N.06
Novembre/Dicembre 2012
Studi /

Uscire dal tempio: una nuova passione per la polis

La polis, la città, oggi vive una crisi profonda. Una crisi di natura sociale, ma soprattutto di natura culturale e spirituale. Per fissarla con un’immagine, potremmo dire che hanno perso il loro significato i tre luoghi-simbolo, intorno ai quali la città è nata e si è costruita nel tempo e dai quali traeva alimento fino a non molti anni fa: la Piazza, che è sempre stato il luogo per eccellenza della vita sociale e delle relazioni interpersonali degli abitanti; il Palazzo di Città, cuore pulsante della vita amministrativa e politica; la Cattedrale, segno e culla dell’unità spirituale della popolazione. Ebbene, oggi questi simboli si sono offuscati. La città ha perso l’anima. Nasce da qui la nostra domanda: quale contributo la Chiesa e i cristiani possono dare al superamento della difficile crisi in cui versa la polis?1.

Per rispondere, ci sembra necessario fare tre riflessioni: 1) anzitutto, bisogna prendere coscienza della complessità della crisi della città; 2) in secondo luogo, occorre impegnarsi, con tutti i cittadini di buona volontà, in un lavoro di rianimazione dei luoghi-simbolo della vita cittadina; 3) infine, come Chiesa e come cristiani, è necessario proporsi di alimentare in noi e negli altri una nuova passione per il bene comune, senza la quale risulterà vano ogni sforzo per la rinascita della polis.

 

  1. La crisi della città

Uno degli effetti più devastanti della transizione epocale che stiamo vivendo è la crisi della convivenza civile. È una crisi che si manifesta in forma più sensibile a livello locale, ma affligge l’umanità a livello globale. Le cause che stanno all’origine di questa crisi sono diverse e complesse, ma tutte portano alla perdita del senso del bene comune. Infatti, sia a livello locale sia a livello globale, il tessuto della convivenza civile si è lacerato. Da un lato, sono venute meno l’omogeneità culturale e la condivisione dei valori su cui poggiava il senso di appartenenza tra i cittadini; dall’altro, si è moltiplicata sul medesimo territorio la presenza di identità culturali, etniche e religiose diverse. Anche per questo, la perdita del senso del bene comune è forse più sensibile a livello locale, nelle nostre città, dove l’individualismo dominante ha ghettizzato il territorio, smembrandolo in quartieri separati, se non addirittura contrapposti tra loro: quelli a forte presenza di immigrati e quelli riservati ai nativi; quelli ricchi e quelli poveri; quelli residenziali al centro e quelli dormitorio in periferia. Di conseguenza, oggi è divenuto sempre più difficile vivere in città. In alcuni quartieri, dove domina la malavita, i cittadini non si sentono sicuri nemmeno in casa e hanno paura. Perciò, chi può cerca di evadere e cerca rifugio là dove è ancora possibile una vita a misura d’uomo. Ebbene, poiché la crisi della polis è collegata alla crisi più generale del nostro tempo, impegnarsi per la rinascita delle nostre città significa contribuire efficacemente, nello stesso tempo, a realizzare la nascita di un mondo nuovo. Ecco perché è importante il discorso sulla crisi della polis. Che cosa possiamo e dobbiamo fare per restituire un volto umano alla città?

 

  1. Dare un’anima alla polis

Mantenendo l’immagine iniziale dei tre luoghi-simbolo della città, il primo impegno dovrà essere quello di creare in città piazze nuove. Infatti, la vecchia Piazza ha cominciato a perdere significato sociale nella misura in cui in città la vita di relazione è venuta facendosi via via più difficile. La presenza dell’altro e l’incontro tra diversi, di cui la Piazza è stata sempre il simbolo, oggi non sono più considerati come una ricchezza, ma sono visti piuttosto come un ostacolo che rende più difficile l’integrazione sociale e spinge i cittadini a isolarsi. La disoccupazione, la precarietà, la diffusione delle droghe e altre piaghe sociali hanno finito con il creare nuove sacche di povertà e nuove barriere psicologiche, alle quali si è aggiunto, da ultimo, l’espandersi disordinato del fenomeno immigratorio. Perciò, in città si moltiplicano i casi di discriminazione e di esclusione sociale, mentre la distanza tra il centro storico e i quartieri popolari cresce a dismisura sul piano culturale, sebbene dal punto di vista urbanistico centro e periferia siano contigui e formino un’unica città. A rendere più sensibile il divario contribuiscono i moderni strumenti della comunicazione sociale, che creano relazioni e rapporti “virtuali”, del tutto evanescenti, a scapito delle normali relazioni sociali e dei naturali rapporti interpersonali, dai quali dipende in gran parte il raggiungimento del bene comune. Tutto ciò mette in crisi l’identità dei cittadini e la vivibilità sociale della città. In altre parole – notava il card. Martini parlando della situazione di Milano – anche la paura che oggi istintivamente si prova all’arrivo degli “stranieri” e dei “diversi” dipende più che dalle sfide insite nel fenomeno immigratorio, dal fatto che la città ha perso la sicurezza della propria identità e del suo ruolo umanizzante. Occorre perciò essere consapevoli che la paura dell’altro «si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno a occupare attivamente il proprio territorio e a occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola – ammoniva il Cardinale – è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione»2.

Dunque la polis ha bisogno di nuove piazze, cioè di nuove reti di relazioni, che favoriscano il rafforzamento dei legami di solidarietà, già operanti in città: da quelli familiari a quelli delle amicizie, dei gruppi sociali e culturali, politici ed ecclesiali. In particolare, per ricompattare il tessuto lacerato della città, c’è bisogno di gesti concreti di solidarietà verso gli ultimi e non di sacche di privilegio o di degrado sociale che invece disgregano. Il cardinal Martini insisteva sulla necessità di rivolgere l’attenzione agli ultimi, la quale – concludeva – oggi non è più dovuta, come in passato, alla paura «della rabbia dei poveri, che ormai, ridotti di numero e di potenza, stentano a far sentire la loro stessa voce e a trovare una rappresentanza politica», ma al fatto che «la nostra chiusura produce un male forse ancor peggiore, perché più sottile, che non la rabbia del povero: l’indebolimento dello spirito di solidarietà»3. Ecco perché il fatto che la Piazza abbia perduto il suo significato di luogo-simbolo ci interpella non solo come cittadini, ma anche come cristiani. Infatti, quanti credono che il Figlio di Dio si è fatto uomo, nostro fratello ed «è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), in virtù della loro stessa fede sono portatori di una innata sensibilità di comunione, di solidarietà e di fratellanza. Pertanto, i cristiani non possono rimanere chiusi in casa o in chiesa e assentarsi dalla vita della città. Sono chiamati, anzi, a impegnarsi coraggiosamente: e non solo a difesa dell’uno o dell’altro dei cosiddetti «valori non negoziabili», ma affinché il modello di città, nel suo insieme, si fondi sulla solidarietà oltre che sulla giustizia. La giustizia certamente ci vuole. Essa è il fondamento della convivenza civile e, senza giustizia, non c’è Stato di diritto. Tuttavia, la giustizia da sola non basta a rendere umana e vivibile la città. Al di là della tutela dei diritti fondamentali, è importante garantire l’aspetto umano e solidale della vita civile, se vogliamo costruire la città dell’uomo. Non basta, cioè, affermare in via di principio e sul piano giuridico il primato della dignità personale, della vita, della famiglia, del diritto all’educazione e al lavoro, se poi i comportamenti e le scelte programmatiche vanno a scapito della fraternità dei rapporti interpersonali. In altre parole, la vita sociale e culturale della città è strettamente legata alla vita amministrativa e politica. Non basta creare nuove piazze, se nello stesso tempo il Palazzo di Città non si apre alla partecipazione responsabile della cittadinanza. Perciò, il secondo impegno deve essere quello di aprire il Palazzo di Città alla partecipazione attiva e responsabile degli abitanti. Infatti, come la Piazza, così anche il Palazzo di Città oggi non è più il luogo-simbolo di quello spirito di servizio, da cui hanno avuto origine l’idea e il nome stesso di Comune. Come dimostrano anche vergognosi casi recenti, quando il Palazzo di Città si chiude in se stesso, finisce prima o poi in mano ad amministratori di dubbia legalità e privi di senso civico, ridotti al rango di semplici burocrati, indifferenti al bene comune della cittadinanza. Le conseguenze del degrado amministrativo sono molto gravi, gli sperperi e le indebite appropriazioni di denaro pubblico si moltiplicano, sono un oltraggio alla gente e rischiano di aprire le porte della città alla criminalità organizzata.

Ora, il Palazzo di Città è il primo volto dello Stato che il cittadino vede e con il quale s’incontra; è il luogo dove egli fa la prima esperienza della complessità della vita sociale, dei suoi conflitti e del primato del bene comune. Si può dire che il senso dello Stato nasce e cresce, oppure muore, all’ombra del Palazzo di Città, dove i problemi locali s’intrecciano con quelli nazionali. Il Comune, perciò, è chiamato ad essere una vera e propria «palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica»4. Come può la gente avere fiducia nello Stato e conservare il necessario senso civico, se gli amministratori e i responsabili della cosa pubblica sono i primi ad agire in modo non trasparente o addirittura illegale e contrario al bene comune? Se coloro che per ufficio devono imporre sacrifici alla gente, sono i primi a ritenersi esonerati dal farli? La disonestà e l’avvilente spettacolo dell’attuale classe amministrativa, preoccupata più del proprio interesse personale che del bene comune, minano alla radice il senso civico dei cittadini e la cultura della legalità. Se cede il Palazzo comunale, muore la legalità; se muore la legalità, muore la città; se muore la città, muore lo Stato.

Per porre rimedio a questa situazione insostenibile, si deve rinnovare il Palazzo e con esso si rinnoverà anche lo Stato. Tuttavia, per rinnovare il Palazzo non c’è altra via che aprirsi alla partecipazione attiva e responsabile della cittadinanza. La vecchia logica del “centralismo democratico”, secondo cui tutto si decide dall’alto, è finita con la caduta delle ideologie, aprendo la strada alla logica della cittadinanza attiva e responsabile, su cui si basa la democrazia matura. Solo aprendosi alla società civile, il Palazzo potrà tornare ad essere luogo-simbolo della città moderna e contribuire così al rinnovamento e al bene comune del Paese. Sia la Piazza, sia il Palazzo di Città devono diventare il luogo, anzi la scuola, dove i cittadini apprendono il senso del bene comune, cioè imparano a vivere uniti, rispettandosi diversi. Al raggiungimento di questo traguardo è chiamata a contribuire anche la Chiesa, la quale perciò dovrà – essa pure – rinnovare la presenza in città, svolgendo in forma nuova il suo ruolo e restituendo così alla Cattedrale quel valore di luogo simbolo che oggi è andato ugualmente smarrito.

Perciò, il terzo impegno riguarda il nuovo modo di porsi della Cattedrale nel cuore della città, come luogo-simbolo della dimensione trascendente del bene comune e della convivenza umana. Infatti, se è vera la diagnosi fatta fin qui, è chiaro che la soluzione della crisi non può venire soltanto dall’elaborazione di un nuovo piano urbanistico. A che servirebbe rendere i centri urbani più belli e attraenti dal punto di vista architettonico, se poi rimanessero spiritualmente e culturalmente fatiscenti? Il futuro della città, infatti, dipende molto più dal costume e dalla cultura dei cittadini che dalla bellezza dei suoi edifici o dal buon funzionamento delle istituzioni e dei servizi. È illusorio pretendere di rigenerare le periferie degradate, solo varando un piano regolatore di ristrutturazione urbana. È importante, invece, che ritorni l’etica nella città dell’uomo, a partire dalle qualità civili e morali dei cittadini. Solo recuperando l’identità culturale e spirituale perduta, si può ricuperare il senso del bene comune e rendere umanamente vivibile lo spazio urbano; si tratta, dunque, di ristabilire un ethos condiviso, in base al quale realizzare l’unità nella pluralità e garantire così il bene comune.

Ecco perché, accanto alla necessità di nuove Piazze e di un Palazzo di città aperto alla società civile, occorre che anche la Chiesa rinnovi il suo rapporto con la città e con i cittadini. La presenza della Cattedrale nel centro della città è il simbolo eloquente del molto che la Chiesa ha da ricevere dai cittadini e del molto che la Chiesa ha loro da offrire. È importante che le porte della Cattedrale siano sempre aperte, affinché chiunque dalla città possa agevolmente “andare in Chiesa” e, nello stesso tempo, si possa uscire dal tempio e “andare in città”.

Che cosa significa per i cittadini la possibilità di “andare in Chiesa”? Anzitutto significa riconoscere che i problemi della convivenza civile e dell’uomo hanno una dimensione spirituale e trascendente. L’uomo e Dio stanno insieme: se l’uomo perde Dio, perde se stesso; se ritrova se stesso, ritrova Dio. Nello stesso tempo, “andare in Chiesa” significa per la Città condividere con tutti fraternamente le sofferenze, i problemi, le speranze e i progetti, senza temere di interrogare criticamente la Chiesa sulle sue manchevolezze e su certi comportamenti poco evangelici, da parte di chi dovrebbe precedere tutti con l’esempio per rendere credibile l’annunzio di cui la Chiesa è portatrice.

Che cosa significa, in particolare, per i cristiani uscire dal tempio e “andare in città”? Don Tonino Bello, che si era posto questa domanda, rispondeva così: “andare in città” significa per la Chiesa «scegliere gli ultimi. Significa riversarsi nelle strade come dice il Vangelo, e chiamare ciechi, storpi, sordi, per invitarli tutti al banchetto del Regno. Significa, in termini concreti, vincere la paura che parlare di poveri, di disoccupati, di marittimi sbarcati e senza lavoro, di sfrattati, di drogati… sia fare sociologismo, sia fare l’orecchiante al linguaggio di moda, sia fuggire per la tangente della denuncia demagogica e gratuita, sia tradire Cristo per l’uomo […]. “Andare in città” – concludeva il servo di Dio – per la nostra Chiesa locale deve significare porre gesti significativi di condivisione con gli ultimi; scegliere la povertà come stile di vita tenendo presente che “povero (pauper)” non si oppone tanto a “ricco (dives)”, quanto a “potente (potens)”; denunciare i meccanismi violenti che opprimono i poveri nelle nostre città; esprimere questo servizio crocifiggente senza sottintesi clientelari, ma solo perché il mondo sia più mondo, l’uomo sia più uomo, e non perché diventino più chiesa»5. Questo significa uscire dal tempio e andare in città: illuminare i problemi dell’uomo con la luce della fede.

Di fronte alla grave crisi attuale – aggiungiamo noi –, “andare in città” significa per la Chiesa non restare chiusa entro le mura del tempio, non tacere né rimanere passiva. Certo, la Gerarchia, a motivo della sua stessa missione, non può e non deve coinvolgersi in scelte di parte. Non per questo, però, può mancare al grave dovere di orientare le coscienze, esprimendo con parresìa evangelica un giudizio morale non sulle persone (Gesù stesso non ha mai giudicato nessuno!) ma sulle culture politiche e sui modelli di società che si confrontano nel Paese, sulla disonestà dei “comitati d’affari” e delle “reti clientelari”, sulla coerenza morale o meno di comportamenti e di scelte che hanno una forte ricaduta sulla vita pubblica. Per i Pastori, “uscire dal tempio” e “andare in città”, significa non anteporre mai la diplomazia a scapito della profezia.

Per quanto riguarda poi i fedeli laici, “uscire dal tempio” e “andare in città” significa rendersi presenti sul piano culturale, caritativo e sociale; ma non basta. Le iniziative culturali e il servizio dei poveri sono necessari, ma complementari e non alternativi all’animazione cristiana della politica, la quale rimarrà sempre la forma più ampia di carità e di servizio al bene comune. In concreto, per i fedeli laici, “uscire dal tempio” e “andare in città” significa impegnarsi politicamente, non chiudendosi nel ghetto di un “partito cattolico” contrapposto agli “altri”, come alcuni nostalgici oggi ancora vorrebbero, ma mediando i valori evangelici in scelte politiche “laiche”, coerenti ed efficaci, condivisibili da tutti, credenti e non credenti, in collaborazione leale e aperta con tutti gli uomini di buona volontà. Per fare questo, c’è bisogno di una nuova passione per la città.

  1. Una nuova passione per la città

Anzitutto, è fondamentale ripartire dall’autenticità della vita e della testimonianza cristiana. I credenti siano consapevoli che il loro primo contributo all’edificazione della città dell’uomo è la testimonianza della vita. Sostenuti dalla preghiera, uniscano uno stile sobrio di vita all’adempimento leale e responsabile dei propri doveri civici e al rifiuto di ogni comportamento illegale.

Nello stesso tempo, di fronte a una crisi che nega molti valori portanti della convivenza, occorre promuovere un processo di elaborazione e diffusione di una nuova cultura nei diversi ambiti della vita. Si tratta di stringere un nuovo patto di convivenza e di cittadinanza con tutti gli uomini di buona volontà, fondato su comuni valori morali, nel rispetto del pluralismo e della laicità della vita democratica, alla ricerca del bene comune. «Questo della mediazione antropologico-etica è forse uno dei lavori più importanti e urgenti dei cristiani impegnati in politica ed è uno dei contributi più fecondi che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi. I principi della fede devono essere trasformati in valori per l’uomo e per la città, devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior consenso e concordia possibili»6. E questo si farà più con le opere che con i discorsi, più con il servizio volontario ai poveri e ai bisognosi che con i manifesti. Si tratta di animare il costume privato e le istituzioni pubbliche con i valori che provengono dalla luce della fede, immettendo nella costruzione della città dell’uomo il cemento proprio del cristiano che è l’amore, la cultura della solidarietà.

Tuttavia il momento culturale e il momento sociale e caritativo non sono sufficienti. I cattolici non possono rinunciare alla mediazione politica, senza la quale tutti i discorsi sui valori e sui progetti rimangono sogni nel cassetto. Il Paese ha bisogno del contributo dei valori cristiani, non solo perché essi stanno all’origine della nostra civiltà bimillenaria e ispirano la stessa Costituzione repubblicana, ma anche perché, essendo radicati nella persona umana, sono sopravvissuti alla caduta delle ideologie e sono in grado di restituire l’anima alla politica.

La difficoltà maggiore nasce dalla dispersione e dal pluralismo dei cattolici in politica, dopo la fine della stagione ideologica che li aveva tenuti uniti per cinquant’anni in un unico partito. In questa situazione di diaspora, bisogna tenere fermo il principio che le diverse forme di militanza dei cattolici (legittime, dopo la fine dei partiti ideologici), anche quando risultassero tra loro opposte e politicamente alternative, tuttavia sul piano dei principi e dei valori saranno sempre tra loro complementari. Infatti, i credenti s’ispireranno sempre ai medesimi valori e ai medesimi insegnamenti sociali della Chiesa, dovunque si trovino a operare.

Certo, sul piano obiettivo, non tutti i programmi politici sono ugualmente vicini alla sensibilità e alla cultura cristiana; tuttavia, anche coloro che aderissero a un programma politico democratico più lontano dagli ideali evangelici, con la loro coerenza potranno svolgere un’azione positiva di critica e di stimolo, accorciando distanze e impedendo pericolose derive. Questa loro azione può risultare (in qualche misura) complementare a quella dei credenti che aderiscono invece ad altri programmi, più conformi agli ideali del cattolicesimo democratico. In ogni caso, quando sono in gioco valori fondamentali e diritti inalienabili, tutti i credenti si troveranno spontaneamente uniti a difenderli, con un’unità trasversale, che va al di là dell’appartenenza a schieramenti contrapposti.

Concludendo, non resta che mettersi alacremente al lavoro, confidando nella presenza e nell’aiuto dello Spirito di Dio. Senza scoraggiarsi, se non vedremo subito i frutti del nostro impegno. Quello di oggi, infatti, non è tempo di mietitura, ma di semina.