N.05
Settembre/Ottobre 2012
Studi /

Fede,discernimento,vocazione: cuore della preghiera

  1. La preghiera: cuore dell’essere umano

Come testimoniano i documenti delle civiltà di ogni epoca e luogo, la preghiera è un’espressione insopprimibile della persona umana. Facendo eco al noto principio filosofico per cui l’uomo è un essere che pensa, si può senza dubbio dire che l’uomo è ancor di più, e ancor prima, un essere che prega. La preghiera è un mistero che lo avvolge e lo penetra, ne scandisce le giornate, gli anni, l’intero corso dell’esistenza, esprime in vario modo la sua vera identità e al tempo stesso gli rivela la sua intima incompiutezza. Si potrebbe anche dire che per l’uomo vivere è pregare e che solo pregando egli vive veramente.

Detto questo, resta però difficile dare una definizione di preghiera, “spiegare” che cosa essa sia, proporre uno “schema” per imparare a pregare. Se già nessun’arte può essere appresa soltanto sui manuali, tanto più la preghiera sfugge a tecniche o metodi prestabiliti. Illuminante in proposito è il fatto che Gesù, richiesto dai suoi discepoli di “insegnare” loro a pregare, non fece un discorso sulla preghiera, ma si mise a pregare e consegnò loro il Padre nostro. Questo suo gesto è come un’icona luminosa davanti alla quale occorre fermarsi per venire ad essa conformati ed essere così trasformati in icone dell’Icona prototipo dell’Orante. Con il suo esempio e con il dono della preghiera del Padre nostro, Gesù ci rivela anzitutto che la preghiera è relazione, dialogo d’amore mediante il quale nasce e si sviluppa la nostra filiazione divina. È questo un aspetto fondamentale della preghiera cristiana: ancor prima di essere grido dell’uomo verso Dio, essa è un dono di Dio all’uomo; anzi, è il Dono per eccellenza, è quell’“alito di vita” che fa di lui un “essere vivente” (cf Gen 2,7), che in lui geme e soffre, che gli suggerisce i desideri e i progetti di Dio (cf Rm 8). In tal senso, la preghiera libera l’uomo dalla radicale solitudine, in cui l’ha rinchiuso il peccato, e lo apre alla vita nell’amore. Ma essendo l’uomo peccatore e perciò sempre tentato di rinchiudersi in se stesso, nella prigione del proprio “io”, ecco che la preghiera può talora diventare – anzi, è spesso – un doloroso travaglio, un’ardua fatica, un combattimento.

  1. Preghiera: viaggio verso l’interiorità

Poiché esprime la relazione con l’Altro, il Trascendente, la preghiera presuppone la fede, almeno una fede germinale, forse neppure ben consapevole, ma, per così dire, “naturale”, spontanea, come la fede del bambino verso la mamma; una fede non statica, ma dinamica, tale da coinvolgere tutto l’essere nella ricerca e nell’attesa di una risposta ai propri desideri più profondi. Tale preghiera rispecchia quella forte tensione presente nel cuore dell’uomo, che da un lato è spinto da un innato slancio verso Dio, dalla sete di infinito e di eternità, di verità, di amore e di bellezza, di comunione e di amicizia, dall’altro è drammaticamente ostacolato in questa sua tensione spirituale da moti passionali istintivi e disordinati, acuiti dall’ampia gamma di tentazioni e di insidie che il maligno – l’inimicus homo – gli tende per separarlo da Dio e gettarlo nel baratro del non-senso, della disperazione, della morte. Ma, come canta il Salmista, anche da quell’abisso si leva, alta, la voce della preghiera: «Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la mia voce. / Siano i tuoi orecchi attenti / alla voce della mia supplica… / L’anima mia è rivolta al Signore / più che le sentinelle all’aurora» (Sal 130,1-2.6).

Dal profondo: il processo di maturazione dell’uomo comincia proprio dal “rientrare in se stesso” (cf Lc 15,17), dal discendere in quelle profondità dove, nel silenzio e nella preghiera, può prendere consapevolezza della sua reale condizione di smarrimento, di lontananza, di povertà. È un itinerario di discesa per l’ascesa, di morte per la vita che fa percorrere a ciascuno una sorta di “esodo” dalla terra della schiavitù alla libertà dei figli di Dio. Sant’Agostino ne è un esempio mirabile; da lui ascoltiamo questa esortazione che è, si può dire, la preghiera di un “figlio prodigo” diventato padre misericordioso e compassionevole, pastore buono, medico delle anime: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat Veritas» (De vera religione, XXIX,72: PL 34,154), non andare vagando al di fuori di te, non disperderti nell’esteriorità, ma rientra in te stesso, perché è in te, nel tuo cuore, che abita la Verità. Per “rientrare in se stessi” occorre una decisione ferma di cui spesso nella prosperità l’uomo è incapace, pago com’è dei beni che possiede, dei piaceri di cui può godere con spensieratezza, delle gioie e dei riconoscimenti di cui si sente onorato. Ma tutto questo altro non è se non “vana gloria”, che oggi c’è e domani scompare. Come insegna la parabola del figlio prodigo – dell’uomo di sempre – il patrimonio che dava tanta sicurezza è inconsistente e ben presto viene dilapidato; l’uomo da ricco si ritrova povero, da sazio affamato, da figlio nella casa del padre a guardiano di porci per il magro e amaro guadagno di poche carrube che possono solo fargli maggiormente sentire la propria infelicità… Sotto la spinta della necessità egli comincia a rientrare in se stesso, inizia il lungo viaggio dell’interiorità che, come ancora suggerisce Sant’Agostino, lo porterà oltre se stesso, all’incontro con Dio, perché in sé non trova pace, ma solo mutevolezza, non trova la roccia stabile su cui costruire la casa della propria vita, ma solo sabbie mobili che gli accentuano l’ansia e l’angoscia esistenziale.

  1. Preghiera: un respiro universale

Non diversamente da Agostino, anche San Benedetto interpreta tutta la vita dell’uomo come un “cammino di ritorno” al Padre. Il Prologo alla sua Regola, che è una “rilettura” della parabola del figlio prodigo, si apre con l’invito: «Ascolta, figlio!» (v. 1), ascolta un padre che ti esorta, ascolta con cuore di figlio, con cuore accogliente; ascolta per diventare veramente discepolo, veramente figlio; ascolta per entrare veramente in relazione con l’Altro, per diventare uomo di fede e di preghiera.Icona perfetta di questo ascolto umile e accogliente è la beata Vergine Maria. Luca all’inizio del suo evangelo ce la dipinge come Colei che, accogliendo l’annunzio dell’angelo, concepisce e partorisce la Parola, e in seguito, durante la fanciullezza di Gesù, come Colei che custodisce i fatti e le parole che lo riguardano «meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Così pure negli Atti degli Apostoli, dopo la risurrezione, ce la mostra orante nel Cenacolo in mezzo agli apostoli quale Madre della Chiesa nascente. Questo è l’itinerario che ogni cristiano è chiamato a compiere, perché – come ripetutamente affermano i padri della Chiesa e del monachesimo medievale – ogni anima cristiana è “Maria” e trova in lei un modello e un prototipo. Come la fede nasce dall’ascolto (cf Rm 1,1), così anche la preghiera affonda le sue radici nell’ascolto e si nutre di continuo ascolto per sfociare nel silenzio adorante di una vita che si fa preghiera e che compie quanto nella preghiera ha ascoltato, intuito, contemplato: la volontà di Dio che interpella ciascuno e chiama a cooperare al grande disegno di universale salvezza. Questo ruolo di “madre e maestra” della preghiera è svolto in maniera eminente dalla Chiesa nella Liturgia delle Ore o Opus Dei, che scandisce e santifica il tempo nei suoi diversi ritmi – quotidiano, settimanale, annuale – inserendolo nell’opera di redenzione attuata da Cristo mediante la sua Incarnazione, Passione-morte e Risurrezione.

La “Liturgia delle Ore”, infatti, è la preghiera mediante la quale la Chiesa celebra il mistero di Cristo evocandone i vari momenti. Il Figlio di Dio entra nel mondo, nella storia umana, e con la sua presenza “trasfigura” il tempo che da krónos diventa kairós, da tempo cronologico – che tutto inghiotte – diventa tempo di grazia che tutto redime e fa fiorire in eternità. Nella sua struttura essenziale la Liturgia delle Ore è costituita quotidianamente da alcuni “momenti”, alcune sacre “convocazioni”, che fanno ripercorrere nell’arco della giornata tutto il mistero della redenzione. Le Vigilie o Mattutino sono una preghiera raccolta, meditativa, che nasce dal silenzio. Mediante l’ascolto prolungato della Parola e con la salmodia si rievoca la storia della salvezza nelle sue diverse tappe e nello stesso tempo si viene orientati all’attesa del suo pieno compimento. Qualora non sia possibile celebrare quest’ora nel cuore della notte, essa viene allora denominata semplicemente “Ufficio delle letture”, mantenendo ovviamente il suo carattere meditativo, anche se viene a perdere quel valore escatologico di attesa vigilante che la notte in sé racchiude. Le Lodi, da celebrarsi agli albori del giorno nascente, evocano la creazione della luce e la Risurrezione di Cristo. In esse si offrono le primizie della giornata e si riceve la benedizione per il cammino che sta davanti. Terza è l’ora in cui Gesù si avviò al Calvario portando la Croce, ma è soprattutto l’ora in cui, dopo la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo, mandò lo Spirito Santo sugli apostoli radunati in preghiera con Maria, sua Madre. Sesta è l’ora in cui si evoca principalmente il Cristo elevato sulla Croce, mentre all’ora Nona si fa memoria della sua morte. Con l’ora del Vespro, al tramonto del sole, la Chiesa presenta a Dio Padre – in rendimento di grazie – l’offerta della Passione salvifica del Figlio – da lui anticipata nell’Ultima Cena – e unisce ad essa l’offerta di tutti i fedeli: gioie e dolori, fatiche e sollievi della giornata trascorsa. A Compieta, la giornata si chiude raccogliendo tutti i figli di Dio all’ombra delle divine ali paterne; con il saluto filiale alla Madre di Dio e l’ultima benedizione, ci si immerge nel “grande silenzio” –silentium magnum – della notte, che non è “tempo morto”, ma tempo di vigile attesa del nuovo giorno e, ancor più, del Giorno eterno che non avrà più tramonto. La settimana si apre con la domenica, ossia il giorno del Signore, Pasqua settimanale, nel quale si rievoca la Risurrezione di Cristo. Essa è in certo modo preparata i giorni del giovedì, che ha un carattere più fortemente eucaristico in memoria dell’Ultima Cena; del venerdì, in cui si fa memoria della Passione e morte di Cristo, e del sabato che è caratterizzato dalla devozione mariana, in riferimento al Sabato Santo, in cui fu Maria a tenere accesa nel mondo la lampada della speranza nell’attesa fiduciosa dell’alba della risurrezione. L’anno liturgico è poi scandito dai quattro tempi forti – Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua – e dal Tempo Ordinario che è il tempo della testimonianza cristiana, il tempo dell’operosa e paziente attesa che la grazia sovrabbondante dei tempi forti, come seme nascosto in terra e irrigato, porti molto frutto. Nella sua Regola San Benedetto afferma a chiare lettere: Nihil Operi Dei præponatur, nulla si anteponga all’Opera di Dio (RB 43,4). Questo principio, ovviamente, non vale solo per i monaci, ma si addice a tutti i cristiani; anche per essi, infatti, la preghiera deve avere il primato (se non di tempo, certo di importanza) sulle altre attività, poiché proprio da essa trae forza l’autentico servizio di carità e ogni forma di collaborazione all’opera redentrice. Purtroppo per una diffusa “eresia” della nostra società tecnologica, nella quale il “fare” prevale sull’“essere”, l’uomo finisce – consapevolmente o inconsapevolmente – con il sostituirsi a Dio e di conseguenza a non pregare più. È perciò provvidenziale che vi siano luoghi particolari di silenzio e di preghiera: sono i monasteri, quasi oasi nel deserto per la sete delle anime riarse o stelle luminose nella notte del mondo per indicare il giusto orientamento verso la meta. La constatazione che essi sono sempre più ricercati per tempi di ristoro e di “recupero spirituale” è un segno di speranza nei giorni travagliati della nostra umanità. Ma vi è un altro e certo non meno importante motivo che giustifica il “primato” da assegnare all’Opus Dei nella preghiera cristiana. Essa è opera di Dio nel senso reale del termine, poiché Dio opera in chi prega; nella misura in cui l’uomo gli apre il cuore, Dio vi prende dimora attualizzando nell’oggi il mistero della redenzione. Dio e l’uomo ritornano così ad essere collaboratori, come al momento della creazione, prima del peccato. Con la Liturgia delle Ore – che è tutta un tessuto di testi biblici – avviene una specie di “travaso”: il grido nascosto nel cuore dell’uomo, quella preghiera incipiente che egli sempre porta in sé, viene immesso nel grande fiume della storia della salvezza e, viceversa, l’intera storia della salvezza entra nel grido che dal cuore dell’uomo sale a Dio. Avviene perciò che nessuno più è soltanto “un povero filo d’erba assetato” destinato a seccare e a morire; ogni gemito, ogni più impercettibile anelito, ogni desiderio è accolto, sostenuto, ampliato; non è più grido solitario, ma diventa voce in un grande coro. Allo stesso modo, ogni grido, per quanto scomposto possa apparire, per quanto possa talvolta suonare come contestazione a Dio, è in realtà la voce del Cristo che con l’incarnazione ha assunto tutta la povertà umana, tutta l’umana tragedia, conseguenza del peccato, e l’ha redenta trasformandola, sulla Croce, in supplica al Padre. È questa la sempre sconvolgente esperienza che si fa pregando con i Salmi, con questo “libro di preghiere” di cui Dio ha fatto dono all’uomo, affinché a lui si rivolgesse partendo dalla propria esistenza, senza nulla dover escludere o tacere. Attraverso questi canti l’orante abbraccia tutte le umane situazioni e, facendole proprie, si riconosce fratello di ogni uomo, fino a scoprire che, con la propria preghiera, egli non solo presta la voce ad ogni creatura, ma a Cristo stesso, perché è di Lui che i Salmi parlano, è Lui che essi annunziano, è di Lui che fanno intravedere il Volto.

  1. Preghiera e vocazione

Così vissuta, la preghiera diventa sempre più il principio unificatore e santificatore della persona, poiché “educa” a vivere in pienezza la vita spirituale in tutte le sue dimensioni, personale e comunitaria. In quanto sgorga dal profondo del cuore, la preghiera viene sempre attualizzata; anche se continuamente si ripetono le parole del Salterio, ogni volta il salmo è “nuovo”, è un “evento” che accade in quel momento e interpella ciascuno direttamente. La ripetizione, lungi dall’impoverire la preghiera e farla cadere nella monotonia, quasi nell’automatismo senza anima, è la via per penetrare sempre più profondamente nel cuore di Dio, nei suoi pensieri e progetti, e, dunque, anche per scoprire la propria specifica vocazione. «Alimentato da un tale costante nutrimento – scrive nelle sue Conferenze Giovanni Cassiano – ciascuno comincerà a raccogliere in se stesso tutti i sentimenti contenuti nei Salmi e li riesprimerà in modo da enunciarli non come composti dal profeta, ma quasi come prodotti da lui stesso al modo di una preghiera tutta propria, e così egli crederà che i salmi siano stati composti in vista della sua persona, fino a convincersi che le loro sentenze non furono formulate unicamente in passato per mezzo del profeta, ma che esse vengono di volta in volta, ogni giorno, ricreate e realizzate in lui. È allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza e, in certo qual modo, ci aprono le loro vene e le loro viscere» (Conf X,11). Esse ci parlano, ci chiamano. All’inizio di ogni storia personale di vita cristiana, soprattutto di chi riceve una vocazione di speciale consacrazione, c’è generalmente una “parola” che ad un certo punto brilla su tutte le altre, tanto che non la si può più dimenticare, anzi, essa fa rivedere alla sua luce tutto l’orientamento della propria esistenza. Apre davanti una strada, per cui si è interiormente sospinti a partire, non per costrizione, ma per attrazione d’amore. Si ripetono sempre per ciascuno la chiamata e il cammino di Abramo, che avanza nella notte della fede, al bagliore di una Parola, di una promessa in forza della quale, pur non essendogli risparmiata la fatica dell’oscurità, tuttavia gli è dato di intravedere da lontano la meta. Gesù stesso ha riletto l’intera sua missione terrena alla luce della Parola: dall’incarnazione all’inizio della sua vita pubblica, fino alla sua passione, morte e risurrezione, tutto il suo itinerario è avvenuto in conformità a quanto “sta scritto”, come ha fatto ricordare ai discepoli di Emmaus, che si sentivano ardere il cuore mentre spiegava le Scritture (cf Lc 24). La chiamata è un evento che imprime un sigillo nella nostra esistenza e dà senso ad ogni cosa. Si può persino dire che ogni nuovo giorno reca con sé una chiamata, perché in ogni giorno è unicamente dalla Parola e dalla preghiera che si riceve luce e forza per discernere la volontà di Dio e compierla. Ancora significativo, a questo proposito, è l’esempio lasciatoci da Gesù. È soprattutto l’evangelista Luca a sottolineare l’ampio spazio di tempo che Gesù dedicava alla preghiera, nonostante fosse pressato dalle folle desiderose di ascoltare la sua parola o di ottenere da lui guarigione. In alcuni momenti decisivi – come la scelta dei dodici – egli addirittura si sottrae alla folla e trascorre l’intera notte in preghiera per un irrinunciabile bisogno di stare solo con il Padre. Giorno dopo giorno, l’ascolto della Parola e la preghiera rendono luminoso lo sguardo del cuore che diventa capace di intuire le vie di Dio; il cuore dell’uomo, purificato, lascia che lo Spirito Santo in lui interceda secondo i desideri di Dio, secondo la sua volontà che è volontà di salvezza per tutti. È allora che la voce dell’orante non è più soltanto la “sua” voce, ma la voce della Chiesa, la voce della sposa di Cristo. Pur con tutte le sue miserie e debolezze, chi prega – e questo vale per ogni cristiano, ma in particolare per i consacrati – è un “inviato” da Dio, con il preciso compito sia di lodare il Signore per dar gloria al suo Nome, sia di intercedere per i fratelli, dando così testimonianza di autentico spirito cristiano.

  1. Necessità e fecondità della preghiera

Come scrive il beato Columba Marmion, la preghiera che sgorga da un cuore puro e tutto dedito a Dio e ai fratelli sale gradita al Cielo, perché è «l’omaggio di un’anima in cui la fede è viva, la speranza ferma, l’amore ardente […]. È una lode a Dio, il grido dell’anima traboccante di fede e d’amore, che ammira e magnifica le perfezioni divine […], che pensa alla sua gloria e presta alla creazione intera le labbra per cantarlo e il cuore per amarlo. » (Cristo, ideale del monaco, I,XIV). Da quanto si è venuto fin qui dicendo, appare chiaro che la preghiera non solo è necessaria all’uomo quanto il respiro, ma è pure l’espressione più bella e più alta della sua dignità di figlio di Dio. Tuttavia, non ci si può illudere che pregare sia un compito “facile”; al contrario, si incontrano numerosi ostacoli e tentazioni che non sono mai superati una volta per tutte, ma restano sempre in agguato. Per questo la preghiera richiede continua vigilanza e attento discernimento. Una delle più frequenti difficoltà che si sperimenta nella preghiera, soprattutto nella celebrazione della Liturgia delle Ore, è quella delle distrazioni, della mancanza di raccoglimento, per cui alle parole pronunziate non corrisponde il pensiero. San Benedetto nella sua Regola enuncia un principio fondamentale: «Mens nostra concordet voci nostræ» (RB 19,6), ossia nella preghiera il cuore deve essere in accordo con la voce. Si tratta di superare il puro formalismo, la pura esteriorità che fa ripetere le parole meccanicamente senza metterci, appunto, il “cuore”. A tal fine i padri spirituali da sempre hanno indicato alcune fondamentali avvertenze da rispettare per non rischiare di sciupare la preghiera. Scrive ancora il beato Columba Marmion: «Per produrre tanti frutti preziosi, l’Ufficio divino – ma questo vale per la preghiera in generale – deve essere detto bene. Si richiede anzitutto la preparazione del cuore. Se non ci raccogliamo, se lasciamo distrarre la mente, credendo che il fervore ci sorgerà da se stesso nel cuore, ci illudiamo molto. Dobbiamo dunque prepararci alla preghiera». E tale preparazione consiste sostanzialmente nel custodire raccolto il cuore da vane parole, da inutili curiosità, da pensieri cattivi; come pure va custodita l’intera persona da uno stile di vita agitato, disordinato, impulsivo, che nulla ha a che fare con un lavoro sollecito e impegnato. Se da una parte la preghiera trasforma i cuori e dà luce per vivere secondo l’evangelo, d’altra parte una vita permeata di carità e ordinata da una sana ascesi rende più autentica la preghiera.Preghiera e vita santa crescono a poco a poco, sostenendosi a vicenda, nell’intreccio di grazia divina e impegno umano. La “fatica della preghiera” non si riduce a quella delle distrazioni; anzi, questa è forse la più esteriore e anche la più facile da riconoscere e correggere. L’ostacolo principale da superare è certamente quello della cosiddetta “aridità”, del non “sentir niente” o comunque del non sentirsi interiormente in sintonia con le parole dei salmi o delle altre preghiere. Quando ciò accade, per continuare a pregare occorre veramente “rinnegare se stessi” e, per fede, andare al di là di ciò che immediatamente si sente o non si sente. Questo è possibile se si custodisce viva la consapevolezza che non si prega per sé soli, ma per tutti: quel “grido di dolore” o quel “canto di gioia” che il salmo mi propone e che non corrisponde alla mia attuale situazione è “Parola di Dio” che io pronunzio con fede per chi in quella condizione si trova; per loro io chiedo aiuto e esprimo lode e ringraziamento al Signore. In tal senso la preghiera è servizio ed ha la bellezza della pura gratuità. La prova più grande, che prima o poi tutti sperimentano nella preghiera, è però quella del “silenzio di Dio”, quella della preghiera apparentemente inascoltata, non esaudita. Il dubbio che, allora, attanaglia è quello più radicale: «Ma Dio esiste? E se esiste, perché non risponde? E perché pregare, se egli non mi ascolta? Perché non mi vuole?…». «Davanti alle situazioni più difficili e dolorose – dice Papa Benedetto XVI – quando sembra che Dio non senta, non dobbiamo temere di affidare a Lui tutto il peso che portiamo nel nostro cuore, non dobbiamo avere paura di gridare a Lui la nostra sofferenza; dobbiamo essere convinti che Dio è vicino, anche se apparentemente tace» (Catechesi – 8 febbraio 2012). È il momento di credere e sperare contro ogni evidenza, come Abramo, perché – dice ancora il S. Padre – «la forza, che in silenzio e senza clamore cambia il mondo e lo trasforma nel Regno di Dio, è la fede – ed espressione della fede è la preghiera» (Omelia, 21-10-2007). Se non si desiste, ma si persevera, proprio dalla tentazione più grande nasce il frutto più bello, come dal grido di Gesù sulla Croce – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» – è scaturito l’Alleluia pasquale: la vittoria della vita sulla morte, il canto della Risurrezione.