N.03
Maggio/Giugno 2012
Studi /

Fidanzamento: vivere il tempo della attesa

Il fidanzamento oggi non è più di moda: con la crisi del matrimonio, anch’esso è andato in crisi. Lo si è così sostituito con un tempo di convivenza, dove si fa esperienza del vivere insieme, che – eventualmente – si concluderà con le nozze, spesso celebrate in chiesa solamente per compiacere i nonni o i genitori o per collocare le foto del matrimonio in uno scenario architettonico elegante. In questo panorama sociale un po’ mesto, che riflette un modo disilluso e sfiduciato di pensare all’amore tra uomo e donna, ci sono però ancora giovani coppie che osano credere a valori importanti, quali la fedeltà, la comunione, la fecondità e desiderano consacrare il loro amore attraverso il sacramento. In questa ottica, allora, il fidanzamento appare come il tempo della preparazione e dell’attesa.

 

  1. L’attesa

Attendere è un’azione che compiamo ogni giorno: aspettiamo una persona prima del suo ritorno a casa, il messaggio di un amico, di raggiungere la cassa mentre facciamo la coda al supermercato. Anche se si tratta di un’azione comune e usuale, essa non è necessariamente vissuta con animo tranquillo e sereno. Basta osservare le reazioni delle persone mentre attendono di comprare il biglietto del treno o aspettano che si metta in moto un’automobile bloccata al semaforo, per rendersene conto. Tutto ciò è tanto più vero quando l’attesa non è di pochi istanti, ma comporta tempi più lunghi, richiede l’impegno di mesi o di anni.

 

Quali sono i motivi per cui facciamo così fatica ad attendere? Come mai ci è talmente difficile?

Qualcuno, riferendosi agli esempi appena citati, potrebbe affermare che noi italiani siamo fatti in questo modo, non siamo educati a vivere civilmente e ciò si riflette anche sui nostri comportamenti pubblici: basterebbe imparare dai popoli nordici per diventare anche noi capaci di fare una coda senza cercare di passare davanti al vicino e attendere al semaforo senza strombazzare a chi non mette in moto la macchina immediatamente. Al di là del livello di civiltà e di buona educazione, però, l’attesa è gravosa per tutti. Possiamo imparare a comportarci correttamente mentre facciamo la fila per entrare a teatro, ma tutti – prescindendo dalla provenienza e dalla cultura – peniamo nell’aspettare un referto medico, che potrebbe annunciarci una malattia grave, o le notizie riguardanti una persona cara inspiegabilmente in ritardo. L’attesa mette in gioco parti di noi non sempre facili da gestire; forse per questo preferiamo eliminarla, optando invece per il “tutto e subito” sia nelle esperienze ordinarie della vita quotidiana sia in quelle più impegnative. Questo forse vale anche per i legami affettivi, dove alla programmazione delle tappe importanti del proprio amore si preferisce l’immediatezza della convivenza.

 

Come mai ci è così difficile attendere?

L’attesa, pur essendo un tempo ricco e una fonte di crescita, porta con sé esperienze non sempre facili da gestire, soprattutto in un’epoca fortemente consumistica come la nostra, dove i beni desiderati devono essere anche immediatamente fruiti. Aspettare, invece, implica la frustrazione, vale a dire l’esperienza della mancata soddisfazione del bisogno e, di conseguenza, il vuoto, il non appagamento, la tensione fisica o psichica. L’essere umano, infatti, è portato a gratificare immediatamente i bisogni che lo abitano, per evitare la tensione che accompagna il mancato soddisfacimento. Il bambino, quando ha fame, piange per segnalare alla madre il suo malessere; più tardi diventerà teso e nervoso, finché non vedrà affacciarsi alla porta della scuola materna il volto sorridente di una persona a lui nota, venuta a riportarlo a casa; da adulto starà in ansia ogni sabato sera, nell’attesa del ritorno dei figli dalla discoteca. L’essere umano è frustrato dall’attesa e dalla non immediata gratificazione e vorrebbe eliminare la tensione, per giungere il più in fretta possibile allo stato di soddisfazione, di pienezza.

Anche il primo peccato, il peccato originale, può essere interpretato all’interno delle categorie della frustrazione e dell’attesa: Eva percepisce che il frutto è bello, buono, utile1 e, immediatamente, senza porre alcuna dilazione, lo afferra e lo mangia. Così farà anche Adamo. Entrambi non sanno attendere: nel momento in cui percepiscono una realtà capace di soddisfarli, se ne impadroniscono e la consumano. Fin dagli inizi della creazione, quindi, l’attesa è descritta come faticosa e frustrante. Nello stesso tempo il racconto della Genesi ne mette indirettamente in luce l’importanza fondamentale: se avessero saputo aspettare, interrogandosi e confrontandosi con Dio, i nostri progenitori forse non avrebbero peccato.

Le difficoltà legate all’esperienza dell’attesa non riguardano però unicamente la tensione collegata alla carenza e alla mancata soddisfazione del bisogno. Nella dinamica dell’attesa, infatti, è presente un elemento che riguarda un altro aspetto della persona: la sua identità. Il dover attendere, infatti, rivela all’Io la sua fragilità e il suo essere “relativo” ad altri. Considerato nella prospettiva dell’immagine di sé, costituisce un’esperienza di umiliazione. Quando io aspetto, infatti, riconosco di non essere in grado di procurarmi immediatamente ciò di cui ho bisogno e, nello stesso tempo, ammetto di non essere unico, poiché accanto a me esistono altre persone con i miei stessi diritti, che possono far valere anche prima di me. L’attesa, dunque, è una possibilità offerta all’uomo per riconoscere la sua mancata onnipotenza, per accettare di essere “uno fra i tanti” e di avere bisogno degli altri. Anche da questo punto di vista è significativo il testo della Genesi, dove all’atto del mangiare il frutto senza porre alcuna dilazione ed evitando ogni confronto con Dio, corrisponde il desiderio/tentazione di “essere come dei”2.

 

  1. Il valore dell’attesa

L’attesa è dunque solamente un’esperienza frustrante, dove l’essere umano scopre la fatica vissuta ogni volta in cui un suo bisogno non è gratificato e l’umiliazione di riconoscersi in balìa della volontà altrui, in quanto incapace di procurarsi da solo tutto ciò di cui necessita?

Tale visione puramente negativa è, di fatto, incompleta e soprattutto riduttiva. Si concentra solo sulla dimensione faticosa e frustrante, senza mettere in risalto le acquisizioni importanti di tale fenomeno. L’attesa, infatti, è una sorta di “spazio bianco” dove – attraverso l’esperienza della frustrazione e la presa di coscienza della propria fragilità – l’essere umano acquisisce importanti capacità, indispensabili per la sua crescita e lo sviluppo di serene relazioni.

È attraverso l’attesa, infatti, che si sviluppano i desideri. Il bisogno gratificato lascia spazio al manifestarsi e all’aumentare dello stesso bisogno: il bambino soddisfatto ogni volta in cui chiede di mangiare un panino con la cioccolata rischierà di diventare obeso. La costante accettazione della sua richiesta, infatti, non farà altro che sollecitare in lui la stessa domanda. Quando, invece, ci sentiamo dire dei no possiamo provare a guardarci dentro, dove scopriremo altri desideri, diversi rispetto alla pura aspettativa di gratificare i bisogni fisiologici: mi appassiono al calcio giocato con gli amici solo se qualcuno mi impedisce di passare il pomeriggio davanti alla TV; guardo l’altro come una persona e non come un puro oggetto del mio istinto sessuale se, in passato, qualcuno ha avuto il coraggio di non assecondare tutti i miei capricci. L’attesa non solo ci fa passare dal bisogno al desiderio, ma costruisce anche in noi la fiducia. È solo perché qualcuno mi ha fatto attendere, prima di soddisfare una mia richiesta, che io ora, negli inevitabili momenti di frustrazione, posso credere che – prima o poi – la vita darà una risposta ai miei desideri, le mie fatiche saranno premiate, le frustrazioni superate. La fiducia, infatti, si struttura su una serie di esperienze in cui la presenza si sostituisce all’assenza, la fruizione alla mancanza: bisogna passare per il vuoto e la frustrazione per credere che ci sarà una risposta alle nostre attese.

L’attesa, infine, è anche lo spazio in cui si struttura la forza dell’Io. La stima di sé, infatti, deve essere messa alla prova dalla vita, con i pesi, le mancanze, le frustrazioni che essa necessariamente comporta. È solo passando attraverso le fatiche dell’esistenza che noi ci sentiamo in grado di affrontarla e non soccombiamo a causa delle paure che ci attanagliano. Saper aspettare significa quindi scoprirsi in grado di far fronte alla vita, con le sue frustrazioni e difficoltà, è sentirsi abbastanza forti per rifuggire dalle numerose tentazioni (droga, alcool, gioco…), attraverso le quali molti giovani oggi evitano di affrontare le fatiche di un’esistenza rispetto alla quale si sentono inadeguati e che, quindi, fa loro paura.

Dopo aver preso brevemente in considerazione l’importanza dell’attendere e il suo ruolo nella strutturazione della persona, ci possiamo ora domandare quale sia il compito e l’importanza dell’attesa all’interno di un rapporto di coppia e, più precisamente, in riferimento al periodo del fidanzamento.

 

  1. Fidanzamento: l’attesa del compimento

Anche il fidanzamento, come l’attesa, è uno spazio bianco: un tempo all’interno del quale poter crescere, elaborare delle scelte, scoprire dei desideri, ma che dovrà necessariamente avere un compimento. Così come l’attesa, per non far ricadere la persona nella desolazione e nella frustrazione, deve orientare al raggiungimento di un bene, nello stesso modo il fidanzamento deve necessariamente avere una meta: il matrimonio.

Questa affermazione, per certi aspetti scontata e banale, contiene però alcune verità importanti. Pensare al fidanzamento come a un periodo di attesa che porta ad un compimento significa innanzitutto pensare alla relazione con fiducia. L’attesa costa, è impegnativa e anche frustrante: posso sottopormi a tale fatica solo nella certezza che ciò che otterrò alla fine del percorso è davvero un bene per me, un bene più importante rispetto al negativo che ho dovuto sopportare.

Tutto ciò è possibile solo a coloro che veramente credono al valore del legame tra un uomo e una donna, alla preziosità e bellezza della loro relazione. Il fidanzamento, allora, è il tempo che l’amore riempie dell’aspettativa di una gioia futura: la gioia dello stare insieme, del condividere una vita che già fin d’ora è pregustata come bella, benché non pienamente assaporata. Ci vuole coraggio, oggi, in un mondo in cui le relazioni si costruiscono e si distruggono a una velocità impressionante, per vivere aspettando un compimento.

Questo coraggio è sostenuto dalla speranza e dalla fiducia, da uno sguardo positivo sull’esistenza, dalla capacità di vivere la relazione convinti che il bene reciproco è più solido e tenace rispetto alle forze negative che, sempre, tentano di prevalere sull’amore.

Il fidanzamento come attesa di un compimento è anche un tempo di impegno. Spesso l’anello che il fidanzato dona alla sua ragazza è il simbolo che esprime tale realtà. Donarlo e riceverlo indica che il legame verso cui ci si sta orientando diventa pubblico e comporta la continuità e la fedeltà; esso rivela quindi un modo di concepire l’amore, inteso non solo come sentimento etereo, in cui il cuore orienta ora verso questa ora verso quella persona, ma come impegno nei confronti dell’altro o dell’altra.

La nostra cultura non è più abituata a pensare all’amore in questi termini. Già in passato si affermava che “all’amor non si comanda”, quasi a dire che, per essere pienamente e veramente umani, si deve lasciare libero sfogo ai sentimenti. In realtà non è così, come sanno bene tutte le mamme che, proprio perché amano i loro bambini, sono disposte a “comandare al cuore” ogni volta in cui sarebbe orientato a consigliar loro di rimanere a letto, invece di alzarsi per verificare che cosa capita al loro piccolo mentre strilla nel pieno della notte. Questo vale anche per la relazione di coppia, sia durante il fidanzamento sia nel matrimonio. All’amore si può e si deve comandare, per aiutarlo a superare tutte le sue intrinseche debolezze e contraddizioni. Esso, infatti, è convinto che la persona amata sia unica, ma poi rivolge la sua attenzione anche ad altri; vuole essere dono e offerta di bene, ma spesso è ripiegato su di sé. Ha dunque bisogno di “essere comandato”, per non farsi guidare dal puro sentimento, ma lasciare spazio anche all’impegno della volontà.

La Parola di Dio sembra confermare tale necessità: sia nel Primo come nel Nuovo Testamento troviamo l’espressione “tu amerai”3, vale a dire un invito ad amare espresso al futuro. Tale forma verbale, affermano gli esegeti, sottolinea la necessità di un cammino da percorrere mentre mette in risalto un obbligo, una prescrizione. Il cuore dell’uomo è volubile, è “un guazzabuglio”, ci ricorda il Manzoni. Per questo motivo allo slancio del sentimento e dell’eros si deve accompagnare anche l’impegno della volontà. Le relazioni in cui tutto viene lasciato alla spontaneità e dove si abolisce il ricorso all’impegno, alla scelta fatta non in base all’emozione, ma alla volontà di bene, hanno risultati ed effetti deleteri. Queste modalità relazionali hanno infatti destabilizzato l’unione matrimoniale, insegnando a ricorrere alla separazione e al divorzio in base a un criterio non propriamente umano, vale a dire quel “mi piace/non mi piace” che conoscono anche esseri meno evoluti rispetto all’uomo; nello stesso tempo hanno anche favorito lo sviluppo di relazioni immature, caratterizzate da sfiducia e sospetto, dove l’altro spesso viene relegato nel ruolo di “oggetto” da buttare o di “nemico” da cui difendersi. Quando, come avvenne per Eva davanti al frutto proibito, l’altro viene osservato con lo sguardo di chi vede in lui o in lei un oggetto di cui godere, l’amore si impoverisce e tende a diventare utilitarista e passeggero, volubile.

Per questo motivo è importante il tempo dell’attesa nel fidanzamento come tempo che mette l’amore alla prova, che dà continuità e spessore allo slancio iniziale, impedendogli di ridursi a entusiasmo passeggero e momentaneo. Il dono dell’anello diventa così simbolico dell’impegno, della promessa, in cui si ridona alla parola che i due innamorati si scambiano il valore di “parola data”: quella tipica del linguaggio performativo, che non solo descrive o comunica, ma dà forza e stabilità, in quanto trascende il semplice desiderio per realizzare e operare quanto dice. È una parola che anticipa la definitività del Sì che gli sposi si scambieranno il giorno delle nozze e li prepara a quel gesto, in cui l’amore umano si affaccia sull’orizzonte dell’eternità.

L’attesa del fidanzamento, infatti, non è unicamente attesa del compimento nel giorno delle nozze. Essa si apre su di un orizzonte che supera i confini dell’esistenza umana, poiché l’amore umano, per essere veramente tale, deve pensarsi eterno. Scrive a tale proposito papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus Caritas est:

“Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività – “solo quest’unica persona” – e nel senso del “per sempre”. L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità”4.

Solo le degenerazioni dell’amore, dovute a difficoltà personali o a condizionamenti sociali, fanno sì che esso venga pensato in termini fugaci e passeggeri. L’amore è eterno finché dura, così si intitolava un film di Verdone di alcuni anni fa. Ma quando si è veramente innamorati, quando si permette all’amore di far sentire la sua voce, senza subire l’influenza della sfiducia e della sospettosità che caratterizzano l’odierno stile relazionale, il desiderio più intimo e profondo non può che esprimersi in un per sempre. Gli innamorati pensano al loro amore in termini di eternità: lo testimoniano anche oggi le scritte sui muri e gli sms pubblicati dai quotidiani pubblicitari in molte città.

Il fidanzamento, quindi, e il matrimonio sono entrambi – pur con caratteristiche diverse – momenti di attesa e di elaborazione, che tendono allo sviluppo di quella capacità di bene, di dono di sé e di accoglienza dell’altro che caratterizzano il vero amore, quell’amore che, spogliato da tutto ciò che è impuro, durerà in eterno.

 

  1. Il fidanzamento: un’attesa per purificare l’amore

L’amore che una coppia di sposi si promette il giorno delle nozze o verso cui si impegna nel tempo del fidanzamento è un amore destinato a diventare eterno. Questa realtà rivela la grandezza dell’amore di coppia, che non è un semplice surrogato rispetto ad altre forme d’amore, ma contiene in sé uno slancio e una capacità di dono che lo aprono sull’orizzonte di Dio. L’amore umano, dunque, porta in sé – anche se talvolta in modo segreto e nascosto – un germe dell’amore divino, che è pura estasi, oblazione totale. Scrive a tale proposito il grande teologo ortodosso Pavel Evdokimov, che l’amore umano “ha origine in Dio, è della stessa natura dell’amore divino perché si accende alla sua fiamma e le sue lingue di fuoco ne fanno una pentecoste nuziale”5.

Questo slancio, questa capacità di dono e di accoglienza sono una realtà presente nella relazione di due giovani che si amano e, nello stesso tempo, sono chiamati a crescere e maturare. L’amore

appassionato tra un uomo e una donna, l’amore erotico che conosce l’estasi come momento di ebbrezza, deve imparare, secondo le parole di papa Ratzinger, un altro tipo di estasi: quella intesa come cammino, “come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio”6. Esso ha dunque bisogno di essere completato, di essere integrato; ha bisogno di imparare a dimenticare se stesso e a donarsi all’altro. L’amore umano ha bisogno di un’ascesi, deve passare attraverso il crogiolo della purificazione, nel quale, come scrive il Salmo 26, il Signore raffina al fuoco il cuore e la mente. Diverse sono le modalità attraverso cui ciò avviene, ma solo quando per entrambi i partner l’egoismo, che orienta alla gratificazione e all’amore per se stessi, si consuma nelle fiamme del dono, l’amore può dirsi veramente tale.

Il fidanzamento, oltre che attesa del compimento, è dunque anche momento propizio per un’ascesi e una purificazione dell’amore, che inizia in questo periodo e non avrà mai fine. Esso è il tempo in cui l’idealizzazione iniziale viene messa alla prova dall’incontro – talvolta anche scontro – con la realtà. Il periodo che lo ha preceduto, infatti, è stato caratterizzato dal riconoscimento dell’unicità dell’altro e dalla sua idealizzazione. È proprio dell’innamoramento, infatti, riconoscere l’altro come persona unica e insostituibile, diversa da tutte le altre e “fatta apposta” per sé. Mentre il don Giovanni passa da una preda all’altra, seducendola per poi utilizzarla, l’innamorato sceglie l’amata perché ne riconosce l’unicità, l’impossibilità di sostituirla con qualsiasi altra persona: “Colei che sola a me par donna”, canta giustamente il Petrarca.

La vita, però, con le sue esigenze e le sue fatiche, domanda il superamento di questa fase, in cui l’idealizzazione è funzionale all’innamoramento, per passare a una percezione più oggettiva della realtà. Ciò che un tempo veniva sottovalutato o interpretato in modo positivo, ora appare anche nella sua dimensione non attraente e faticosa da gestire. Se prima si ignoravano i malumori della ragazza o ci si passava sopra, senza quasi rendersene conto, se si taceva rispetto al legame un po’ troppo stretto del ragazzo con la propria madre, ora è necessario iniziare a guardare bene in faccia la verità.

Il fidanzamento diventa così il tempo ideale per riconoscere e assumere la differenza e i limiti del partner. I vari impegni che esso comporta, soprattutto la scelta del luogo e dell’arredamento della casa in sui si andrà ad abitare e la faticosa preparazione della celebrazione delle nozze – in cui è coinvolta non solo la coppia, ma anche i genitori e i suoceri, così inconsapevolmente predisposti a far sorgere e amplificare i problemi – sono tutte esperienze che mettono a dura prova il rapporto. Emergono i limiti, emergono le diversità e i due partner spesso si trovano confusi e spaventati, vedendo emergere conflitti che fino a quel momento non si erano mai manifestati con tale evidenza.

Poter vivere queste difficoltà e fatiche prima del matrimonio è una grazia, perché la situazione “intermedia” del fidanzamento – che comporta un impegno percepito come definitivo, ma non ancora istituzionalizzato – permette di non spaventarsi troppo di fronte al conflitto: la possibilità di revocare l’impegno ne favorisce una percezione meno spaventata; nello stesso tempo, la promessa assunta nei confronti dell’altro invoglia ad affrontare i problemi con maggior vigore, invece di cedere subito allo scoraggiamento e revocare con troppa facilità la scelta fatta.

Il tempo dell’attesa diventa allora il tempo in cui si è confrontati rispetto al modo di porsi di fronte alla “verità” dell’altro: l’altro che, poco per volta, scopriamo diverso rispetto all’ideale, ma che, nello stesso tempo, rimane l’oggetto del nostro amore. Di fronte a questa verità che si affaccia all’orizzonte, spesso si è tentati di fuggire, di camuffare, di illudersi che, con il matrimonio “le cose cambieranno” o, addirittura, diventeranno più facili da gestire: “Adesso siamo presi da tante cose, dalla scelta della casa, del luogo in cui fare il pranzo, dall’arredamento, dalle partecipazioni e dall’abito di nozze, ma poi…” si sente spesso dire. All’illusione qualcuno sostituisce invece la pretesa e, individuato il difetto del partner, esige che questi cambi personalità, lamentandosi o facendo il broncio se ciò non avviene.

Il fidanzamento, come tempo di attesa e di elaborazione dell’amore, offre però una terza possibilità, indubbiamente più matura e più utile rispetto alle altre: la possibilità di assumere il limite dell’altro come parte integrante della sua persona, da accogliere, pur mantenendo la speranza di un cambiamento, di una crescita.

L’amore vero, infatti, non è pretenzioso, riconosce e accetta le debolezze altrui, perché sa che anche l’altro dovrà – se davvero ci vuole bene – riconoscere e accettare le nostre. Il fidanzamento è dunque il tempo in cui si inizia quell’importante attività, che dovrà accompagnare tutta la vita di una coppia: l’accoglienza della differenza dell’altro, quando si manifesta come peso fastidioso, che vorremmo abolire, eliminare, perché provoca, disturba e qualche volta perfino tormenta.

Se già da fidanzati si impara ad assumerla ed accoglierla, la differenza si trasformerà invece in stimolo, in “trampolino di lancio”; si rivelerà come occasione per imparare a volere davvero bene all’altro, guardando non alla sua immagine idealizzata – che ci siamo costruiti interiormente – ma all’altro nella sua verità: quello che già adesso arriva sempre in ritardo, lascia tutto in disordine o fa il broncio se dimentico la data del suo compleanno. L’altro, però, di cui spesso scordiamo che è anche colui al quale chiediamo di accettare la nostra debolezza e di accoglierci nella fragilità.

Questa capacità di integrare, di “tenere insieme” il limite e la “bellezza” nostra e altrui, messa in atto ancor prima del matrimonio, permette di cogliere la diversità non solo – o soprattutto – come una fatica, ma come una realtà salvifica, che insegna a custodire l’amore come il più prezioso fra i doni ricevuti. Ed è questo, in fin dei conti, il motivo per cui vale la pena attendere e anche far fatica: perché l’amore è la realtà più bella che si possa vivere e ogni lotta per proteggerlo e farlo crescere è una lotta degna di essere vissuta.