N.05
Settembre/Ottobre 2012
Studi /

Fede e inquietudine nella Bibbia

Nell’oracolo isaiano su Duma si legge: «Oracolo su Duma. Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”. La sentinella risponde: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12). L’immagine della «sentinella nella notte» aiuta a cogliere la dinamica della fede e dell’inquietudine attestata in numerosi racconti biblici. La “notte” che quotidianamente ritorna nel ciclo cosmico rappresenta l’incapacità dell’uomo di conoscere e di controllare pienamente la realtà del creato e le stesse relazioni interpersonali. Essa genera inquietudine, produce domande, offre occasione per pensare “oltre” le possibilità dell’uomo e della sua limitata condizione storica. Da parte sua, la sentinella ha il compito di vegliare sulla sicurezza del suo popolo contro possibili nemici e di annunciare l’arrivo del mattino.

Nella dialettica tra inquietudine e fede si colloca il ruolo del profeta, che proclama la Parola “divina” tra indifferenze e durezze. Egli non deve stancarsi di ripetere l’invito a credere in Dio in vista della salvezza: «Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,12). La dialettica fede/inquietudine ci aiuta a cogliere la ricchezza del messaggio biblico, di cui offriamo un breve itinerario.

 

  1. ’Adam: la fede come relazione

Nei racconti delle origini la presentazione di ’adam (= uomo) è collocata all’interno di una rete di relazioni che implicano la fiducia verso Dio, l’essere umano e l’intero creato1. Si possono distinguere tre relazioni attraverso le quali si manifesta la fede dell’uomo: a) la relazione con Dio–creatore; b) la relazione con il mondo creato; c) la relazione con Eva.

 

  1. a) Nella prima relazione si afferma la realtà dell’essere “immagine e somiglianza” di Dio. Si tratta di una caratteristica unica che non si trova nei modelli narrativi dell’antichità. Nella sua essenzialità il racconto presenta ’adam come una “creatura libera” che è in relazione costante ed essenziale con Dio. Il racconto biblico presenta la natura umana, strutturata fin dall’origine in una relazione «religiosa», senza dualismi né precomprensioni immanentistiche. Dopo aver descritto il “composto” somatico-spirituale dell’essere creato e l’ambiente vitale che permette lo sviluppo dell’esistenza (il simbolo del “giardino”), il narratore introduce il dialogo del Creatore con Adamo con cui si apre la relazione: si tratta del divieto di mangiare dell’«albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,16-17). La percezione della propria autonomia nasce dall’esperienza del limite, dalla scoperta dell’alterità, dall’incontro con «colui che è di fronte». ’Adam comprende di essere chiamato alla vita in una relazione di obbedienza di fronte al volere del Creatore. In questa precisa distinzione si colloca lo “spazio di libertà” dell’uomo e del suo progetto di realizzazione.

 

  1. b) La seconda relazione, che concerne il rapporto con il mondo creato, è introdotta dal motivo della “solitudine”, che il Signore intende risolvere mediante la creazione degli animali (cf Gen 2,18-20). Dio pone l’uomo in una creazione bella e buona (Gen 2,9) per coltivarla e custodirla. Presentandogli gli animali Dio vuole che Adamo esprima la sua sovranità su di essi, dando loro il nome (cf Gen 1,28-29). In tal modo si richiama l’idea che la natura non deve essere divinizzata, ma dominata, assoggettata. Allargando la prospettiva della relazione con il cosmo si coglie la responsabilità di conservare e trasformare il mondo mediante l’opera del lavoro umano. Nell’atto creativo l’essere umano (maschio e femmina) non riceve un ordine, ma una benedizione: la specie umana si moltiplicherà dando origine ad altri popoli e riempirà la terra, esercitando su di essa il governo (cf Gen 1,28).

 

  1. c) La terza relazione riguarda la relazione con Eva e più in generale la dimensione sociale e affettiva dell’essere umano. Nei racconti genesiaci la donna come l’uomo costituisce la riproduzione vivente dell’immagine e della somiglianza con Dio (cf Gen 1,27). Le immagini evocate nel racconto di Gen 2,22-24 sottolineano come la bipolarità sessuale è parte essenziale dell’essere umano. Come tale l’uomo e la donna sono stati creati per relazionarsi in perfetta uguaglianza di dignità e di natura. Per completarsi e integrarsi l’uomo e la donna hanno bisogno l’uno dell’altra. La differenza fondamentale dei sessi è a un tempo il tipo e la fonte della vita in società, fondata non sulla forza ma sull’amore. Dio intende questa relazione come un “aiuto reciproco”. L’uomo, riconoscendo nella donna, che Dio gli ha presentato, l’espressione di se stesso, si apre all’amore realizzandosi mediante il dono di sé all’altro. Nella dinamica della comunione nuziale si compie anche il cammino della fede.

 

  1. Abramo: la fede come obbedienza

La figura di Abramo è così fondamentale nella narrazione biblica da costituire una svolta decisiva per la stessa storia dell’umanità. Essa pone fine ad un progressivo allontanarsi dell’uomo da Dio e segna l’inizio del suo ritorno al Signore. Con l’umile sottomissione di Abramo e dei patriarchi a Dio, la storia della disobbedienza e della maledizione, iniziata nel giardino in Eden (cf Gen 3,17), si muta in storia dell’obbedienza e della benedizione (cf Gen 12,1-3)2. Il racconto genesiaco del primo patriarca esalta la dimensione misterica della fede. L’essere umano di fronte all’appello imprevedibile di Dio risponde con un’obbedienza assoluta ed incondizionata. Con la sua parola creatrice Dio irrompe nella vita di questo arameo errante e lo trasforma da politeista in monoteista, per fare di lui il padre di tutti i credenti (cf Rm 4,11-12). Con Abram si inaugura una modalità nuova nel dialogo di amicizia di Dio con l’umanità. Dio vuole aiutare l’uomo a entrare in se stesso, per meglio comprendere il disegno inscritto nella sua stessa natura attraverso una serie di interventi, che lo illuminano e lo sospingono ad agire in quella direzione. Scelto da Dio con una sua libera e gratuita iniziativa, Abram viene da Lui mandato ad adempiere un compito preciso: quello di aprirsi ad una paternità universale3.

Ripercorrendo l’intero ciclo narrativo (cf Gen 11,27-25,11) si comprende come credere per Abram rappresenti un “salto di qualità” che implica fatica, audacia, abbandono di sé nelle mani di Colui che lo chiama. Abram, il cui nome sarà trasformato in Abramo (cf Gen 17,5), è l’uomo che vive la fatica di credere soprattutto nel mistero della sua paternità e della maternità di Sara sua moglie (a cui Dio cambia il nome, da Sarai a Sara, cf Gen 17,15). In modo particolare Abramo deve fare i conti con il limite del tempo: la sua fede non consiste nel fare, ma nel saper attendere. La fede di Abramo non è conquista, ma “resa” al progetto di Dio. La vicenda vocazionale del patriarca si manifesta in tutta la sua paradossalità: uscire dal proprio paese per una nuova terra che gli è straniera, costruire una nuova relazione con gli abitanti di Canaan, riorganizzare la propria vita e quella della sua famiglia secondo il volere di Dio: per Abramo credere significa “ricominciare”. Il racconto biblico fa emergere la condizione umana di Abramo di fronte ad un progetto più grande. In questo senso Abramo è modello per eccellenza della fede4.

 

  1. Mosè: la fede come esodo

La rilevanza di Mosè domina non solo il filo narrativo del Pentateuco, ma viene rievocata ampiamente nei Salmi e nei libri profetici5. A differenza di Abramo, che obbedì a Dio in modo incondizionato, la figura mosaica testimonia un processo di maturazione lento e ambivalente, contrassegnato da debolezze, da ribellioni e da confessioni di fede. Mosè vive un “esodo dentro l’esodo” e la sua condizione di perseguitato lo accompagnerà lungo l’intero arco della sua esistenza. Considerando il filo narrativo che percorre l’epopea della liberazione, del deserto e dell’alleanza, va sottolineata l’ambivalenza dell’esperienza esistenziale del profeta-liberatore. All’inizio Mosè è l’uomo che confida in se stesso e che sperimenta l’incostanza e la debolezza della fede. In questa “incredulità” si genera l’insicurezza e la radice di ogni resistenza. Mosè è il liberatore, lo strumento mediante cui Jhwh realizza l’evento fondamentale dell’esodo, che fonda la nascita d’Israele. Egli si staglia in tutta la sua potenza nel prodigioso passaggio del Mar Rosso. Egli è il primo a passare dalla paura alla fede perché gli Israeliti possano approdare alla sponda della libertà e credere «in Jhwh e nel suo servo Mosé» (Es 14,13.31). La tradizione biblica attribuisce all’eroe dell’esodo la funzione di “legislatore e di giudice”. Mosè è il legislatore, perché al Sinai egli comunica e «trascrive» le leggi che Dio stesso ha scritto e ordinato (Es 24,4.12; 31,18; 32,16: 34,1) ed è la sua autorità a garantire l’intera legislazione e la sua legittima interpretazione (Dt 4,2; 13,1), fonte di vita per Israele (Sir 45,1-5). Con la forza della preghiera (Es 17,8-15) Mosè può vincere ogni ostilità insormontabile e donare speranza ai figli d’Israele che vagano nel deserto. Egli è l’intercessore che sostiene sia i diritti di Dio sia le suppliche del popolo. In definitiva, il pastore che guida il popolo verso la libertà è definito dalla tradizione biblica l’amico di Dio, capace di rifletterne la Gloria in mezzo al suo popolo. Per questo viene presentato come il confidente di Jhwh (cf 1Re 8,56; Sal 103,7; Gv 9,29). È questa esperienza intima che trasfigura il volto di Mosè (Es 34,29-35), come anticipo della gloria divina che inabiterà Israele. In modo analogo alla nascita anche la morte di Mosè è speciale. Secondo la tradizione biblica, Mosè non entra nella terra promessa a causa di una mancanza di fede o trasgressione che resta enigmatica (cf Nm 20,12; 27,14; Dt 3,26). A lui è concesso solo la possibilità di intravederla, dall’altra parte del Giordano (cf Dt 34,1-4). Il fatto che egli muoia fuori dalla terra promessa, ridimensiona la mèta, per mettere l’accento sul suo rapporto con Dio, che è la vera terra.

 

  1. Giobbe: l’inquietudine della fede

Nella nota vicenda del giusto Giobbe si cela la storia di “ogni uomo” posto nel crocevia del dolore, dell’oscurità, del dubbio di fede6. In Giobbe l’uomo sperimenta il silenzio di Dio e l’inquietudine della ricerca, il desiderio di riscoprire il vero volto di Dio rifiutando tutte le spiegazioni consolatorie. Il silenzio si trasforma in misteriosa parola, il vaniloquio dei consolatori di Giobbe si spegne, appare finalmente il volto di Dio, la vera meta a cui Giobbe voleva giungere. Il terreno minato del male si rivela fecondo lasciando trasparire Dio. Giobbe fotografa la questione più acuta della ricerca della fede: il dramma dell’uomo in conflitto con Dio e immerso nel dolore. Egli è un giusto che soffre ogni forma di dolore fisico e spirituale e, soprattutto, l’apparente abbandono di Dio. Nel quadro narrativo del libro, egli è messo alla prova da Satana per una scommessa con Dio. Questi, infatti, davanti al Signore ne aveva contestato la giustizia: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?… Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 1,9-11). Il Signore acconsente a provare Giobbe per dimostrarne la giustizia; la sofferenza ha quindi carattere di prova. Il male e il dolore che ricadono su di lui sono stati decisi da Dio. Si comprende come il cammino della fede passa attraverso la prova della sofferenza. Nel corso del libro viene posta in evidenza la fede di Giobbe. La sua fiducia estrema ci dimostra che anche la prova, pur oscura e dolorosa, va interpretata nel piano d’amore di Dio. L’amore per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che dona e toglie senza mai abbandonare. Nel gioco delle due libertà, quella umana e quella divina, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato.

La ricerca di fede compiuta da Giobbe percorre sentieri diversi. Inizialmente la sua protesta è quella sul male del vivere, scandita nel monologo dal «Perché…?» (Gb 3,11.12.20), in una straziante maledizione della vita. Dio, amici, vita sono visti come forze avversarie che costringono il sofferente a una continua lotta e difesa. L’eccesso di dolore si rivolge anche verso Dio, che trafigge l’uomo senza pietà (cf Gb 16,13-14). La vita stessa è maledetta e la morte sembra l’unico spiraglio liberatore. Col vuoto totale che il dolore gli ha creato intorno, Giobbe vuole soltanto che Dio, almeno alla fine della sua vita, si riveli come difensore pronto a intervenire (Gb 19,1-29), per pronunciare una parola giudicatrice e liberatrice, a riconoscimento estremo della sua innocenza. Dopo il lungo dialogo con i suoi amici, alla fine l’Onnipotente accoglie la sfida del sofferente. Nella cornice di una tempesta, dopo l’intermezzo di Elihu (Gb 32-37), Dio accetta il dialogo, dando così una svolta alla teologia corrente del sofferente sempre peccatore. Egli pronuncia due discorsi dai quali emerge il mondo delle meraviglie cosmiche, ma anche la sfera delle energie negative caotiche e dei misteri della storia, personificate simbolicamente dal Behemot e dal Leviatan (Gb 40,15-41,26). Giobbe è come un pellegrino stupito di fronte a questi misteri, mentre Dio li percorre totalmente con la sua signoria7. La soluzione proposta dal libro non è destinata a cancellare lo scandalo del male e della sofferenza innocente, ma a maturare il cammino della fede. In ascolto obbediente della parola dell’Altissimo Giobbe comprende come la sua ragione rimane limitata ed umana. Esiste un progetto superiore di Dio, infinitamente più completo degli schemi umani, capace di collocare tutta la realtà al suo interno. Dall’abisso della sofferenza l’uomo può aprirsi alla luce della verità e della fede nel Dio provvidente. L’esistenza umana cammina tra incredulità e fede e l’esperienza di Giobbe ne è la prova.

 

  1. Maria di Nazaret: la beatitudine della fede

Il nostro itinerario culmina con la figura di Maria di Nazaret. La sua presentazione riveste un’importanza notevole per la riflessione sulla fede. Maria è colei che ha adempiuto le parole del Signore nella risposta piena e generosa alla volontà divina. È lei la donna che all’annuncio dell’Angelo ha saputo rispondere con coraggio: «Ecco la serva del Signore» (Lc 1,38). A Cana di Galilea affida agli uomini il comando prezioso, ma impegnativo, di seguire il Figlio: «Qualunque cosa vi dirà, fatela!» (Gv 2,5). È lei che ai piedi della croce, per il testamento d’amore del Figlio di Dio, estende la sua maternità a tutti gli uomini. In Maria si rende visibile il modello femminile di donna credente da imitare e da seguire8. In primo luogo troviamo Maria a Nazaret, piccolo villaggio della Palestina, quando Dio inviò l’arcangelo Gabriele ad annunciarle l’incarnazione del suo Figlio nel suo grembo verginale (Lc 1,26-38). La ritroviamo in cammino verso la cugina Elisabetta dove mostra il suo grande, ma nello stesso tempo umile, spirito di servizio e dove viene esaltata per la sua fede come «benedetta fra tutte le donne» (Lc 1,39-56). La incontriamo accanto a Giuseppe che è titubante per quanto accaduto (Mt 1,18-25) e in cammino verso Betlemme dove avverranno per lei i giorni del parto. A Betlemme darà alla luce il figlio e riceverà l’omaggio dei pastori e dei Magi (Lc 2,1-21; Mt 2,1-13). La vediamo nel presentare il figlio al tempio dove rimane turbata, ma sempre fiduciosa in Dio, per la profezia del santo vecchio Simeone (Lc 2,22-38). La notiamo preoccupata per lo smarrimento del figlio a Gerusalemme (Lc 2,41-52). In questi avvenimenti e in tutta la sua vita accanto al figlio, Maria «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). I Vangeli lasciano intendere come Maria avesse trascorso la sua esistenza nella quotidianità della famiglia a Nazaret (Lc 2,39-40), vivendo nella piccolezza e nella semplicità la sua fede. All’inizio della vita pubblica di Gesù Maria è a Cana di Galilea (cf Gv 2,1-12) e nel “seguito” del Figlio (cf Lc 8,19-21; Mt 12,46; Mc 3,31-35). I testi circa i parenti di Gesù vanno ben oltre la situazione familiare, infatti gli episodi vengono riferiti per un insegnamento fondamentale ovvero quello della necessità di diventare discepoli. In questa prospettiva anche Maria acquista la vera fisionomia evangelica e trova il suo posto tra coloro che siedono attorno al Maestro e ne ascoltano la Parola9. Ritroveremo Maria nei giorni dolorosi della passione e morte del figlio (cf Gv 19,25-30). Infine la troviamo insieme ad alcune donne e agli apostoli, raccolti dopo l’ascensione di Gesù a Gerusalemme «al piano superiore dove abitavano» (At 1,12). Con la madre di Gesù gli apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera» (At 1,14). Alla luce della rivelazione biblica, Maria viene presentata come l’immagine del popolo dell’antica alleanza, ossia Israele, e, nello stesso tempo, del popolo della nuova alleanza, ossia la Chiesa.

La rilettura unitaria della figura mariana nel quadro dei racconti evangelici consente di proporre alcune prospettive che intersecano il motivo della fede. Ne segnaliamo quattro:

– Il dono divino di essere “vergine” e “madre” colloca Maria all’interno della tradizione teologica delle donne “sterili” che per opera dell’Onnipotente sono divenute “madri” in virtù di un misterioso progetto di Dio ed hanno così sperimentato nella loro vita come l’umiliazione e la povertà si sono tramutate, per opera della fede, in innalzamento e fecondità.

– In secondo luogo Maria, designandosi come «serva del Signore» di fronte all’invito dell’angelo (Lc 1,38), partecipa come tale al ruolo salvifico del Figlio-servo e si pone come rappresentante dei “poveri” (‘anawîm) e dei perseguitati, figlia della comunità messianica derivata dal “resto di Israele” in attesa della salvezza futura. Così l’accezione di “serva del Signore” racchiude come in una definizione sintetica l’essenza della missione della Vergine, rappresentativa della comunità israelitica fedele alle promesse di Jhwh che rimane in attesa dell’opera divina.

– Un terzo aspetto è determinato dalla dimensione della preghiera, che in Maria unisce non solo la condizione orante delle donne dell’Antico Testamento, ma più in generale rivela la spiritualità degli umili di Israele e di coloro che attendono il compimento della giustizia finale. Tale modello di preghiera “umile” si associa alla stessa preghiera del Cristo e diventa elemento di unità e fonte di santità per la comunità primitiva (At 1,14).

– Infine i racconti evangelici pongono in evidenza la centralità della fede di Maria, la totale disponibilità all’accoglienza della Parola e la dimensione vocazionale e missionaria della sua esistenza di credente. Per tale ragione la Vergine diviene “discepola” del suo Figlio e ne condivide il destino, assumendo la radicalità del distacco evangelico e della rinuncia ai beni nella prospettiva della comunione e della missione della Chiesa, di cui diviene madre (Gv 19,25-27). In definitiva l’intera esistenza di Maria descrive la beatitudine della fede10.

 

Conclusione

Abbandonarsi alla provvidenza divina, mettersi in cammino obbedendo alla Parola di Dio, vivere l’esodo con la consapevolezza che è Dio a liberare il suo popolo, interpretare la sofferenza come la prova che matura la fede dell’uomo e gli permette di incontrare Dio. La scoperta della fede implica il necessario passaggio attraverso la notte.

La forza simbolica della “sentinella” evocata nella predicazione profetica aiuta a cogliere la dialettica tra fede e incredulità. I racconti di vocazione e di sequela presenti nei Vangeli confermano questa interpretazione: la “poca fede” dei discepoli diventa una condizione iniziale per accogliere l’annuncio della salvezza11. In Maria di Nazaret la fede diventa testimonianza ed esempio di come l’uomo può incontrare Dio e obbedire alla sua Parola. È nella logica di tale accoglienza che la dialettica tra incredulità deve essere interpretata e vissuta.