amore mio, luogo di delizie.

Il tuo corpo slanciato

assomiglia ad una palma,

e i tuoi seni sono i grappoli.

Mi son detto: sulla palma voglio salire

e stendere le mani a cogliere i suoi frutti.

Mi siano i tuoi seni qual grappoli di vite,

di mele è profumato il tuo respiro.

Il tuo palato nasconde un vino generoso

che scende dolcemente,

lieve scorrendo sulle labbra assopite (7,7-10).

La natura, i paesaggi, gli odori e i colori, tutto viene messo al servizio del dialogo tra i due innamorati, tutto serve a dirsi reciprocamente l’amore, mentre le parole disegnano le forme incantevoli dei loro corpi. Come canta il poeta messicano Octavio Paz citato da un esegeta nel suo commento al Cantico: «Voy por tu cuerpo como por el mundo» (G. Barbiero, Cantico dei Cantici, Paoline, Milano 2004, p. 158).

Così, il mondo che li circonda serve ai due innamorati del Cantico a dirsi l’amore; vedono l’altro, e in lui vedono colline, prati, vigne, pascoli profumati, cuccioli che giocano, gioielli preziosi. Ma è vero anche il contrario: vedono paesaggi, alberi maestosi, cerbiatti e caprette saltellanti e pensano all’altro, perché tutto richiama alla mente l’oggetto del loro amore. Così è anche nel rapporto con Dio; innamorati di Lui, tutto ci dovrebbe parlare di Lui, tutto e tutti: dalla grandiosità della natura fino al nostro fratello più piccolo, in cui riconoscere la presenza del Signore, facendo memoria delle parole del Vangelo: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40; cf anche 1Gv 4,20).

L’amore trasfigura e il mondo allora si trasforma, diventa giardino incantato, che richiama l’Eden dell’origine, quel paradiso perduto che l’amore fa ritrovare e in cui ora una nuova donna e un nuovo uomo abitano, recuperando una vita che sembrava smarrita e che ritrovano, rinnovata, nel dono di sé senza riserve. Amare Dio è così, trasforma il mondo in paradiso, perché stare con Lui è il vero paradiso.

  1. L’amore è dono reciproco

Perché l’amore non è solo contemplazione e godimento; l’amore è oblativo, fa uscire di sé per donarsi. Ecco un’altra dimensione importante dell’amore che il Cantico ci insegna: “l’amore è dono reciproco”. L’amore fa desiderare di darsi all’altro, di offrirgli tutto il proprio essere e la propria vita, di farlo sentire unico, di renderlo felice e allora anche di colmarlo di doni, ma per manifestare attraverso di essi il dono di se stessi.

Anche noi, come i due innamorati del Cantico, siamo chiamati a rispondere così all’invito del Signore, a dire il nostro sì e donarci con la stessa passione, lo stesso entusiasmo, rispondendo con gioia al dono della vocazione, per camminare dietro all’amato, nella sequela di Gesù.

Ancora una volta, ci viene in aiuto l’innamorata del Cantico, col suo canto d’amore per lui:

Vieni, amato mio,

andiamo per i campi,

dormiremo tra i cipri profumati.

All’alba, ce ne andremo tra le vigne

a vedere se le viti hanno gemmato,

se si schiudono i boccioli,

se è fiorito il melograno.

Là, amor mio,

ti donerò il mio amore.

Le mandragore diffondono il profumo,

alla nostra porta ci son frutti deliziosi.

Novelli e vecchi, amore mio,

per te li ho conservati (7,12-14).

In questo scenario campestre, ancora ricolmo di allusioni visive e olfattive, di profumi e di colori, lei si offre all’amato con grande dolcezza e tenerezza. Ha in serbo per lui i frutti deliziosi del suo amore, frutti nuovi e antichi, come sono antichi e sempre nuovi i gesti dell’amore. Amore che nell’unione sponsale diventa dono e anche possesso reciproco; in una sintesi magnifica di cosa voglia dire amarsi, lei dichiara:

È mio l’amato mio,

ed io son sua,

del mio amore,

che pascola tra i gigli (2,16).

E poi:

Io sono del mio amato

ed egli è mio,

lui, che pascola tra i gigli (6,3).

E ancora, ripetendo con nuove parole la formula della reciprocità:

Al mio amato io appartengo

e per me è la sua passione (7,11).

Sono parole forti che dicono l’esperienza dell’unione, di un’appartenenza

vicendevole che nulla più ormai potrà separare; un’unione a cui tutti siamo chiamati e a cui aspiriamo nei confronti di Dio: rimanere in Lui e nel suo amore, secondo un’espressione cara al Vangelo di Giovanni, e lasciare che Egli dimori in noi, per appartenere a Lui solo (cf Gv 14,16.23; 15,4-10; 17,20-23).

E a questa appartenenza reciproca si accompagna nel Cantico il gesto della tenerezza che rende concreta e visibile l’intimità e la dolcezza dell’unione:

La sua sinistra è sotto il mio capo

e con la destra egli mi abbraccia (2,6; cf 8,3).

Per un cuore innamorato, tutto, dell’altro, è fascino, attrattiva irresistibile. Languente d’amore, lui dice a lei:

Tu mi hai rubato il cuore,

sorella mia, mia sposa,

mi hai rubato il cuore

con uno dei tuoi sguardi,

con una perla della tua collana (4,9).

E poi, con un’immagine piena di poesia:

Come il Carmelo è il tuo capo,

e di porpora le chiome:

un re è rimasto preso tra i tuoi riccioli (7,6).

Ma se l’attrazione e il desiderio che viene dall’amore tendono all’incontro e all’unione, questo avviene nell’accoglienza e nel rispetto. Quando l’innamorato del Cantico corre dalla sua amata, giunto alla casa di lei si ferma. È lei a descriverlo così:

È come una gazzella

l’amor mio,

somiglia ad un cerbiatto.

Eccolo, si ferma,

è dietro il nostro muro,

guarda attraverso la finestra,

occhieggia attraverso le inferriate (2,9).

Lui è descritto come un cerbiatto immobile, attento, che fiuta l’aria in stato d’allarme, in cerca di pericoli. Ma non è la paura a fermare in questo caso l’innamorato e il suo fremito non è generato dal timore, ma è quello impaziente dell’attesa e del desiderio. Egli si ferma per prendere tempo, per gustare la gioia dell’incontro imminente, per assaporare la bellezza di quanto sta accadendo.

Ed è anche un modo per vivere l’incontro come dono: lo sposo non entra prepotentemente nella casa di lei, il suo desiderio non sfocia in un atto di possesso o di violenza, egli si ferma alla porta, contempla l’amata attraverso la finestra, ammirandone la bellezza. Così si vive l’amore, anche con Dio: incontrarsi con Lui vuol dire accogliere un dono, sempre inaspettato, sempre immeritato, in un atteggiamento di assoluto rispetto e di gratitudine senza confini.

  1. Dio è amore

Abbiamo ascoltato le parole dei due innamorati. Ma, come abbiamo detto, esse celano un mistero più grande, quello dell’amore di Dio. È il nostro punto finale: “Dio è amore” e l’amore di un uomo e di una donna è un riverbero di questo amore divino, ne è segno e manifestazione, luogo privilegiato in cui l’amore di Dio si fa presente, si rivela, si lascia sperimentare.

L’amore divino va atteso, desiderato, ricercato. Come lo sposo del Cantico, ogni credente anela all’incontro con il Signore e chiede di poterlo vedere, contemplare, ascoltare. Le parole di invocazione che l’innamorato rivolge alla sua amata ci possono aiutare a vivere questo desiderio:

Colomba mia, che ti nascondi

nelle fessure anguste delle rocce

e nelle spaccature aspre dei dirupi,

lasciati vedere, mostrami il tuo volto,

fammi udire lieve la tua voce,

perché soave è la voce tua,

e così bello il tuo volto da ammirare (2,14).

E come la sposa del Cantico, il credente deve andare alla ricerca di Dio, anche se intorno c’è il buio, anche nella notte dolorosa di un’attesa che sembra interminabile:

A notte, insonne, nel mio letto

cercavo l’amore della vita mia.

Lo cercavo e non riuscivo a trovarlo (3,1).

Sono le parole dell’innamorata, che allora decide di alzarsi, di andare per le strade della città alla ricerca dell’amato, con la domanda accorata: «Avete visto l’amore della vita mia?» (3,3; cf anche 5,2-8). Una ricerca nella notte che sembra anticipare, in un gioco di allusioni, la ricerca nel buio, appena rischiarato dall’alba, di un’altra donna in un altro giardino, nel giorno dopo il sabato, il primo giorno della settimana. Con lo stesso affanno, con la stessa urgenza, Maria di Magdala cerca il suo Signore: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto»; e chiede angosciata a chi crede essere il custode del giardino: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (cf Gv 20,11-17).

Ma quando cerchiamo Dio, in realtà è perché Lui ci sta cercando. E a noi resta la meraviglia, l’ammirazione stupefatta di chi è davanti all’inimmaginabile: l’amore di un Dio che ci cerca, ci vuole, ci chiama, e attende paziente la nostra risposta. Un amore che è vita, che fa vivere e insegna a dare la vita, l’unico modo per vivere in pienezza, capaci allora di andare anche al di là della morte. Perché, come dice il Cantico:

Forte è l’amore come la morte,

tenace la passione come l’abisso eterno.

Son di fuoco le sue vampe,

e divina è la sua fiamma.

L’oceano dalle grandi acque

non può spegnere l’amore,

e i fiumi impetuosi non sanno travolgerlo (8,6b-7a).

È questo l’amore, un amore a cui “si può” ed è bello “rispondere”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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