N.02
Marzo/Aprile 2012
Studi /

Rispondere all’Amore con tutto il nostro essere si può

Sono contento di iniziare a Roma, con il Convegno vocazionale, questo anno 2012, anno che la nostra comunità di Taizé concluderà anche a Roma, poiché avremo qui il nostro incontro europeo di giovani alla fine del mese di dicembre. Sono pure contento di poter contribuire con la mia testimonianza alla ricerca che vi riunisce e dire con forza: sì, rispondere all’amore con tutto il nostro essere, si può… E ancor più: rispondere in particolare all’Amore di Dio con tutto il nostro essere, certamente si può.

Ma fin dall’inizio, va detto: la fede in Dio è sempre più spesso messa in discussione, soprattutto nel mondo occidentale. Il semplice pensiero che Dio esista sembra diventare più difficile. Se Dio esiste, perché il male è tanto potente? In un universo di cui conosciamo sempre meglio la complessità e l’infinitezza, come immaginare una onnipresenza di Dio, che si occuperebbe contemporaneamente dell’universo e di ogni essere umano in particolare? E, se Dio esiste, sente le nostre preghiere, vi risponde?

Di questa messa in discussione, come ben sapete, molti credenti, molti giovani, ne fanno la difficile esperienza nei loro posti di lavoro o di studio, talvolta nella loro famiglia. Numerosi sono coloro che non possono credere in un Dio che li ama personalmente. Numerosi anche coloro che, con grande onestà, si pongono questa domanda: come sapere se ho la fede?

Ai giovani che vengono a Taizé alla ricerca della fede, alcuni alla ricerca di una vocazione, mi capita spesso di dire: la fede si presenta oggi come un rischio, il rischio della fiducia. Per correre questo rischio, abbiamo bisogno di coinvolgere tutto il nostro essere, tutte le nostre capacità umane, tanto quelle del cuore quanto quelle della ragione. Osare credere! Osare rispondere all’amore di Dio!

Per molti giovani, probabilmente anche nelle altre religioni, il contenuto della fede si è avviluppato in una fitta nebbia. A ciò si aggiungono alcuni tenaci malintesi. Chi è Gesù? Che cosa ci ha detto di Dio? Lo Spirito Santo, la risurrezione, la Chiesa… Queste nozioni, seppur centrali nella fede cristiana, trovano in molti nostri contemporanei solo una comprensione molto superficiale. E quanti bambini crescono senza che qualcuno dica loro che Dio li ama.

Anche i credenti convinti non sempre cercano abbastanza di approfondire la loro fede. Non è raro che si crei un divario tra le conoscenze nel campo della fede e quelle acquisite in altri ambiti. Una fede che rimane alle espressioni apprese durante l’infanzia, con difficoltà sa affrontare gli interrogativi dell’età adulta. A Taizé vorremmo fare di tutto affinché i giovani scoprano che c’è gioia nell’approfondire la comprensione del mistero della fede ad ogni tappa della vita.

 

  1. La fede è relazione

Per correre il rischio della fiducia, è veramente fondamentale la ricerca di una comunione personale con Dio. Come entrarvi di più? Come nutrirvi la propria speranza? È la prima domanda che vorrei affrontare oggi con voi.

Se molti giovani potessero cogliere meglio questo: la fede non è in primo luogo l’adesione a delle verità, ma è una relazione personale con Dio. Più volte papa Benedetto XVI l’ha sottolineato, per esempio quando ha scritto nella sua prima enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto XVI, Deus caritas est, Introduzione, n. 1).

Ma come parlare di Cristo oggi? Non basta più semplicemente ripetere nelle nostre catechesi le parole di sempre. Come aiutare i giovani a scoprire una relazione personale con lui? Dio, come il sole, è troppo abbagliante perché noi lo possiamo guardare. È Gesù che lascia trasparire la luce di Dio. Tutta la Bibbia ci porta verso questa fiducia: il Dio assolutamente trascendente entra nella nostra realtà umana e ci parla in un linguaggio accessibile.

Qual è la specificità della fede cristiana? La persona di Gesù ed una relazione d’amore con lui. Non avremo mai finito di comprenderlo. Un’educazione alla fede comincia sempre dal mettere in valore questa relazione personale.

 

Credere a Cristo non significa possedere la verità, ma lasciarsi afferrare da lui, che è la verità, e camminare verso la sua rivelazione in pienezza.

Ciò che è e che resterà la grande novità sorprendente è che Gesù ha trasmesso la luce di Dio attraverso una vita semplicissima. La vita divina lo rendeva ancora più umano. Esprimendosi pienamente nella semplicità di una vita umana, Dio rinnova la sua fiducia nell’umanità, ci permette di credere nell’uomo. Da allora non possiamo più disperarci, né del mondo né di noi stessi. Da allora possiamo dire: rispondere all’amore di Dio con tutto il nostro essere, si può.

Sulla croce, sino alla fine Gesù ha amato e, nonostante il carattere assurdo ed incomprensibile della sofferenza, ha conservato la fiducia che Dio è più grande del male e che la morte non avrà l’ultima parola. Paradossalmente la sua sofferenza sulla croce è diventata il segno del suo infinito amore.

E Dio lo ha risuscitato. Cristo non appartiene soltanto al passato, egli è presente per noi ogni giorno. Dona lo Spirito Santo che ci fa vivere della vita di Dio.

È allora molto importante far capire ai giovani che ci sono affidati che il centro della nostra fede è il Risorto, presente in mezzo a noi, che ha un personale legame d’amore con ciascuno.

E qualche volta Cristo è anche per noi il povero che aspetta di essere amato e che ci dice: «Sto alla porta e busso» (Ap 3,20).

La vocazione della Chiesa è di radunare nella pace di Cristo donne, uomini e bambini di ogni lingua, di ogni popolo, in tutto il mondo, che cercano la stessa relazione personale con Dio. La Chiesa rende presente, come diceva frère Roger, il “Cristo di comunione”.

Attraverso l’Eucaristia accogliamo nella nostra vita il Cristo che è arrivato fino all’amore estremo donando se stesso. E questo dono di sé porta frutto nella vita dei suoi discepoli: «Io sono la vite, voi i tralci… In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto» (Gv 15,5.8). Questi frutti sono la nostra risposta all’amore di Dio.

 

  1. Una risposta totalizzante

Nel Vangelo ascoltiamo la chiamata di Gesù: «Seguimi!». E arriviamo allora ad una seconda domanda. Essa ci è sovente posta a Taizé e anche voi la conoscete bene: rispondere all’amore con tutto il nostro essere, certamente si può, ma è possibile rispondere con un impegno che duri tutta la vita? Come discernere se ne sono capace?

In ciascuno c’è il desiderio di un avvenire felice. Ma un giovane può avere l’impressione di essere condizionato così tanto dai limiti che talvolta lo scoraggiamento lo minaccia.

Tuttavia Dio è presente. Dà a ciascuno di assumere le situazioni della propria vita per come sono, per creare partendo da ciò che esiste. Nessuno vorrebbe impantanarsi nei sogni di un’esistenza idealizzata. Accettiamo ciò che noi siamo ed anche ciò che noi non siamo. Ecco un primo passo per rispondere alla domanda del discernimento di un impegno per tutta la vita.

Poi, cercare un avvenire felice comporta delle scelte.

Alcuni assumono opzioni coraggiose per seguire Cristo nella loro vita famigliare, nella società, in un impegno per gli altri. Vi sono alcuni che si domandano: come seguire Cristo scegliendo il cammino del celibato? Ogni vita alla sequela di Cristo è la risposta ad una vocazione. Come dicono bene gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per questo decennio: «L’accoglienza del dono dello Spirito porta ad abbracciare tutta la vita come vocazione».

A colui o a colei che cerca di discernere se è possibile rispondere all’amore di Dio facendo una scelta per sempre sia per il celibato sia per l’amore di un’altra persona, io direi: di fronte ad un tale impegno, ci può essere in te un’esitazione. Ma, andando più in profondità, troverai la gioia per donarti completamente. Felice chi non si abbandona alla paura, ma alla presenza dello Spirito Santo.

Forse fai fatica nel credere che Dio ti chiama personalmente e che aspetta da parte tua di essere amato. Sappi che la tua vita è importante ai suoi occhi. Chiamandoti, Dio non stabilisce ciò che tu dovrai compiere. Il suo appello è soprattutto un incontro. Lasciati accogliere dal Cristo e scoprirai il cammino da intraprendere.

Dio ti invita alla libertà. Non fa di te un essere passivo. Attraverso il suo Spirito Santo, Dio abita in te, ma non si sostituisce a te. Al contrario, risveglia energie insospettate.

Giovane, puoi avere paura ed essere tentato di non scegliere, per custodire tutte le possibilità aperte. Ma come potrai trovare una realizzazione restando fermo al bivio?

Accetta che ci sia in te un’attesa incompiuta e anche delle domande irrisolte. Confidati nella trasparenza del cuore. Ci sono nella Chiesa delle persone per ascoltarti. Un accompagnamento che dura nel tempo permetterà un discernimento per donarti completamente.

Sì, che ogni giovane possa comprendere che fare una scelta, assumere un impegno è per nulla in contraddizione con la libertà. E cito ancora questa frase fondamentale degli Orientamenti pastorali: «Nell’educazione, la libertà è il presupposto indispensabile per la crescita della persona».

 

  1. La forza di una vita semplice

Vorrei ora continuare a parlarvi della vocazione a seguire Cristo condividendo semplicemente con voi ciò che noi viviamo nella nostra comunità ed esprimendomi davanti a voi come mi è capitato di parlare ai miei fratelli della nostra vita comune. Provo così a farvi conoscere quale formazione umana e spirituale cerchiamo di acquisire lungo tutta la nostra vita.

Dapprima, però, voglio dirvi che sono un po’ impressionato nel rivolgermi a donne e uomini di cui alcuni rappresentano tradizioni molto più antiche di quella della nostra piccola comunità. Frère Roger diceva: «La comunità di Taizé non è che un semplice germoglio innestato sul grande albero della vita monastica, senza il quale non potrebbe vivere».

Dopo la morte di frère Roger – penso che sappiate tutti che è stato ucciso una sera durante la preghiera comune nella nostra chiesa della riconciliazione –, fratel Marcellin, priore della Grande Chartreuse, ci ha aiutato molto scrivendoci queste parole: «Le circostanze drammatiche della morte di frère Roger non sono altro che un rivestimento esteriore che mette ancora più in luce la vulnerabilità che egli coltivava come una porta attraverso la quale, in modo preferenziale, Dio può entrare in noi».

La vulnerabilità come una porta per la quale Dio entra in noi: queste parole ci hanno colpito così tanto che, un anno dopo, ho sentito il bisogno di andare a visitare fratel Marcellin.

Nella Grande Chartreuse ho visto monaci che sono come i Padri del deserto e che vivono senza pretese. Quando ho detto al priore che erano un segno dell’assoluto mi ha risposto: «La nostra vita è molto semplice, a volte persino banale». Poi ha aggiunto: «È vero, noi miriamo all’assoluto, ma dobbiamo soprattutto imparare a vivere con la nostra umanità, e credere, anche se non vediamo nulla, che Dio compie qualcosa nella nostra vita».

Per i certosini la spiritualità è semplice. Oggi si cerca così tanto una spiritualità che completi l’esistenza e le dia uno sviluppo personale sensibile. Lì si tratta piuttosto di offrire la propria umanità a Dio e di accettare che Dio faccia il resto.

Noi ci volgiamo a Dio così come siamo, con ciò che è buono, ma anche con i punti oscuri, e persino con gli errori. Nella preghiera diciamo delle parole, ma a volte siamo lì solo con il nostro corpo, nel silenzio.

È questo forse il nocciolo di quello che impariamo dai monaci della Grande Chartreuse: ad accettare una povertà, una mancanza profonda, nella vita e a volte persino nella preghiera.

I certosini non lasciano mai la valle dove abitano. Vedono solo un versante della montagna, non vedono mai l’altro versante. Anche noi dobbiamo accettare di non vedere tutta la realtà. Non vediamo l’altro versante della nostra esistenza e della nostra preghiera. Osiamo allora offrire a Dio ciò che noi siamo. Accettiamo di non vedere tutti i versanti della vita, altrimenti occuperemmo il posto di Dio.

  1. I consigli evangelici, oggi

Questa visione della vita religiosa permette di capire che i tre grandi impegni che tutti noi prendiamo sono una cosa sola. E vorrei ora dire una parola su questo. La comunità dei beni, il celibato, il riferimento a un ministero di comunione sono una forma di povertà che abbiamo scelto liberamente, noi fratelli di Taizé come molti di voi. Ciò va contro corrente oggi. Gli impegni implicano una rinuncia, una conversione, non possono essere vissuti senza volgersi costantemente a Cristo, con le ferite che ci hanno segnato, ma anche con i doni che abbiamo ricevuto.

Pronunciare questi impegni fa di noi un segno concreto, visibile, di qualcosa che ci trascende, il segno di Cristo presente nel mondo. Vivendoli, cerchiamo di rendere accessibile Cristo.

Tuttavia, a Taizé, facciamo una constatazione che certamente anche molti di voi fanno: i giovani sono sensibili a questo segno, anche se non lo esprimono. Vedono spesso in noi uomini e donne che hanno trovato una certa pienezza. Spesso non vedono la lotta che c’è dietro, le debolezze, ma quello che percepiscono è giusto. Tocca a noi cercare di corrispondervi con tutta la nostra energia per non deludere i giovani.

Certo, i giovani che ci sono affidati non sono tutti chiamati alla stessa forma di vita, alcuni faranno la scelta del matrimonio, di una vita famigliare, di un impegno sociale o politico, ma devono trovare in noi gli elementi essenziali che possono orientare la loro esistenza al seguito di Cristo.

  1. Vivere l’attesa

Certi giovani che s’interrogano su una vocazione si domandano: che cosa aiuterà a perseverare di fronte alle difficoltà che sorgono nella vita?

È a questa domanda che vengo ora. Per rimanere in un sì di tutta la vita, bisogna osare vivere un’attesa. Quando pronunciamo gli impegni, quest’attesa non è orientata solo verso il futuro, ma anche verticalmente verso Dio, nel momento presente: osare credere che c’è una gioia dell’attesa. E quest’attesa spesso si vive stando in silenzio alla presenza di Dio.

A Taizé, diamo molto posto al silenzio. E capita, alla fine del loro soggiorno sulla collina, che dei giovani ci dicano: «La cosa più importante è stato il silenzio». Il silenzio nella preghiera comune permette di essere da solo davanti a Dio, anche in una grande assemblea. Un tale spazio prepara all’adorazione.

Lo spirito di adorazione non è facile per dei giovani che sono nati in un mondo dove l’efficacia immediata conta moltissimo, dove il solo pensiero delle lunghe maturazioni suscita impazienza. Nei lunghi silenzi dove apparentemente non succede nulla, Dio è all’opera in noi, senza che noi sappiamo come.

Il silenzio non è forse innanzitutto il luogo e l’espressione della nostra attesa di Dio? Una profonda attesa abita l’essere umano: il desiderio di assoluto, verso il quale ognuno tende con tutto il suo essere, corpo, anima, intelligenza; la sete d’amore che arde in ciascuno e che anche la più profonda intimità umana non può interamente placare.

Questa attesa, la sentiamo spesso come una mancanza o un vuoto difficile da assumere. Ma, lungi dall’essere un’anomalia, essa fa parte della nostra persona. È un dono, ci conduce ad aprire noi stessi, orienta tutta la nostra persona verso Dio.

Sant’Agostino scrive: «Tutta la vita del cristiano è un santo desiderio. Dio, facendo attendere, estende il desiderio; facendo desiderare, estende l’anima; estendendo l’anima, la rende capace di ricevere… Se desideri vedere Dio, hai già la fede».

La sete che ci abita non è forse un marchio impresso da Dio in noi affinché ci volgiamo verso di lui? Il progresso economico e il benessere materiale, per quanto indispensabili siano, non possono placare la nostra sete più profonda. Questa sete apre il nostro cuore alla voce dello Spirito Santo che giorno e notte mormora in noi: «Sei amato da sempre e per sempre, e nemmeno le prove, talvolta durissime, della tua vita, possono cancellare questo amore».

Che si sia giovane o adulto, saper aspettare… Esserci, semplicemente, gratuitamente. Metterci in ginocchio per riconoscere, anche con il corpo, che Dio non agisce per forza come noi immaginiamo.

Aprire le mani, in segno d’accoglienza. Anche se non riusciamo sempre ad esprimere il nostro desiderio interiore a parole, fare silenzio è già l’espressione di un’apertura a Dio.

La vergine Maria ci offre l’immagine di un’attesa silenziosa, ma ardente, di Dio. Da sempre, ella era amata da Dio e preparata per ciò che le avrebbe chiesto. E tuttavia nessuno dei suoi vicini che le erano accanto nel quotidiano poteva intuire il mistero che Maria di Nazaret portava dentro di sé. I più grandi misteri non si realizzano forse in un profondo silenzio? Per entrare in questa silenziosa attesa di Dio, vivere dei giorni di ritiro è un grande sostegno, ascoltare Cristo che ci dice: «Venite in un luogo deserto e riposatevi un po’» (Mc 6,31). È come se ci dicesse: sì, rallegratevi di ciò che potete vivere nel vostro ministero, ma rallegratevi di una gioia ancora più grande, «rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20).

  1. Il coraggio della vigilanza

Ci possono essere momenti in cui gli impegni diventano pesanti. Mi domando se non è proprio quando non ci sforziamo più di viverli pienamente che diventano un fardello.

Cosa vuol dire vivere pienamente gli impegni? Non si tratta di cercare un perfezionismo che sarebbe contrario al Vangelo, ma è piuttosto un invito ad essere vigilanti. È la parola di Cristo: vegliate!

Questa vigilanza è necessaria poiché in noi ci sono tendenze che ci spingono verso il basso e che vogliono allontanarci dal cammino. C’è in noi una tendenza a voler bastare a noi stessi, a voler garantire la nostra propria sicurezza materiale, a delimitare un campo all’interno del quale vogliamo decidere da soli. Noi viviamo tutti con un’affettività ferita e occorre vigilanza per cercare sempre di nuovo un equilibrio, diventando l’affettività apertura.

Ci abita una lotta interiore che non deve portarci né alla tristezza né alla paura. La piccola Bernadette di Lourdes, che aveva così poco il dono della parola, ma che viveva con tutta la sua anima ciò che aveva compreso del Vangelo, diceva: «Nella lotta interiore i primi movimenti non ci appartengono». È vero: in noi tutti ci sono dapprima dei movimenti di pensieri e di sentimenti che vanno in tutti i sensi, ma ella continuava: «Il secondo movimento ci appartiene». È un po’ come uno dei due figli della parabola del Vangelo: prima dice di no a suo Padre e poi ci va lo stesso. Sì, il secondo movimento ci appartiene.

Noi non perseveriamo negli impegni per presentarci bene davanti a Dio. No, noi entriamo nel Regno come degli zoppi. Però, da un lato gli impegni sono una fonte della gioia del Vangelo, perché, per viverli, siamo ricondotti costantemente alla comunione con Cristo. Dall’altro lato, ci fanno partecipare alla lotta di Cristo per il mondo. Noi non possiamo astrarci da questo, Cristo ci dice come ha detto ai suoi discepoli: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc 22,28).

  1. Il celibato: un’amore “trasfigurato”

Tutto ciò è vero in particolare per l’impegno del celibato, e mi ci soffermo ora un momento. Questo impegno ha bisogno di attenzione interiore affinché il nostro “sì” possa crescere al ritmo della nostra esistenza. Per rinnovarlo, non si tratta di fissarci sulle difficoltà, le impossibilità, si tratta piuttosto di ritrovare sempre la sorgente del Vangelo. Vorrei sottolineare quattro punti che ci potrebbero aiutare nella riflessione.

Innanzitutto non possiamo parlare del celibato senza parlare della lode. Cantare per esempio il Salmo 91: «Chi abita al riparo dell’Altissimo può confidare in lui», e il nostro sì a Dio già si rinnova. Non rimane una teoria, ma vive in noi. Lodare Dio per la vita che ci ha donato, per il nostro essere. Ogni riflessione sul celibato dovrebbe cominciare con una lode del creato e di ciò che noi siamo.

Osiamo anche una lode povera, balbuziente, perché, in questa lode, noi anticipiamo già un compimento. Questa lode deve scaturire dal nostro essere e talvolta anche dalla nostra miseria. In essa non si tratta di voler presentare a Dio qualcosa di perfetto, ma di presentargli il nostro essere. E noi siamo della terra. Nella lode c’è sempre qualcosa della terra e qualcosa del cielo che si uniscono.

Questo ci porta al secondo punto: accettare la complessità del nostro essere, accettare ciò che siamo. La sessualità è una realtà allo stesso tempo bella e fragile. Riguarda la parte più intima del nostro essere. Naturalmente ci sono ferite, sensi di colpa. Ma sappiamo pure che la sessualità è anche una forza per amare, per ammirare. Un religioso diceva che bisognava prima rendere giustizia alla complessità umana e poi passare al piano spirituale. Ciò mi sembra giusto: fare posto alla complessità umana, vedere che le risposte del Vangelo non spingono ad una evasione del nostro essere di carne e di sangue, ma vogliono prendere il nostro essere per avvicinarlo a Dio. Cristo assume questa complessità umana. Vuole sposare l’essere che sono.

La nostra “Regola di Taizé” parla di trasformazione del nostro amore naturale, di superamento, di trasfigurazione. Affinché ci sia trasfigurazione, occorre quindi che ci sia qualcosa da trasfigurare! È questo il Vangelo: la terra e il cielo si uniscono. Nella nostra fedeltà al celibato, e ciò vale anche per la fedeltà nel matrimonio, ci ritroviamo in quella situazione di tensione e di bellezza costituita, come nel Vangelo, dall’unirsi della terra e del cielo.

Allora anche le fragilità e le imperfezioni diventano, come dice il priore della Grande Chartreuse, «una porta attraverso la quale Dio entra nella nostra vita». I rovi che ostacolano la nostra strada alimentano un fuoco che illumina il cammino. Quando, nella preghiera, guardiamo verso la sua luce, essa ci diventa poco a poco interiore. Il mistero di Cristo diventa il mistero della nostra vita. Le nostre contraddizioni interiori, le nostre paure, forse permangono. Tuttavia, per mezzo dello Spirito Santo, Cristo penetrerà ciò che ci inquieta di noi stessi, a tal punto che le oscurità sono rischiarate. La nostra umanità non è abolita, Dio l’assume e può darle un compimento. Ed eccoci liberi di avanzare fino al dono di noi stessi per coloro che Dio ci ha affidati.

Terzo punto: coloro che vivono la vita sacerdotale o la vita religiosa non sono soli, sono con altri sulla via del celibato. Se è preferibile che nella vita quotidiana ci sia discrezione nelle parole che riguardano questo impegno, noi non lo viviamo però nell’isolamento. C’è l’accompagnamento personale, c’è la confessione. È così importante per ognuno di noi essere ascoltato: colui o colei che ci ascolta può aiutarci a non sbagliare lotta e a rinnovare la fiducia nel fatto che Dio ci ama e che noi lo amiamo. Sappiamo quanto una vita fraterna ci aiuti a perseverare. Certo, in ogni vita comune ci sono delle tensioni, dei temperamenti differenti, non è possibile armonizzare tutto, ma noi possiamo volgerci insieme verso Dio e sapere che abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Il quarto punto: vegliamo a non trascurare in noi la sensibilità per la bellezza. È essenziale prestarle attenzione, meglio ancora coltivare questa sensibilità. La parola «coltivare» è un po’ troppo preziosa, ma, per ciascuna e ciascuno, si tratta comunque di scegliere ciò che ci corrisponde meglio e rispondere a questa domanda: che cosa mi aiuta a rimanere attento alla bellezza? C’è la natura, la musica, un libro. Senza momenti di gratuità, di bellezza, s’installa uno squilibrio che non aiuta ad avanzare. La sensibilità alla bellezza fa veramente parte della vocazione a seguire Cristo.

  1. L’accoglienza si fa ascolto

Nella grande diversità delle nostre vocazioni, mi rimane ora di sottolineare l’importanza dell’ascolto degli altri. A Taizé, frère Roger ci ha spesso ricordato che non siamo maestri spirituali che hanno raggiunto la meta, ma uomini d’ascolto. Sì, Dio ci invita tutti ad essere uomini e donne di ascolto, sia che conduciamo una vita pastorale sia che ci venga chiesto un altro lavoro. Dobbiamo dare la priorità all’ascolto di quanti ci vengono affidati, siano essi numerosi o pochi.

Nella pastorale, prendere il tempo per ascoltare coloro che desiderano esprimere qualcosa della loro vita, dei loro interrogativi, è oggi una delle realtà più essenziali. Ed ecco che scopriamo che l’ascolto degli altri nutre la nostra vita interiore.

Quando papa Giovanni Paolo II nel 1986 è venuto a far visita a Taizé, ha avuto parole che non finiamo di meditare. Egli ha sottolineato quanto l’accoglienza arricchisca quelli che esercitano l’ospitalità. Ci ha detto: «Senza che l’abbiate cercato, avete visto venire a voi, a migliaia, dei giovani da tutte le parti, attirati dalla vostra preghiera e la vostra vita comunitaria. Come non pensare che questi giovani sono il regalo e il mezzo che il Signore vi dà per stimolarvi a restare insieme, nella gioia e nella freschezza del vostro dono, come una primavera per tutti quelli che cercano la vera vita?».

Queste parole del Papa sono di una grande profondità. È vero: spesso noi siamo sostenuti e spinti avanti da coloro che si affidano al nostro ministero.

Certamente, lo sappiamo tutti, qualsiasi sia la specificità della nostra vocazione, noi camminiamo alla sequela di Gesù come dei poveri del Vangelo. Non abbiamo la pretesa di essere migliori di altri. Ma ciò che ci caratterizza è la scelta di appartenere a Cristo. Facendo questa scelta, noi cerchiamo di essere totalmente conseguenti e camminare nella fede con tutto il popolo di Dio.

  1. La scelta della santità

Termino con un’ultima parola. So quanto il superamento di sé e la santità vengano vissuti, spesso silenziosamente, da molti cristiani, siano essi laici, religiosi, religiose o sacerdoti. Ma ciascuno e ciascuna di noi proviamo anche la tentazione di fermarci, di sistemarci, di restare a metà strada.

Frère Roger ricordava allora che c’è una scelta da fare e rifare tra la mediocrità e la santità. C’è gioia nell’ascoltare l’assoluto della chiamata di Cristo: «Siate santi!». Forse non è perché è lontana da noi che abbiamo tanta difficoltà a raggiungere la santità, ma perché è molto più vicina di quanto pensiamo. Dio la pone dinanzi a noi in ogni momento affinché la scegliamo.

Allora quale “superamento” mi viene chiesto ora? Non si tratta necessariamente di “fare di più”, ma piuttosto di avanzare senza attendere sulla strada dell’amore, con degli atti. E in un’attenzione piena di delicatezza per il nostro prossimo, noi possiamo procedere senza attendere un solo minuto.

Noi non seguiamo un ideale, seguiamo una persona, Cristo. E il nostro impegno ha origine nel perdono e nella riconciliazione che Dio ci offre. Attraverso la vita di Cristo, vediamo che Dio non si stanca mai di riprendere il cammino con noi. Neanche noi possiamo stancarci di dover sempre ricominciare, affinché, in ciascuna delle nostre vite, la terra e il cielo si uniscano.

Lungo tutto il cammino della vocazione, che sia laica, religiosa o sacerdotale, ci sono e ci saranno delle prove. Sul momento, sembreranno forse sommergerci. Che fare allora? La nostra risposta alle prove personali, e a quelle che altri sopportano, non è forse quella di amare sempre di più?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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