N.03
Maggio/Giugno 2012
Studi /

Teologia del fidanzamento: educare alla tenerezza

Non è comune parlare di teologia del fidanzamento. Eppure una teologia del fidanzamento è indispensabile oggi. Solo se si comprende il contenuto teologico del fidanzamento è possibile dar vita ad una sua rinnovata evangelizzazione, superando un’ottica troppo superficiale o solo moralistica. Una debole teologia del fidanzamento genera una debole pastorale del fidanzamento1.

La teologia del fidanzamento a cui riferirsi deve essere in grado di mostrare come il tempo che precede la celebrazione del sacramento nuziale non sia semplicemente un chronos, un tempo che scorre senza che niente di speciale accada, ma un kairos, un tempo forte, un tempo di grazia durante il quale lo Spirito Santo opera nel cuore dei promessi sposi, a condizione – ovviamente – che lo si lasci operare. Occorre superare l’orizzonte del fidanzamento come “uno stare insieme“, senza un effettivo itinerario di crescita, di conoscenza reciproca, di educazione al dialogo e di responsabilità; il fidanzamento è un camminare insieme: camminare insieme l’uno verso l’altra, insieme verso un progetto condiviso di vita, insieme verso Dio, fonte e cuore dell’Amore. In una tale ottica è indispensabile evitare di ridurre la celebrazione del matrimonio ad un evento isolato, senza un prima e un dopo che lo determinano e lo rendono fruttuoso. Una corretta teologia del fidanzamento si deve situare tra almeno due polarità fondamentali: l’iniziazione cristiana come polarità fondante; il sacramento nuziale come polarità orientante. Il contenuto è essenzialmente la tenerezza come espressione di maturità affettiva.

 

  1. L’iniziazione cristiana: polarità fondante

Tradizionalmente il matrimonio è qualificato come un “sacramento dei vivi”2. Come tale, esso suppone la presenza della grazia, senza la quale – pur permanendo valido – risulta infruttuoso, intaccato o addirittura privato della sua piena fecondità sacramentale. La riflessione teologica sul fidanzamento tuttavia deve andare più a fondo. Quando si dice che il matrimonio è un “sacramento dei vivi” non ci si riferisce solo allo stato di grazia dei nubendi, ma alla pienezza della vita cristiana, a cominciare dalla cresima e dalla partecipazione all’Eucaristia, dalle virtù teologali e dall’esperienza della comunità ecclesiale, fino alle virtù cardinali e alla fedeltà al Vangelo e alla preghiera. Sono questi doni che determinano la fruttuosa recezione/realizzazione dell’evento nuziale.

 

  • Il fidanzamento come “con-vocazione” battesimale

Spiega opportunamente il Direttorio familiare della Chiesa italiana: il tempo del fidanzamento trae forza e contenuto specifico dal battesimo. Il significato di questo tempo non deriva solo da ciò che i fidanzati sono in se stessi, ma dalla loro incorporazione a Cristo e alla Chiesa. Grazie alla rinascita “nell’acqua e nello Spirito” (Gv 3,5), i due fidanzati sono già in una relazione di grazia col Signore Gesù e con la comunità ecclesiale; una relazione che li raggiunge nelle profondità del loro essere e nella loro stessa personalità, rendendoli membra vive del Corpo di Cristo.

Il fonte battesimale è il “grembo divino” e la sorgente sempre nuova da cui i fidanzati sono continuamente alimentati, perché il loro amore possa crescere fino a poter essere assunto dal Signore stesso nella sua alleanza nuziale con la Chiesa. I fidanzati sono chiamati a rinnovarsi nella loro identità cristiana, approfondendo il battesimo come una chiamata a due: una chiamata a vivere l’incontro col Signore Gesù, predisponendosi come coppia a quell’evento di grazia che farà di loro una comunione (una caro) e una comunità di grazia e di salvezza. La spiritualità del fidanzamento è, dunque, al tempo stesso: una spiritualità battesimale, in quanto è chiamata a lasciarsi rigenerare dalla vita dello Spirito ricevuta nel battesimo, vivendola in un cammino costante di crescita, ed è una spiritualità di convocazione battesimale in quanto è una chiamata a due, un cammino di educazione al “noi”, per poter realizzare il senso profondo di quanto celebreranno.

 

1.2 L’invocazione dello Spirito come azione di grazia nel cuore dei fidanzati

La spiritualità battesimale del fidanzamento è inseparabilmente collegata alla presenza dello Spirito all’opera – come dono dei sacramenti dell’iniziazione – nei due partners, uomo e donna, che si preparano al matrimonio. Il loro amore di fidanzati non rappresenta un evento unicamente umano o profano. Lo Spirito è presente nelle profondità delle loro persone e del loro amore con un’azione misteriosa che agisce lungo tutto il tempo della promessa, sospingendo i fidanzati al di là di loro stessi verso l’infinito dell’Amore e chiamandoli a vivere il tempo che li separa dalla celebrazione al matrimonio come un tempo di maturazione della fede.

Il tempo del fidanzamento, nell’attesa dell’epiclesi che attuerà nella celebrazione del matrimonio-sacramento, è un tempo di discernimento nella grazia dello Spirito. Ora ciò è possibile solo con una costante invocazione dello Spirito. I modi peculiari con cui lo Spirito agisce nei futuri sposi sono l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera comune, la riconciliazione e l’Eucaristia. Sono questi gli atti plasmanti del cammino dei fidanzati, affinché lo Spirito possa realizzare in loro la pienezza dei suoi frutti. Il tempo del fidanzamento riveste questo specifico significato teologico: è il tempo nel quale i futuri sposi imparano ad ascoltare Dio che parla al loro cuore e si lasciano purificare e plasmare da questo ascolto nella grazia dello Spirito e nell’incontro col Signore Gesù presente nell’Eucaristia; un tempo nel quale essi sono trasfigurati interiormente dalla presenza dello Spirito per essere progressivamente resi l’uno per l’altra immagine vivente dell’amore di Dio-Trinità e dono di grazia l’uno per l’altro, per la Chiesa e il mondo.

 

  1. Il matrimonio-sacramento: polarità orientante

Il sacramento del matrimonio rappresenta un novum nella vita dei due fidanzati. La sacramentalità del tempo che precede l’atto del matrimonio non è la sacramentalità dell’evento matrimoniale propriamente detto. Non si deve tuttavia porre uno stacco assoluto tra i due ordini di sacramentalità, quasi che il matrimonio-sacramento rappresenti un evento al di fuori, al di sopra o nell’indifferenza di ciò che sono i fidanzati e di quanto hanno maturato e vivono.

 

2.1 Reciprocità natura-grazia

Il sacramento nuziale ordinariamente non opera miracoli; agisce su ciò che trova: “La grazia suppone la natura, la purifica, la perfeziona e la eleva” (secondo un detto teologico). La natura umana, storicamente ferita dal peccato e rinata nel battesimo, rimane la condizione di base per ricevere la grazia: la grazia agisce su di essa, non a prescindere da essa. A sua volta, la natura umana attinge la sua pienezza solo nell’incontro col Dio che salva in Gesù Cristo e nell’accoglienza del suo Spirito. Nessun dualismo tra natura e grazia, ma reciprocità. La conseguenza è chiara: quanto più i fidanzati si avvicinano al matrimonio nel quadro di una ricerca di consapevolezza di ciò che dovranno diventare, tanto più – in linea ordinaria – predispongono un buon terreno perché il sacramento possa operare in loro le sue “meraviglie”. Per contro, l’assenza di questo buon terreno intacca la fecondità stessa dell’evento del matrimonio-sacramento, facendo mancare – in tutto o in parte – quel presupposto di “natura” che la grazia suppone e su cui opera. Privato delle sue condizioni di base, il sacramento del matrimonio finirà per essere come svuotato o comunque impoverito nel fondamento su cui si appoggia e su cui deve fruttificare, e difficilmente sarà fecondo per gli sposi. Sarà valido sul piano giuridico-oggettivo, ma infruttuoso sul piano personale-esistenziale.

Il sacramento del matrimonio porta con sé una grazia di guarigione e di elevazione e Dio la dona sempre agli sposi – quando non vi è posto un ostacolo – ma questa grazia richiede, prima-durantee-dopo, la presenza di premesse specifiche, senza cui non opera. La comprensione di questo legame di interdipendenza suppone la percezione dell’identità specifica del sacramento delle nozze3.

 

2.2 “È la relazione uomo-donna che diventa sacramento”

La coppia dei due battezzati è segno del matrimonio-sacramento: è la comunione d’amore tra i due battezzati che si trasforma in evento sacramentale, evento e partecipazione alla comunione di amore di Cristo per la Chiesa. Il segno sacramentale del matrimonio-sacramento non è al di sopra della coppia uomo-donna, ma è dato dalla loro stessa realtà, con le rispettive libertà, la loro corporeità sessuata, il loro mutuo consenso: è questa comunità di vita e di amore che, nell’accadimento sacramentale, diventa comunità di grazia e di salvezza in Cristo e nella Chiesa. L’atto celebrativo del matrimonio non è posto dopo la bipolarità sessuata maschile e femminile; coincide con essa, l’assume e le conferisce un significato nuovo rendendo i nubendi partecipi dell’alleanza pasquale Cristo-Chiesa. A differenza di tutti gli altri sacramenti, il matrimonio trova il suo segno negli atti responsabili dei riceventi. Essi sono principio e termine di quanto celebrano. Il loro “sì” reciproco e il loro stesso essere entrano a far parte della struttura specifica dell’evento sacramentale.

Ed ecco perché tutto ciò che si fa perché i fidanzati prendano consapevolezza di ciò che sono e sono chiamati a diventare, riveste un’importanza teologica: non è soltanto l’espressione di “una buona preparazione al matrimonio”, ma un accadimento di natura tale da condizionare l’atto stesso che i due nubendi celebrano e la vita che ne consegue.

 

2.3 Dall’amore come “sacramento” al “sacramento dell’amore”

Quando un giovane e una giovane si innamorano, orientandosi ad una scelta di vita matrimoniale, difficilmente pensano che il loro amore sgorghi da Dio, sorgente dell’amore, e conduca a Dio, vertice dell’amore; ritengono di sperimentare un fatto solo o quasi solo umano, che li coinvolge in tutto il loro essere, ma che non sembra avere particolari riferimenti al mondo della trascendenza. Occorre modificare questa concezione, mostrando come l’amore vero, autentico, tra due fidanzati – quando non si opponga a Dio e quindi sia un amore che rientra nel suo progetto – sia già inabitato da Dio, da Lui derivi e a Lui sia indirizzato. Non c’è dissociazione tra l’amore umano dei fidanzati e l’amore di Dio attuato nel sacramento del matrimonio: al contrario, l’uno ha bisogno dell’altro e alimenta l’altro. Più i due fidanzati crescono nella verità del loro amore vicendevole, più pongono le basi perché il sacramento che celebrano operi in pienezza i suoi doni in loro. Il loro amore già tende oltre se stesso, in una dimensione di trascendenza che implica il “tutto” e il “per sempre”. Anche se non lo sanno, il loro amore sgorga da Dio-Trinità, sorgente dell’amore, ed è indirizzato a Dio-Trinità, vertice dell’amore e sua ultima realizzazione. Il sacramento delle nozze suppone e porta a pienezza questo amore, sanando, confermando, santificando l’amore di un uomo verso la sua donna e di una donna verso il suo uomo. L’evento sacramentale viene incontro a questo amore e lo conduce al suo pieno compimento: è in esso che Dio suscita un amore più grande, simile a quello che egli nutre per il suo popolo e Cristo per la sua Chiesa. Eros, l’amore ascendente, si incontra con Agápe, l’amore discendente, come ha mostrato Benedetto XVI nella Deus Caritas. È in questo contesto che va compresa la preoccupazione relativa alla maturazione dei fidanzati circa quel Tertium che conferisce pieno significato al loro amore di uomo e di donna. Senza questa percezione viene a mancare un contenuto decisivo nei confronti del senso integrale dell’amore.

 

2.4 Sponsalità del corpo e sponsalità del matrimonio

Sussiste, in questo ambito, una stretta relazione tra la consapevolezza della sponsalità del corpo nel fidanzamento e il matrimonio come evento di sponsalità in Cristo e nella Chiesa. Il corpo esprime la vocazione dell’uomo e della donna alla sponsalità4 (FC 11); nel sacramento del matrimonio, il corpo diviene lo “spazio” visibile in cui si manifesta e si attua la sponsalità invisibile di Cristo verso la Chiesa e della Chiesa verso Cristo (Ef 5). Quando i due fidanzati non maturano la consapevolezza di ciò che significa assumere la propria corporeità come “sacramento” del dono di sé e dell’accoglienza dell’altro/a, quando vivono il corpo come un possesso, difficilmente saranno in grado di fare della propria corporeità una realtà sponsale, divenendo l’uno per l’altro segno vivente dell’amore di Dio per l’umanità e di Cristo per la Chiesa. Una tale consapevolezza, se è fondamentale per ogni persona, è indispensabile per il matrimonio5.

 

  1. Educazione alla tenerezza

Ora è proprio qui che entra in gioco la questione dell’educazione all’affettività e ad una sessualità in senso pieno su cui si gioca gran parte della riuscita o meno del fidanzamento6.

 

3.1 Contestualizzazione culturale

Il discorso della tenerezza si trova a confrontarsi con due opposte tendenze, in apparente contrasto tra loro: l’analfabetismo affettivo e l’emozionalismo; “apparente contrasto” perché, in realtà, il secondo è figlio del primo.

 

Analfabetismo affettivo. Non è essenziale, nella nostra cultura, che si sia educati a riconoscere il nostro mondo affettivo, e ad assumerlo in termini maturi come “relazionalità con” e “relazionalità per”; non è essenziale e non si fa niente (o quasi) perché lo divenga. Il discorso degli affetti è relegato nell’ambito dell’indefinito, del non-detto e perfino dell’irrilevante e dell’in-utile. Si conosce il DNA di ogni essere e si lavora per individuare la mappa genetica dell’essere umano (genoma), ma solo un numero esiguo di individui si interroga su che cosa sia per lui l’affettività e sul come valorizzarla per un incontro con l’altro il più possibile positivo e realizzativo (cordiale da cor/cordis, cuore). Ha ragione un autore contemporaneo, Carlos Luis Restrepo, quando osserva che:

 

“I cittadini occidentali soffrono di una terribile deformazione, di un pauroso impoverimento storico che li ha portati ad un livello di analfabetismo affettivo senza precedenti. Conoscono la A, la B, la C, l’1, il 2, l’8, sono capaci di sommare, moltiplicare e dividere, ma sanno ben poco della loro vita affettiva e mostrano una grande rozzezza nei loro rapporti con gli altri”7.

 

Il problema è di dare concretezza ad un’educazione che faccia uscire i giovani, i fidanzati e gli sposi stessi da ogni forma di superficialità in questo campo e li aiuti ad assumere la sensibilità e ad orientarla nella linea di un’autentica maturazione affettiva.

 

Emozionalismo. In contrasto a questo analfabestismo affettivo – e forse proprio a causa di esso – si assiste ad una vera e propria esplosione di esibizionismo emozionale, come non si era mai visto. Occorre tener presente, a scanso di equivoci, la distinzione che esiste tra emozioni e sentimenti. Le prime sono una componente fondamentale dell’esistenza personale, ma esprimono solo il livello immediato del sentire; ben più profondo è il discorso dei sentimenti, che coinvolgono la totalità della persona, in bene o in male, a seconda dei contenuti di cui sono portatori. Mi limito solo ad un esempio indicativo per il tema che ci interessa: l’innamoramento è un’emozione, l’amore un sentimento; l’innamoramento è un’emozione, un’emozione forte, che fa provare un’ebbrezza speciale, al punto che alla persona innamorata sembra quasi di volare, ma è un’emozione temporanea: non dura per sempre; l’amore è un sentimento che va oltre l’emozione immediata e conduce ad accettare l’altro nella sua realtà, apprezzandolo anche con i suoi limiti: un sentimento che va al di là del solo stato emotivo e implica il “tutto” e il “per sempre”.

Il matrimonio si regge sull’amore, non sulla mera emozione dell’innamoramento. Sappiamo come sia questo uno dei grandi problemi della pastorale matrimoniale oggi: il mancato passaggio dall’innamoramento all’amore nelle giovani coppie; oppure il mettere in crisi un matrimonio di dieci, quindici, venti anni solo per un’infatuazione verso un’altra persona. Di fatto, la nostra cultura porta avanti più una prospettiva emozionale che il discorso di un’autentica maturazione affettiva. Basti pensare ai programmi che trionfano in questi ultimi anni in televisione: si cominciò con le telenovelas (da Beautiful alla sue diverse imitazioni); si è continuato con gli incontri di amore (dai diversi “Stranamore” alle molteplici rubriche dirette da Maria De Filippi); e si sta furoreggiando con i reality show (dal Grande Fratello, all’Isola dei famosi e alle sue molteplici varianti). Tutte trasmissioni che, in un modo o nell’altro, giocano sull’ostentazione delle emozioni, puntando a farle vivere per interposta persona.

L’affettività finisce per essere ridotta a livelli estremamente superficiali. Le emozioni sono un primo livello della nostra sensibilità, ma sono i sentimenti che guidano la nostra vita. Lo stesso avviene, in questo contesto, per il concetto di tenerezza. Quando si ricorre a questa parola la si può intendere in due sensi molto diversi fra loro: come un’emozione o come un sentimento. Come un’emozione indica un’attitudine passeggera, superficiale, epidermica; come un sentimento indica un amore forte, implicante il “tutto” e il “per sempre”. È in questa seconda accezione che utilizzo, in questa sede, la parola tenerezza.

L’emozione-della-tenerezza si colloca sul piano dell’avere e può esse-re sinonimo di fragilità, di debolezza. Il sentimento-della-tenerezza si pone sul piano dell’essere ed indica un amore forte, responsabile, che non gioca con i sentimenti propri e altrui. La prima è piuttosto uno stato d’animo; la seconda uno stato dell’anima. Esiste un differenza ulteriore: la tenerezza come emozione dice per lo più ricerca di sé nell’altro, proiezione dei propri desideri sull’altro, con l’incapacità spesso al dono e all’accoglienza; la tenerezza come sentimento appartiene all’esperienza radicale del nostro esserci come co-esserci e proesserci, e si realizza come apertura al tu, verso l’altro/Altro, in una forma profonda, coinvolgente e radicalmente interpersonale.

 

3.2 La tenerezza come scelta di maturità affettiva

La tenerezza coincide con la maturità affettiva. Solo chi è capace di vivere il sentimento della tenerezza è maturo affettivamente; chi si limita all’emozione non lo è.

In tutti noi esiste una risorsa enorme: l’affettività. Essa può essere definita come ricchezza di sensibilità che ci caratterizza come persone sessuate, al maschile o al femminile; una ricchezza di sensibilità che implica l’insieme del sentire, il sentire di sentire, il sentire di essere, suppone quindi la sensorialità e tutta quella carica di emozionalità e di sentimenti che ci fa sentire vivi. L’affettività è inscritta dunque in noi come ricchezza di sensibilità che connota in radice il nostro essere: essa appartiene a questa struttura, profonda, esistenziale, della persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, là dove risiede il desiderio di amare e di essere amati (éros) e là dove si pone il tendere ad autotrascendersi, in alto, in su, verso l’Amore assoluto, verso Dio-Amore (agápe).

 

3.3 La sensibilità come dono da valorizzare

La sensibilità rappresenta una forza dinamica; una potenzialità attiva, inscritta nelle profondità del nostro essere, una forza dinamica che attende solo di venire alla luce e di essere compiutamente indirizzata; in caso contrario, diviene (o rischia di divenire) una realtà dispersa o dispersiva e perfino irrequieta, come un mare mosso o una tempesta senza pace. La sensibilità può essere paragonata ad un bacino idrico, colmo di straripante impeto vitale. Ciò che si richiede è che le acque siano contenute entro i confini di una solida diga, in grado di arginarne l’irruenza e canalizzarle nella forma più appropriata; diversamente, invece che riserva di energia e fonte di vita, si trasformano in una massa travolgente e pericolosa, portatrice di distruzione e di morte. Una corretta educazione affettiva deve muoversi in questa direzione, facendo passare dal sentire come spinta anonima e senza orientamento ad un sentire voluto, ricercato, come cammino verso la maturità affettiva. E deve superare il duplice scoglio a cui si è fatto riferimento prima: l’analfabetismo affettivo e l’emozionalismo, coniugandosi sia con l’educazione delle facoltà superiori, la ragione e la volontà, sia con un’educazione ai valori etici che orientino a scegliere ciò che è bene e a rifiutare ciò che è male. Solo quando ci si muove in un orizzonte di questo tipo si è sulla buona strada per valorizzare il dono della sensibilità e crescere nella maturità affettiva.

 

3.4 L’arte di modellare la sensibilità

La vocazione a modellare la sensibilità costituisce un’arte, come lo è l’insieme dell’azione educativa in ogni suo tratto: è un arte, perché conduce a scolpire in noi – come un artista da un blocco di marmo informe – la nostra più vera identità, creata ad immagine e somiglianza di Dio, la nostra più genuina natura, mettendoci in grado, come persone, di accogliere, donare, condividere e di farlo con libertà, purezza di cuore, generosità e altruismo. Un’arte che richiede grande pazienza con noi stessi e muove da ciò che si è per giungere a ciò che non si è. Quando questo non avviene la nostra sensibilità si orienta verso direzioni altre. Ne possiamo indicare tre:

 

  1. un’affettività “contro” (= stato d’animo connotato da collera/ rabbia);
  2. un’affettività “via da” (= stato d’animo connotato da paura/ ansia);
  3. un’affettività “senza” (= stato d’animo connotato da tristezza/ depressione).

La tenerezza come sentimento è esattamente l’opposto: è un’affettività “con” e un’affettività “per”. Essa rimanda al desiderio di amare e di essere amati ed evoca uno stato dell’anima connotato da gioia.

 

3.5 La tenerezza come scelta di maturità affettiva

Il problema è di scegliere la tenerezza come stato dell’anima, evitando di farsi dominare dai tre stati d’animo della collera, della paura e della tristezza. Soffermiamoci un momento sulle diverse modalità di essere.

 

Affettività “contro” (collera/rabbia). L’affettività “contro” è tipica di quanti si lasciano dominare da sentimenti di ostilità: i collerici. La sensibilità si trasforma, in tal caso, in uno stato d’animo di rabbia, di aggressività contro tutto e tutti.

A livello personale, chi si lascia dominare dal sentimento della “collera” vive in un’attitudine costantemente rivendicativa, come se navigasse in un mare sempre in tempesta, senza riuscire ad essere in pace con se stesso, con gli altri, con Dio. In soggetti di questo genere prevalgono l’insofferenza, l’intolleranza e quindi l’incapacità a coltivare relazioni di amore, di cordialità, di gioia.

A livello di coppia, le comunicazioni del collerico sono prive di stima e di dialogo sereno e maturo e quindi fortemente conflittuali, con comportamenti per lo più accusatori e colpevolizzanti. La vita a due, in simili condizioni, diventa difficile, se non del tutto insopportabile.

A livello educativo, prevale l’autoritarismo, con toni minacciosi, offese e insulti gratuiti. Il collerico è incapace di esercitare un ruolo formativo positivo. L’autorità è costantemente sulla china dell’abuso e dell’intemperanza emotiva. I figli che si trovano a vivere situazioni di questo genere sperimentano tensioni psicologiche di notevole gravità: a volte, per una sana reazione, riescono a venirne fuori, scegliendo modalità di vita o di matrimonio esattamente opposti; nella maggioranza dei casi, tuttavia, covano un forte desiderio di vendetta e finiscono per assumere stili analoghi.

Affettività “via da” (paura/ansia). L’affettività “via da” è tipica di coloro che si lasciano dominare da tensioni interne o esterne di paura, di “pre-occupazione”. La sensibilità si orienta a stati d’animo ansiogeni, con preoccupazioni ripetitive e martellanti e previsioni di pericoli sempre imminenti.

A livello personale, chi si lascia dominare da questo sentimento vive in una sorta di fuga da qualcuno o da qualcosa, senza riuscire a vedere il presente con obiettività e il futuro con fiducia.

A livello di coppia, la comunicazione risulta difficile, perché è guidata solo o quasi da insicurezze invece che da atteggiamenti di fiducia e di sereno ottimismo.

A livello educativo, dominano atteggiamenti di iper-protezione come risvolto alle proprie insicurezze. L’effetto, quasi inevitabile, sarà un’azione educativa che genera persone fragili e incapaci di assumersi le proprie responsabilità, con una giusta dose di coraggio.

 

Affettività “senza” (tristezza/depressione). L’affettività “senza” è tipica delle persone tristi, nelle quali domina il senso del pessimismo, o addirittura del fallimento. La sensibilità si trasforma in stati d’animo fortemente negativi, depressi e privo di vitalità.

A livello personale, il depresso si lascia dominare dalla rassegnazione, dal vittimismo e dall’impossibilità a considerare il mondo sotto il profilo del mezzo bicchiere pieno, con quel tanto di sano umorismo che consenta di sdrammatizzare gli eventi e sorridere.

A livello di coppia, le comunicazioni saranno per lo più recriminatorie, con critiche esasperate e con un vissuto di coppia sempre insoddisfatto, fino a forme di masochismo e/o sadismo inconsci.

A livello educativo, imperano gli atteggiamenti scoraggianti, se non decisamente distruttivi, con la mancata valorizzazione delle migliori risorse dell’individuo da educare.

 

Affettività “con” e “per” (tenerezza/gioia). Come uscire fuori da queste forme riduttive o decisamente distorte di affettività? L’unica via, umanamente percorribile, è quella di un’opzione che conduca a passare da un’affettività “contro” / “via da” / “senza” ad un’affettività “con” / “per”: un’affettività che ci apre all’amore dato e ricevuto e ci educa ad essere con gli altri e per gli altri in una relazionalità positiva. Il che equivale a dire: passare dagli stati d’animo della collera, della paura e della tristezza alla tenerezza come stato dell’anima. Il problema è di scegliere la tenerezza come progetto di vita.

I primi tre stati d’animo non si scelgono: sono loro che scelgono noi! Il sentimento della tenerezza va scelto. Questa opzione è la via che consente di valorizzare al massimo la ricchezza di sensibilità inscritta in noi, assumerla in prima persona e orientare (o ri-orientare) la nostra sensibilità verso una relazionalità affettiva positiva e matura.

Al di fuori di questa scelta non esiste – e non può esistere – autentica umanità. L’assenza di questo tipo di affettività può perfino condurre alla brutalità, come spiega Abraham Heschel:

 

“Il grado di sensibilità per le sofferenze degli altri, per l’umanità degli altri esseri, è l’indice del grado di umanità raggiunto… Il contrario è la brutalità, l’incapacità a riconoscere l’umanità del prossimo, ad essere sensibili ai suoi bisogni, alla sua situazione”8.

 

La tenerezza, intesa come maturità affettiva, misura dunque l’humanum, il grado di umanità raggiunto. Ha ragione E. Fromm quando dice che fra tutti i sentimenti che l’uomo ha sviluppato lungo la sua storia non ne esiste uno che superi la tenerezza, come qualità tipicamente umana e umanizzante. L’opzione della tenerezza non si limita ad accompagnare gli atti delle facoltà superiori, ma li colora di una specifica amorevolezza, rivestendo le singole esperienze di un’affezione (affectus, in senso latino, o dilectio) che renda la persona capace di incontro con l’altro da sé, con relazioni positive, ricche di premura e di attenzione ai suoi bisogni.

I fidanzati sono chiamati ad andare, entrambi, a “scuola di tenerezza”, arricchendosi reciprocamente dei doni di cui sono portatori e impegnandosi a costruire insieme, in un dialogo propositivo e rispettoso della differenza, un’autentica “civiltà della tenerezza”.

E che cosa significa andare a “scuola di tenerezza”, per loro, se non aprirsi agli orizzonti ineffabili dell’Assoluta Tenerezza? Non è forse Dio la sorgente inesauribile, il cuore e il vertice di ogni tenerezza per coloro che si lasciano amare da Lui e da Lui imparano ad amare la vita e ogni più piccola realtà del creato? Il problema è di esserne consapevoli, sentendosi avvolti dalla tenerezza di Dio come da un caldo grembo materno. Ed è questo, in definitiva, il segreto della piena maturità affettiva: andare a scuola di tenerezza da Dio, per imparare ogni giorno di più a lasciarsi plasmare dalla sua infinita tenerezza, crescendo in essa e sforzandosi di ricalcarne i tratti e i contenuti. “Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati”9.

La scelta della tenerezza suppongono un volgersi a Dio, l’Infinita Tenerezza Amante. Solo in Lui l’uomo e la donna sono in grado di far emergere in se stessi la genuinità della loro natura, il desiderio innato di amare e di essere amati. La tenerezza di Dio è il cuore di una matura assunzione della propria affettività.

Questo è semplicemente decisivo per la coppia dei fidanzati. È nella ricerca di questo cuore amante di Dio che essi sono resi capaci di autotrascendersi e di attingere al senso più alto della loro affettività.

Solo lasciandosi plasmare dalla Divina Tenerezza sono in grado di attuare il significato più alto della loro chiamata ad amare e ad essere amati. La tenerezza è come la vita: non è una realtà immobile o sempre eguale a se stessa, ma un’avventura sempre più grande, in su, verso l’Alto, verso Dio, l’Infinita Tenerezza. La ricompensa sarà uno straordinario orizzonte come solo dall’alto si può gustare: il dono di una “sapienza del cuore” che nasce da un Amore-amante, si protende all’Amore-amato e si costruisce come Amore-amorevolezza.

 

3.6 La questione dei rapporti prematrimoniali

Quanti fidanzati lavorano in tale direzione? Quanti invece si lasciano andare ad una sessualità superficiale, ai rapporti prematrimoniali; una sessualità facile, ma che impedisce loro di crescere nelle dimensioni più profonde dell’affettività? Il fidanzamento è essenzialmente tempo di tenerezza, secondo le tre accezioni prima richiamate. La maturazione del valore della sessualità nel fidanzamento richiede un contesto di oblatività interiore e di spiritualità dell’amore; solo allora l’autodonazione completa nel matrimonio sarà in grado di esprimere il suo senso compiuto e di realizzare pienamente la grazia del sacramento.

Il matrimonio-sacramento rappresenta la concretizzazione di una sessualità non isolata o isolabile dalla persona umana, uomo o donna, e di una sessualità non riducibile ad un’esperienza momentanea o ad un gioco.

Una concezione che assume una forte valenza critica fondamentale rispetto alla separazione amore-sessualità dominante nella società odierna. I sociologi parlano, in proposito, di “sessualità ludica”: una sessualità come gioco; una concezione che orienta ad un esercizio della sessualità disimpegnato e depersonalizzato, e riduce il gesto sessuale solo ad un fatto più o meno passeggero, invece che ad un’espressione della totalità della persona, del suo amore e dell’impegno verso l’altra. Quanto più il gesto sessuale è espressivo del dono di sé all’altro/a, tanto più coinvolge e pone in gioco le persone e la loro decisione mutua di appartenersi. Il gesto sessuale non è mai neutro; suppone sempre un significato e rimanda ad una decisione personale. È entro questo contesto che si comprende perché il cristianesimo sia contrario alla consumazione sessuale dell’amore reciproco, uomo-donna, prima del matrimonio, ai rapporti prematrimoniali. Solo nel matrimonio, infatti, si manifesta ed è realizzata in modo totale ed esclusivo la decisione dei due di appartenersi definitivamente, con un consenso che implica il “tutto” e il “per sempre”, e si ha quindi il contesto adeguato di realizzazione personale della vocazione all’amore e alla comunione, quale è stata ridonata in Cristo e nel dono del suo Spirito. Solo nel matrimonio, inoltre, l’amore e la sessualità possono debitamente aprirsi al dono della vita, accoglierla e farla crescere.

 

Conclusione

 

Il tempo del fidanzamento è un tempo di grazia non solo per i fidanzati, ma per la stessa comunità ecclesiale, allo stesso modo in cui la comunità ecclesiale è un dono di Dio per i fidanzati.

 

I fidanzati: un dono per la Chiesa. L’esperienza di amore che i due fidanzati vivono è per la comunità ecclesiale un invito a riscoprire perennemente il suo essere stata fidanzata a Cristo come “Chiesa-vergine” promessa ad un “unico-sposo” (2Cor 11,2). Lo Spirito che riempie il tempo del fidanzamento riempie in atto il tempo della Chiesa. E tale è il senso del fidanzamento: un dono continuo per la comunità, così come lo è il matrimonio e lo è la verginità consacrata. “Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1Cor 7,7). “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Cor 12,7). Il fidanzamento rientra in modo proprio in questi doni che Dio diffonde a piene mani nella sua Chiesa ed è anch’esso una manifestazione dello Spirito per l’edificazione della Chiesa.

 

La Chiesa: un dono per i fidanzati. La comunità ecclesiale si presenta ai fidanzati come un dono di Dio in ordine a ciò che sono e a ciò che diventeranno, al discernimento del loro vissuto e alla piena realizzazione del senso del loro cammino. È grazie a questo

dono che i fidanzati superano la tentazione di chiudersi in se stessi e sperimentano l’essere parte viva di una comunità che li ha iniziati alla fede e alla grazia battesimale e continua ad iniziarli nell’ascolto della Parola di Dio all’incontro col Cristo. La partecipazione alla vita della comunità, di altri fidanzati, all’esperienza di fede, alla liturgia della Chiesa e al vissuto della carità e della testimonianza cristiana, rappresentano i momenti forti che fanno della comunità ecclesiale un dono di crescita per i fidanzati secondo lo spirito del Vangelo e la grazia della Pasqua. L’iniziazione al matrimonio, infatti:

 

“Non può essere un compito puramente individuale, ma deve impegnare in diversa misura tutti i membri della comunità cristiana, la quale metterà in opera la sua specifica missione di annuncio della Parola di Dio, di celebrazione dei sacramenti, di educazione e di guida alla vita cristiana”10.