N.05
Settembre/Ottobre 2012
Studi /

L’annuncio della fede nella Chiesa: via alla verità di sè.

L’Anno della fede «sarà occasione propizia perché tutti i fedeli comprendano più profondamente che il fondamento della fede cristiana è “l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”»1. La scelta di indire un Anno della fede cade in un contesto culturale segnato profondamente da una crisi generalizzata che finisce per toccare anche la dimensione religiosa, come «espressione drammatica di una crisi antropologica che ha lasciato l’uomo a se stesso; che per questo si ritrova oggi confuso, solo, in balia di forze di cui non conosce neppure il volto, e senza una meta verso cui destinare la sua esistenza»2.

Una crisi che non ha tuttavia spento la nostalgia di Dio. Se, infatti, le volgarizzazioni del positivismo scientifico e le realizzazioni storiche dei modelli ideologici davano per scontata la morte di Dio, e questa pretesa continua ad affacciarsi nelle recenti proposte divulgative di un certo ateismo postulatorio3, l’esperienza, spesso tragica, dell’oggi risveglia il bisogno dell’incontro liberante col Dio vivo. Ci si rende conto «del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose»4.

A fronte di questo riemergere – anche in forme spurie e contraddittorie – di una ricerca del sacro, non si può, però, ignorare come, anche tra coloro che si professano cristiani, la fede appaia ridotta a piccole parentesi “religiose”, che poco hanno a che fare con l’esistenza e i problemi quotidiani. Semplicemente, appare estranea alla vita: Dio è interessante, certo, ma non è necessario, non è dentro la vita quanto lo sono la famiglia, gli amici, soprattutto gli affetti più cari, il lavoro, la casa, il salario…

Il compito, allora, che ci si apre davanti è quello di mostrare come la fede cristiana sia capace di offrire una visione compiuta dell’uomo e dell’esistenza, nella prospettiva di un’umanità compiuta.

Ciò presuppone la consapevolezza che la fede, intesa come affidarsi, avere fiducia, è, in realtà, una necessità umana5. Non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede6. «Senza fiducia (l’individuo) non riuscirebbe neppure ad alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una paura indeterminata e da un panico paralizzante. […] Se le uniche alternative alla fiducia sono il caos e la paura paralizzante, l’inevitabile conseguenza è che l’uomo, assecondando la propria natura, debba accordare fiducia, seppure non alla cieca e non in ogni circostanza»7. Le stagioni della vita sono segnate da questo atteggiamento fondamentale: ci affidiamo ai genitori nei primi anni; ci affidiamo ad un’altra persona quando scopriamo l’amore; quando accediamo alla pienezza delle relazioni, in quelle più personali e intime come in quelle sociali e pubbliche, dobbiamo fidarci, fare credito, credere a qualcuno. In breve, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro8.

Ma il contesto in cui viviamo sembra soffrire di un deficit di fiducia: le chiusure egoistiche, a livello individuale e comunitario, sono il segno di quella “liquidità”9 di una società che in fondo ha paura ad affidarsi, ad aver fiducia.

Non ci sembra, perciò, del tutto fuori luogo affermare che la crisi della fede che oggi viviamo incomincia dalla crisi dell’atto umano del credere. Recuperare tale capacità di dare fiducia appare, dunque, essenziale.

La fede in Gesù di Nazaret – è il passo ulteriore da compiere – pur conservando la dimensione di fiducia che caratterizza la dimensione umana, va ben oltre: nel suo affidarsi ad un “Altro” rivela all’uomo stesso il significato del suo essere nel mondo, del suo essere in relazione con gli altri.

Il tema della fede si presenta come fattore decisivo per impostare, sviluppare e articolare una visione dell’uomo in grado di comprenderne e dirne la “verità”, prefigurando, così, una nuova umanità solidale10. L’evento Gesù Cristo segna, infatti, l’orizzonte nuovo e decisivo entro il quale ciascun uomo può realizzarsi pienamente. Da questo punto di vista, la dimensione della fede, come risposta dell’uomo a Dio che si rivela in Gesù Cristo (cf DV 5), si manifesta come il “luogo” dell’apparire della “verità” dell’uomo. In Gesù di Nazaret l’uomo prende coscienza della propria natura e della propria condizione, comprendendo, anzitutto, di non essere il frutto del caso, l’ultimo anello di una cieca evoluzione della materia, ma che, pur derivando da un intenso e complesso processo evolutivo, la sua esistenza deriva da un atto libero di amore da parte di Dio. Mediante la fede, l’uomo non solo è inserito nella storia della salvezza, ma ne diventa protagonista, in quanto, proprio nella fede, contempla e gusta il mistero del piano divino e comprende il senso del proprio essere uomo. Essa, infatti, «tutto rischiara di una luce nuova e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane» (GS 11). Sotto questo profilo, la fede non è solo il luogo della rivelazione, ma anche il luogo della relazione con Dio, come relazione costitutiva dell’umano e del suo compimento che, nell’affidarsi fiduciosamente alla libertà infinita di Dio, coglie il senso della sua libertà finita.

Tener conto di questa sottolineatura ci aiuta a superare una visione “intellettualistica” della fede che per anni ha influenzato soprattutto la catechesi; la fede, invece, va compresa sul modello del rapporto interpersonale perché la rivelazione di Dio si fa presente alla persona umana nell’evento-persona Gesù Cristo, la Parola di Dio fatta carne, che è la “verità” di Dio per la “verità” dell’uomo. Qui si gioca la condizione umana nei termini della responsabilità che è propria dell’uomo; qui l’uomo è chiamato a scegliere: rifiutando il suo riconoscersi come creatura corre il rischio di non saper rispondere all’interrogativo fondamentale «da dove vengo?».

È, infatti, in Gesù che l’uomo può giungere alla comprensione della propria condizione di essere vivente in una storia di salvezza e di peccato, per cui – in ogni tempo e in ogni contesto culturale – in Lui scopre il senso ultimo della sua vita personale e comunitaria, il senso della sua origine e della sua fine. «Tramite la fede, l’uomo sperimenta che la vita è più ricca dei desideri, e che si offre in modo ben diverso da quello atteso; comprende che il bene è sempre più grande delle dimensioni del cuore umano e avverte che la sua fondamentale esigenza umana è quella di percepire la dimensione trascendente della vita»11. Per questo la fede accompagna l’uomo in tutte le stagioni del suo vivere e chiede di essere continuamente

ri-compresa, ri-motivata, ri-assunta.

Questa decisione fondamentale comporta «…la consegna personale che l’uomo fa di se stesso, un dire amen a Dio e un fondare senza riserve l’esistenza su di lui. La fede così intesa non è solo atto del pensiero, né solo atto della volontà, ma sequestra tutto l’uomo e tutti i settori della sua realtà. Per questo essa non è solo significativa per la vita personale e privata dell’uomo; essa possiede – allo stesso titolo – una dimensione pubblica e, in quanto tale, una dimensione politica»12. Tale significatività si concretizza soprattutto nel contributo che una vita secondo la fede può dare allo sviluppo di un umanesimo veramente integrale, andando oltre le visioni unidimensionali delle molteplici forme antropologiche che popolano l’odierno panorama culturale. In un’autentica visione della fede, la rivendicazione della libertà e la ricerca del senso, che sono state spesso motivi per negare la possibilità di una relazione con Dio se non la sua stessa esistenza, acquistano, infatti, una luce ed una possibilità nuove per l’uomo di spiegare sé a se stesso.

Dinanzi alla figura di Gesù, l’essere umano si trova non solo di fronte ad una nuova immagine di Dio, ma anche ad una nuova concezione dell’uomo: «Partendo da Gesù Cristo l’uomo conosce, infatti, dei valori e dei significati che non può astrarre dalla sua precomprensione umana, ma può unicamente “ricevere” e lasciarsi da essi compenetrare. Conformemente a questa duplice esigenza possiamo vedere come il messaggio di Gesù si intrecci con le domande dell’uomo»13.

In quanto dimensione che coinvolge tutta la persona, la fede è insieme un atto di intelligenza e di libertà. Intelligenza e libertà che richiedono all’uomo la costante coscienza del suo credere e la ricerca dei motivi di tale scelta, «perché la “comprensione” della verità della rivelazione richiede da parte del soggetto umano un’opzione esistenziale mediante la quale egli si impegna in un comportamento di vita e in una pratica della fede, fatte di obbedienza e fedeltà ad essa in quanto in essa scopre la forma della realizzazione umana compiuta»14. E la fede diventa vita, perché l’adesione a Gesù si traduce in una prassi che modifica l’esistenza di ogni credente, ponendolo in «un cammino sempre nuovo capace di leggere in tutto ciò che è umano e storico la presenza di Dio, di discernere ciò che nel mondo e nell’uomo si oppone al compimento dell’umanità in Dio, di farsi segno credibile dell’esistenza umana riconciliata in Gesù Cristo, crocifisso e risorto, nel quale ogni uomo realizza la pienezza della sua umanità»15.

 

  1. La fede come cammino di libertà

Essere credenti significa, dunque, essere alla sequela di Gesù, aderire alla sua persona, accettare fino in fondo di vivere la vita che lui stesso ha vissuto. E al cuore della sua vita sta la libertà, che è condizione di umanizzazione della nostra esistenza. Gesù vive la libertà nei confronti dei legami familiari, delle convenzioni sociali, sceglie una vita celibataria contraria alla mentalità dominante, dà vita a una comunità itinerante in cui anche ai suoi discepoli chiede analoga libertà. Gesù mostra questo atteggiamento in diversi contesti e situazioni: nei confronti dei gruppi religiosi dell’epoca, entrando in contrasto con loro quando usano il Nome di Dio per disumanizzare l’uomo, facendo della religione uno strumento di potere; quando si adira per la durezza di cuore dei suoi interlocutori che non sanno cogliere il suo gesto terapeutico (ha guarito in giorno di sabato un uomo che aveva una mano paralizzata) come vero adempimento del senso del sabato; oppure nel momento in cui opera la distinzione tra il comandamento di Dio e la tradizione degli uomini, e denuncia la disumanità e 1’ipocrisia di chi si sottraeva all’obbligo di aiutare i propri genitori consacrando le proprie ricchezze a Dio: finzione legale grazie alla quale la persona restava proprietaria dei suoi beni; o quando mette in primo piano il bisogno dell’uomo, la sua fame, che può consentire e rendere lecito ciò che certe tradizioni religiose volevano vietare in giorno di sabato, come il gesto di strappare spighe per nutrirsi dei chicchi di grano.

Gesù manifesterà inoltre la sua libertà di fronte al potere politico, ma anche rispetto ai discepoli, che pure ama, redarguendoli quando assumono tratti di disumanità, di ricerca di privilegi, di potere…

Al cuore dell’umanità della fede c’è, dunque, la libertà, tratto decisivo dell’”umanità” dell’uomo.

Ora, la libertà cristiana, che ci chiede di accogliere liberamente il Vangelo e di«obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29), perché possa essere vissuta chiede di “diventare lievito” dentro la vita. Assumere la libertà evangelica significa avviare in noi un cammino umanissimo di libertà che si realizza mettendo a frutto le lezioni delle esperienze vissute e la conoscenza che viene dagli errori; affrontando con coraggio i rischi e le incertezze; compiendo scelte, ma sapendo anche modificarle e purificarle; pensando con la propria testa, affrontando le difficoltà, le messe all’indice e gli anatemi; mostrandosi aperti al nuovo, all’inedito, allo sconosciuto; problematizzando senza mai dare nulla per scontato…

Questo cammino è necessario per creare le premesse di una vera libertà, sia sotto il profilo semplicemente umano che dal punto di vista cristiano. Possiamo ben dire, allora, che la fede, per essere eloquente nell’oggi, deve saper orientare l’umano ed essere innestata su di esso. In certo modo – e non vi è alcun minimalismo in questa affermazione – il cristianesimo deve sapersi riscoprire come arte di vivere, e proprio nella sua capacità di ispirare e suscitare vita potrebbe trovare forza ed eloquenza rinnovate.

 

  1. La fede come cammino del senso

Come i discepoli hanno dato un senso radicale alla loro vita, dopo aver visto l’umanità di Gesù, dopo aver ascoltato le sue umane parole, dopo essere stati testimoni dei suoi gesti di guarigione e di compassione e dopo averlo riconosciuto come risorto, così ogni credente può saziare la sete di senso che abita il suo cuore ponendosi alla sequela del Signore.

Parlare della fede come cammino del senso vuol dire che la fede si apre alle dimensioni umanissime del senso stesso e cerca di illuminarlo col suo riferimento fondante e basilare a Cristo. Dicendo senso intendiamo significato, cioè ricerca dei motivi, del “perché” delle cose, che porta a comprendere il reale; ma anche orientamento, direzione, cioè ricerca del come camminare e del fine verso cui dirigersi; implica dunque il livello dell’etica (il come), ma anche del destino della vita, dell’orientamento dell’intera esistenza, dei fini ultimi; infine senso ha a che fare con il gusto, dunque con i sensi e rinvia alla dimensione estetica, della bellezza, essenziale per far respirare l’uomo a pieni polmoni e umanizzarlo pienamente.

L’adesione ad una vita di fede non esime, tuttavia, da fatiche, interrogativi, dubbi. La fede non è una corazza fatta di certezze, né un sistema di sicurezze: «Il credente esercita la sua fede sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio: questo oceano dell’incertezza è il solo luogo in cui egli possa esercitare la fede» (J. Ratzinger). La fede è, costitutivamente, anche rischio. Rischio che si può accettare di correre se “contagiati” dalla forza dell’esempio, della testimonianza…

Nel momento, infatti, in cui si mostrano assolutamente allergici ad imposizioni autoritarie su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che si deve e non si deve fare, gli uomini, particolarmente quelli di oggi, si mostrano sensibili all’incontro con quanti si rivelino testimoni credibili, persone che con autorevolezza diano prova di un senso possibile perché esse stesse lo incarnano, nella loro esistenza e nelle loro relazioni.

Già, relazioni! Senza relazioni, senza comunità, l’uomo non è tale.

E allora l’umanità e la credibilità della fede si giocano sulla capacità dei credenti di creare comunità, di dare vita a spazi umani condivisi, a relazioni incentrate sul Vangelo. Sappiamo bene, però, che la crisi della comunità, a livello sociale, politico, familiare, investe anche la Chiesa. Solo la comunità cristiana con il suo fondamento trinitario e cristologico, e con tutti i suoi contenuti antropologici, può immettere nell’oggi la fecondità del Vangelo e può trasmettere senso.

Un rinnovato annuncio della fede diventa allora un rinnovato annuncio sulla Chiesa e il suo saper tradurre nell’oggi storico il messaggio della Parola eterna di Dio. È solo attraverso comunità cristiane veramente profetiche che può essere offerta all’uomo di oggi la testimonianza concreta di vite vissute secondo la fede. Comunità che siano luoghi in cui si vive realmente il primato della Parola di Dio e avviene realmente un incontro fraterno: «comunità alternative» in cui si sperimentano valori profondi, anche in contrasto con ciò che si respira quotidianamente nel mondo. Luoghi che, in una società connotata da relazioni fragili e di tipo consumistico, esprimano la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. Comunità la cui quotidianità sappia dire che un modo di vita “altro” è possibile, che la concorrenzialità e l’individualismo, il carrierismo e la denigrazione dell’avversario, il cinismo e 1’assolutizzazione dell’interesse particolare non sono le uniche strade percorribili, ma che la felicità e la realizzazione della persona si nutrono piuttosto di ascolto, accoglienza, solidarietà, perdono, gratuità, servizio, carità, reciprocità, attesa dei tempi dell’altro… Comunità profetiche, capaci cioè di essere segno, di aprire futuro, di suscitare orizzonti di vivibilità, di creare speranza, in una parola, di dare senso.

 

  1. Ri-dire la fede oggi

Ma come portare agli uomini d’oggi questo messaggio? La nuova evangelizzazione «richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio […] (e) dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza…»16. È chiaro, nelle parole di Benedetto XVI, il riferimento alla questione del linguaggio e delle categorie con le quali noi abitualmente evangelizziamo.

Il problema è palesemente di ordine culturale; le sue radici albergano cioè nel rapporto che il cristianesimo intreccia – e non potrebbe non farlo – con le istanze maggiori della sensibilità diffusa. La fede non si presenta mai sulla scena della storia nella sua purezza evangelica, ma sempre attraverso mediazioni di tipo culturale che ne rendono possibile la comprensione agli uomini e alle donne di tempi e di spazi di volta in volta differenti. È il lavoro mai concluso dell’inculturazione della fede, vera base di ogni suo annuncio. Ebbene, a uno sguardo profondo e attento al nostro tempo, non sfuggirà la constatazione che la grande inculturazione del Vangelo operata dai Padri della Chiesa, tra il IV e il V secolo dell’era cristiana, risulta oggi – molto più che in passato – meno efficace a causa della radicalità dei cambiamenti che hanno interessato il modo di vivere e di pensare dei tempi che stiamo vivendo.

Le parole-chiave che permettevano all’uomo comune di abitare il mondo e di assegnargli un senso globale non assolvono più alla loro funzione. Categorie come eternità, verità, sostanza, sacrificio, autorità… che avevano assicurato nel passato la plausibilità della fede cristiana e che avevano permesso di cogliere l’incremento di vita che essa porta con sé, oggi sembrano diventate incomprensibili, sostituite da quelle prodotte dalla cultura dominante.

Tale consapevolezza, unita alla coscienza del valore umanizzante della fede, suona come “pro-vocazione” forte a che si imbocchino con determinazione nuove vie per proporre all’uomo di oggi – nello

spaesamento che lo connota – la bellezza e la grandezza della novità cristiana.

 

  1. Un approfondimento per concludere

In quest’ottica, anche in relazione alla natura e alla finalità della Rivista che ospita queste riflessioni, non sembra inopportuno fermare l’attenzione conclusiva su quell’aspetto essenziale dell’annuncio “come via alla verità di sé” che è la vocazione.

Appare evidente come nel linguaggio comune il discorso sulla vocazione venga spesso associato, senza nessuna mediazione, al “fare la volontà di Dio”, giungendo, a volte, ad una concezione un po’ caricaturale di questa realtà. Secondo la rivelazione biblica la volontà di Dio non è qualcosa di statico, di prestabilito ab aeterno, di predeterminato, che l’uomo deve scoprire in modo più o meno fortunoso e a seguito di una ricerca presumibilmente assai angosciosa; non è qualcosa che dall’alto cade sull’uomo: questo sarebbe il gioco di un Dio sadico, irresponsabile. Ma cosa vuole veramente il Dio biblico? Innanzitutto, che la creatura viva, che accolga la vita come vocazione, l’umano come compito da realizzare, e che viva stando in quello spazio di libertà dialogica e di responsabilità in cui Egli stesso 1’ha posta.

La vocazione che viene da Dio implica il compito di realizzare 1’unicità del proprio volto e del proprio nome. E la vocazione cristiana inscritta nel battesimo chiede all’uomo di realizzare la propria umanità “in Cristo”.

 

La vocazione, poi, non è un già-dato, una “collocazione” stabilita dagli inaccessibili e imperscrutabili disegni divini e destinata alla creatura, la quale dovrebbe trovarla in una logica da “gratta e vinci” o scoprirla quasi per magia. Si pensi, ad esempio, al peso accordato ai “segni” da parte di tanti, soprattutto giovani, che sono alla ricerca della propria vocazione, della scelta “giusta e secondo Dio” da compiere: si ricerca un elemento che si impone e che, con 1’oggettività di ciò che è esterno e viene (verrebbe!) da Dio, indica la scelta da intraprendere. In realtà si tratta sempre di elementi che il soggetto interpreta come segno e cui accorda un certo senso piuttosto che un altro. Questo modo di intendere la volontà di Dio e la vocazione è deresponsabilizzante per il soggetto ed estranea al Vangelo: il Dio cristiano non ha nulla a che vedere con il fato pagano o con il caso. Anzi, il Dio rivelato da Gesù Cristo vuole la felicità dell’uomo, una felicità trovata nell’amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa accettare anche le sofferenze e le tribolazioni.

Il teologo protestante Bonhoeffer, commentando le esortazioni paoline sul discernimento, sostiene che esse correggono radicalmente l’idea secondo cui la conoscenza semplice della volontà di Dio debba avvenire sotto forma di intuizione, prescindendo da ogni riflessione e attenendosi ingenuamente al primo pensiero o sentimento che si presenti alla mente. La volontà di Dio non è un sistema di norme stabilito una volta per tutte, ma è sempre nuova e diversa nelle diverse situazioni, perciò bisogna sempre di nuovo cercare quale essa sia. Una ricerca che noi chiamiamo “discernimento”; azione «(in cui) devono collaborare tra loro il cuore, la mente, l’osservazione e l’esperienza. […] Tale discernimento della volontà di Dio è una cosa tanto seria»17.

La volontà di Dio è un evento dinamico che scaturisce dall’incontro tra le esigenze del Vangelo e le caratteristiche della singola persona. Lì avviene la volontà di Dio, lì essa prende forma quale evento spirituale. È importante, perciò, correggere le maldestre interpretazioni della volontà di Dio che possono danneggiare una relazione di accompagnamento spirituale producendo atteggiamenti nevrotici e angosciati in chi è in ricerca, chiudendolo all’interno di una religione del dovere o assoggettandolo a giochi di potere da parte dell’accompagnatore.

La volontà di Dio è un’offerta che libera la nostra umanità, è una proposta di libertà. Gesù si rivolge ai suoi interlocutori dicendo loro: «Se vuoi», suscitando quindi la libertà della persona. Gesù chiama anche con forza e autorevolezza, ma non dice mai: «Tu devi!», non esime mai dal rischio della libertà e dalla fatica della responsabilità. E ciò è talmente vero che i Vangeli ci trasmettono casi di persone che, magari al prezzo della propria tristezza, hanno opposto un rifiuto alla chiamata di Gesù (cf Mc 10,17-22). Gesù non si è mai imposto agli altri; al contrario, ha creato spazi, ha aperto possibilità, ha offerto senso, ha dischiuso un cammino, ha acceso una Luce, ha indicato una possibile direzione. Perché l’obbedienza gradita a Dio è quella dell’uomo libero: solo chi è libero può obbedire e fare della propria libertà un’offerta!

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