N.01
Gennaio/Febbraio 2013

Vocazione e lavoro: una chiamata alla dignità e alla responsabilità

Il Card. Anastasio Alberto Ballestrero amava ripetere: «Attraverso il nostro lavoro, sforziamoci di essere i collaboratori di Dio». La realizzazione della vocazione di ciascuno di noi si innerva anche nell’impegno professionale di ciascuno; ciò richiede e attesta la convinzione del valore umano e cristiano del lavoro, orientando le realtà umane al fine loro assegnato da Dio. Ogni uomo o donna che lavora imita Cristo che «ha lavorato con mani d’uomo» (GS 22).

«Se ci domandiamo che cosa ha fatto il Figlio di Dio sulla terra nella sua vita, durante la maggior parte della sua vita, nei trent’anni della sua vita, egli ha fatto il lavoro di un operaio, di un falegname, di uno di noi» (Giovanni Paolo II, Torino, 13 aprile 1980).

  • Una chiamata di senso e di felicità

«L’uomo saggio è colui che sa trovare un significato bello alle cose belle» affermava Oscar Wilde in un suo celebre aforisma. Questa è una domanda chiave per la vita di ciascuno: “Come far divenire il nostro lavoro una vocazione vissuta nella bellezza?”.

Spesso sembra che la vita delle persone, in particolare del mondo degli adulti, vada inesorabilmente alla deriva, senza possibilità di controllarla. È sparita ogni distinzione tra io ed ambiente; si vive una strana sensazione dissociativa tra idea e sentimento. Manca un confine tra fantasia e realtà; si diviene prigionieri del momento presente; il futuro diviene una grande macchia sfuocata, una nuvola impenetrabile.

Gli uomini e le donne di questo nostro tempo hanno perso la fede ingenua che la tecnologia possa risolvere tutto e sono pure dolorosamente consci che quello che è un potere di vita, porta con sé un potenziale di autodistruzione. Usiamo molti strumenti, ma abbiamo perso la capacità di capire il come e il perché degli strumenti che adoperiamo. E così, vita e morte si toccano morbosamente, come i media quotidianamente ci mostrano.

  • Un tempo di dislocazione

È una dislocazione storica, una frattura con il simbolo vitale e nutriente della tradizione culturale: la famiglia, la religione, l’ideologia, un ciclo vitale… Oggi diviene cruciale la mancanza della continuità: prevale la “non-storia”.

Le reazioni sono sempre più di indifferenza e di noia. La rapida mutevolezza dei valori ha portato a frantumare le ideologie: dalle formule fisse e totalizzanti a frammenti ideologici più fluidi. L’arte di vita sembra essere sempre più quella del “collage”; vale la legge della improvvisazione e il “nuovo” è sempre provvisorio.

  • Il lavoro è vocazione, la vocazione è lavoro

Il significato della vita si scopre e si coglie non ponendosi semplicemente degli interrogativi, ma rispondendo direttamente ad essa, cioè assumendo le responsabilità che essa addita. È chiaro pertanto che si risponde non con le parole, ma con i fatti e le azioni. La risposta, inoltre, deve corrispondere alla concretezza della persona e delle contingenze, cui deve perfettamente integrarsi per essere esatta ed adeguata. Nel cerchio della propria umana responsabilità, ognuno è insostituibile ed indispensabile; e la coscienza della propria responsabilità si riferisce sempre a un compito concreto e nettamente personale.

Tutte le volte che l’uomo non ha ben presente e ben chiaro il senso della sua singolarità e irripetibilità, finisce per incappare in situazioni esistenziali difficili. È la situazione simile a quella di uno scalatore che venga a trovarsi ad un tratto in un banco di fitta nebbia e che, non avendo più dinanzi agli occhi la mèta, stia per soccombere ad una pericolosa stanchezza. Ma se la nebbia si dirada e in lontananza riesce ad un tratto a scorgere il rifugio, ecco che egli si sente improvvisamente di nuovo fresco e in forze.

Ogni scalatore conosce la sensazione di esaurimento, sia fisico che psichico, quando, arrampicato su una parete, non sa più se è ancora sulla via giusta o meno. Sensazione che scompare del tutto non appena egli si accorge della possibilità di un passaggio buono e di essere vicino alla meta: gli pare allora che una nuova energia d’un tratto gli scorra nelle braccia, nelle mani che rapidamente si muovono per afferrare gli appigli.

«La dignità dell’uomo – dice il Concilio Ecumenico Vaticano II – richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna» (GS 17).

Il discepolo del Signore, nel mondo, non può essere solo il teorico (di teorici ve ne sono fin troppi, oggi), ma il testimone, il quale convince e trascina con il suo esempio più efficace di qualsiasi discorso. La sua vita vuol essere più che un discorso persuasivo, un modello che si scopre e non si impone, il modello di qualcuno che paga sempre di persona.

Ogni vita ha una sua bellezza e preziosità con cui cercare di vivere la dimensione dell’abbandonarsi e del consegnarsi a qualcuno da AMARE. Vivere con dignità e responsabilità il nostro quotidiano, alla luce della nostra chiamata vocazionale, significa essere degli “innamorati di Gesù”. Tutto ciò è un sogno, una chimera o una illusione?

Lascio la risposta al poeta libanese Gibran Kahil Gibran: «Preferisco essere un sognatore fra i più umili, immaginando quel che avverrà, piuttosto che essere signore fra coloro che non hanno sogni e desideri».