N.04
Luglio/ Agosto 2013
Studi /

La vocazione oggi

Il tema che mi è stato assegnato come ricerca e come contribu­to da offrirvi questa sera ha come titolo: “La vocazione oggi”. Ora, quando si parla di vocazione e di vocazioni oggi, subito si parla anche di crisi, e in verità possiamo dire che effettivamente – attenzione alle parole che uso – c’è una diminuzione forte delle ordinazioni presbi­terali e una diminuzione fortissima di quelli che professano la vita religiosa (monaci, monache, frati suore, religiosi e religiose). Come interpretare questa crisi, dalla quale sembra dipendere il futuro delle comunità cristiane, soprattutto nelle nostre terre di antica cristianità?

Non spetta ora a me ricordare che questa crisi era in realtà già presente negli anni ’60 del secolo scorso e che certamente ha avuto un accrescimento vistoso a partire dalla svolta antropologica, cul­turale e politica di quegli anni. Finiva la cristianità come assetto culturale, iniziava il processo di secolarizzazione, di «disincanto del mondo» (Marcel Gauchet), e di conseguenza emergevano nuove urgenze, nuove e impensate vie per “vivere la vita”. Denatalità, di­minutio della comunità cristiana, mutamenti sostanziali nella forma di vivere la vocazione presbiterale o religiosa, emergenza delle vo­cazioni laicali e della vocazione “cristiana” – quella cioè che ogni cristiano riceve in dotazione con il battesimo –, nuove comprensio­ni dell’etica e della sessualità: tutto questo ha contribuito alla crisi.

Conosciamo bene queste congiunture, da tempo le analizziamo e magari cerchiamo per esse adeguati rimedi. Ma io voglio andare oltre: vorrei porre delle domande al termine di questa introduzione al tema e poi sostare sulla vocazione e sull’oggi, che per noi cristiani non è mai solo cronologico, ma è sempre kairós, “oggi di Dio”. Que­ste le domande che sono necessarie, necessarie quanto le risposte che però non sempre sono possibili.

  1. Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è veramente tale op­pure è una crisi della fede, soprattutto della fede come atteggiamen­to umano di fede-fiducia – la cosiddetta fides qua – fede-fiducia negli altri, nel futuro, nella terra e dunque in tutto ciò che riusciamo a realizzare e a vivere?
  2. Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è certamente una mancanza sofferta oggi dalle comunità cristiane, ma non è sterile: non può forse essere un cammino attraverso il quale lo Spirito san­to ci chiede di comprendere in modo diverso le vocazioni stesse?
  3. L’attuale crisi di vocazioni ci spaventa per la diminutio nume­rica, avendo noi un’ottica utilitaristica (“occorrono per tanta gente tanti preti come una volta”), oppure ci spaventa per la mancanza di santità, di fede e di carità che coglie le comunità cristiane, le quali restano così sterili e poco feconde di vocazioni? Non deve preoccu­parci solo la quantità delle vocazioni, ma piuttosto la loro qualità umana e spirituale! La chiesa può fare molte cose eccellenti con poche vocazioni, ma dotate di qualità e convinzione. Aumentare a ogni costo le vocazioni significa aumentare il numero dei miseri e dei fanatici, non dei santi…
  4. E infine un’ultima domanda: se è vero che ci sono pochi chia­mati, non è perché sono scomparsi quelli che chiamano? Non è perché tutti nella Chiesa sentono le vocazioni come un’”eccezione” e non come il fondamento della vita cristiana? Non c’è forse un ras­segnarsi da parte di tutti i cristiani, compresi quelli che dovrebbero “chiamare”, alla situazione di crisi, supponendo che la Chiesa cor­risponda ai mezzi umani immediatamente disponibili? È un grave errore spirituale!

Occorre, in ogni caso avere fede: «Il Signore è fedele» (2Ts 3,3), il Signore è fedele e non manca di vedere e di provvedere alla sua comunità, affinché abbia sempre i mezzi per ringiovanire e rinno­varsi. Il Signore vede, ascolta e conosce la sua Chiesa: a noi chiede fede-fiducia, senza la quale egli non può operare in noi e tra di noi.

Attenzione, dunque, quando parliamo di crisi di vocazioni: è sempre crisi di chiamata, crisi di modelli storici, crisi di vita comunitaria, ecclesiale.

 

  1. La vocazione oggi

Le considerazioni che farò sono tratte soprattutto dalla mia as­siduità con le sante Scritture – non può essere diversamente per un cristiano –, dalla grande Tradizione che frequento nella mia vita monastica, dalla mia esperienza di uomo ormai anziano che ha vi­sto emergere, crescere, acconsentire e assumere diverse vocazioni, ma anche contraddirle, smentirle, abbandonarle. Sì, la vocazione è una vicenda, una storia a volte lunghissima, un cammino difficile, pieno di cadute e di rinnegamenti, in cui il Signore ci chiede solo di “conservare la fede” (cf 2Tm 3,7) che è fedele, che perdura, persiste, persevera nonostante tutto: «Se noi siamo infedeli, il Signore rima­ne fedele» (2Tm 2,13)!

 

  1. a) La vocazione umana

Innanzitutto occorre mettere in evidenza che in ogni uomo c’è la possibilità di una vocazione, anzi occorre dire che ciò che fa l’uomo, che lo umanizza, è la vocazione umana. Nessuno si sorprenda dell’e­spressione “vocazione umana”: chi conosce lo spirito del concilio Vaticano II sa che in quell’evento si è sentito il bisogno, per la prima volta nel cristianesimo, di parlare di vocazione umana. Ogni uomo, per il fatto di essere tale, sente in sé una coscienza, una parte pro­fonda e segreta, un santuario accessibile a lui solo, un crogiuolo in cui vive interiormente il proprio “sé” (cf Gaudium et spes 16). Qui si avverte una chiamata, si sente un impulso, un desiderio che chiama a uscire da se stessi, che chiede di essere capaci di responsabilità-responsum, dunque di rispondere. Quando un uomo, una donna sente questa chiamata e comincia a decifrarla, ecco che sente cosa vorrebbe fare della propria vita, degli anni che gli stanno davanti.

Si tratta contemporaneamente di cogliere che la propria vita è unica, che non ce ne sarà un’altra e che quella vita va vissuta in una forma che abbia senso per chi “viene al mondo”. Ecco perché que­sto processo abitualmente si fa consapevole nell’adolescente, nel giovane. Cosa fare della propria vita per non buttarla, per viverla in pienezza, per trovare senso, il senso dei sensi, e fare della propria vita un capolavoro, un’opera d’arte? Vocazione umana, questa, che va fatta nascere, va custodita, va temprata e confermata dal singolo, ma anche da chi gli sta accanto. Il mestiere di vivere è faticoso, duro, ma può essere buono, bello e beato se la vocazione diventa mestiere di vivere. Se il vivere è senza vocazione, invece, diventa intollerabile, e se la vocazione non diventa il mestiere assunto nella vita allora si è in una situazione sempre frammentaria, “liquida”, sfilacciata, inconcludente. Dunque c’è una vocazione umana, una “chiamata a poter essere”, che deve abitare in ogni persona: così nasce l’avven­tura umana, così si assume la responsabilità verso gli altri e verso il mondo, così si può perseguire la ricerca di senso e approdare a ciò che attende ogni uomo come culmine dell’umanizzazione; vivere l’amore come storia.

 

  1. b) Pensare e ascoltare

In questo itinerario della vocazione umana la prima esigenza è che ci si eserciti a pensare: e pensare è sempre innanzitutto ascoltare. Ascoltare! Dio disse come prima parola ad Adamo: «Uomo, dove sei?» (Gen 3,9), e questa è una domanda fatta sempre a ogni uomo e a ogni donna: «Dove sei?», una domanda personale profonda che non può essere estranea ad alcuna persona. È a partire dall’ascolto di questa domanda – «Dove sei nel tuo cammino? Dove sei nel tuo stare al mondo? Dove sei tra gli altri e con gli altri?» – che il chia­mato può rispondere: «Eccomi!» (Gen 22,1.11ss.). E quando dice: «Eccomi!», dice di essere in ascolto, in attesa di una parola, di una chiamata, di un compito, di una responsabilità.

 

  1. c) Il discernimento

Una seconda tappa della vocazione umana è il sentire ciò che riguarda, compete in modo particolare e personalissimo chi si di­spone alla chiamata. E qui va detto subito: la chiamata come invito, voce, uscita da sé, è unica per tutti, ma poi la vocazione diventa vocazioni diverse, il cammino diventa cammini. Le vie della voca­zione umana sono diverse… E qui sta la grande arte dello scegliere ciò che fa per me, ciò che sento per me urgente, ciò che mi edifica come uomo o come donna.

Qui occorre fare discernimento e poi avere la forza per fare la scel­ta. L’operazione del discernimento è la più laboriosa nel percorso vocazionale. Innanzitutto non la si fa da soli, ma bisogna che qual­cuno, con molto rispetto, aiuti e accompagni la vocazione. Ognu­no di noi è troppo soggettivo per scegliere in modo da non essere soggetto ai sentimenti, al “mi sento”, alla dittatura delle emozioni o dei sentimenti, in modo da non essere spinto da situazioni momen­tanee, passeggere, o da eventi capaci di togliere serenità, equilibrio, lucidità di pensiero. Se c’è accanto un altro – insisto sul fatto che è “altro” – esperto in umanità, allora questo altro fa domande, a volte mette sospetti, chiarifica ambiguità, ma non comanda, non deter­mina e neanche ispira. Certo, deve essere un in-segnante, nel senso che fa segno, indica un orientamento, un senso del cammino, ma non impone, non esprime il suo desiderio, ma predispone soltanto all’incontro tra chi si sente chiamato e il suo compito.

E quando c’è sufficiente discernimento, quando uno compren­de che ha davanti a sé la strada in cui si realizzerà come uomo, si umanizzerà, la strada in cui gli sarà possibile vivere l’amore verso gli altri e ricevere dagli altri l’amore nel modo più autentico, più reale e più gioioso, allora sceglierà, o meglio aderirà alla vocazione riconosciuta come propria, ricevuta.

 

  1. d) La scelta

Ecco allora la scelta: fatta con risolutezza, nella consapevolezza che scegliere una via significa rinunciare ad altre vie. Ognuno ha una sola vita da vivere, e in essa una sola via da percorrere. Occorre dunque consapevolezza della “rinuncia”, parola che oggi gode di cattiva fama, parola desueta, che a volte fa paura, ma che è invece essenziale ad ogni cammino umano. Scegliere significa non vivere più nell’“et…et”, ma dicendo sì a una cosa e no a un’altra che con­trasta con il sì. Questa è la rinuncia che non è privazione, bensì libertà, che è segno di convinzione, di adesione, di scelta fatta con risolutezza.

Nella vita dobbiamo prendere tante decisioni e dobbiamo deci­dere, a volte decidere l’obbedienza o la trasgressione, ma sovente decidere semplicemente che strada, che direzione prendere. Deci­dere viene dal latino “de-caedere”, “fare un taglio”, operare una se­parazione da qualcosa per abbracciare un’altra possibilità. Lo so, fa paura, a volte paralizza, soprattutto nella giovinezza, lasciare le molte possibilità per una sola strada; ma se la vita è unica, non si possono vivere più vite e nello stesso fare storia con gli altri, ade­rendo pienamente a quello che si fa o si vive! La decisione, se è presa dopo la nascita della vocazione umana avvenuta e vissuta in se stessi, non data da altri (non vocazioni indotte da in-segnanti che seducono e non convertono, che chiedono sequela a loro stessi e non al Signore!); se è frutto di discernimento avvenuto nell’ascolto di altri, nel confronto con chi ha doni umani e spirituali per dare un aiuto sapienziale a chi è più giovane; se infine è assunta con risolutezza, sarà certamente ancora provata, ma potrà giungere alla maturazione ed essere comunque un cammino umano non percor­so invano, non colpevole di perdita di tempo.

Questa è la vocazione umana, o meglio il percorso umano es­senziale nel quale Dio può innestare la vocazione frutto e sviluppo della grazia battesimale presente nel cristiano.

 

  1. La vocazione cristiana

Nel terreno umano reso fecondo, cioè adatto a ricevere il seme della Parola di Dio, può essere innestata la chiamata di Dio. È come nella parabola raccontata da Gesù (cf Mc 4,1-20).

– Se il terreno non è zappato, lavorato, ed è dunque terreno cal­pestato come una strada, la Parola che è sempre chiamata e la chia­mata che è sempre Parola indirizzata a… non può mettere radici.

– Se il terreno è poco profondo, se la vita cioè è vissuta superfi­cialmente, allora può darsi che la chiamata susciti entusiasmo, che sembri subito germogliare, ma ben presto finisce come un germo­glio che si secca.

– Se il terreno è infestato da erbe selvatiche, se la vita è tutta spesa in preoccupazioni, in ansie mondane, in realtà che appaiono ma sono frivole o addirittura cattive, allora la vocazione è soffocata: non c’è capacità di rinuncia a molte cose per scegliere «l’unico ne­cessario» (Lc 10,42).

– Ma se il terreno è stato preparato dal pensare, dalla consape­volezza del vivere, dall’ascolto della Parola di Dio, dall’ascolto di chi “chiama” e dalla forza della perseveranza, allora ecco che la voca­zione cristiana sboccia; anzi, potremmo dire che la vocazione umana fiorisce in vita cristiana.

E questo vale oggi come ieri, perché Dio non muta, non cambia: parla oggi così come ieri e sempre, non è mai muto né silenzioso. Siamo noi che a volte non ascoltiamo e, piuttosto che ammetterlo dicendo che siamo sordi e ciechi, preferiamo imputare la respon­sabilità a Dio dicendoci: «Dio fa silenzio, per me è muto, non si fa vedere, ha coperto il suo volto». Dio chiama sempre, dice sempre: «Chi manderò?» (Is 6,8), ma è qui che si decide la possibilità della vocazione: non in Dio ma in noi! C’è qualcuno che ripete il grido di Dio? Qualcuno che, come Eli al giovane Samuele, insegni a dire: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9.10)? Qual­cuno che, come Elia, stenda il mantello su Eliseo (cf 1Re 19,19-21)? Qualcuno che, come il Battista, dica ai discepoli: «Ecco l’Agnello, il Servo di Dio (Gv 1,29.36)! È lui: se volete, seguitelo!»? Sì, qualcuno che chiami, che inviti un altro, un giovane a “uscire” e a uscire oggi, perché oggi la Parola del Signore è rivolta al chiamato.

Occorre essere realisti: Dio parla al cuore, è lui il protagonista della chiamata, ma lo fa attraverso altri, uomini e donne, capaci di educare, di e-ducere, cioè di far uscire, di condurre fuori. I genitori? Certo, anche loro e innanzitutto loro: non però nel senso che deter­minano il futuro del figlio; non devono neanche desiderare che il futuro del figlio sia secondo i loro desideri. Questo è egoismo, sogno di onnipotenza dei genitori, mancato riconoscimento dell’alterità del figlio. I genitori devono anzi lasciare al figlio la decisione della vocazione, ma devono apprestare il terreno perché, se Dio chiama, sia ascoltato. Vogliamo dire la verità? Quasi tutti i genitori cattolici oggi fanno di tutto perché il figlio trovi uno sbocco, un lavoro, una professione che lo renda ricco e felice, ma fanno anche di tutto perché il figlio non senta una chiamata a lasciare tutto, compresi loro, per seguire il Signore! E se un figlio manifesta l’intenzione di seguire il Signore, i genitori si premurano che non sia un lasciare, una diminuzione rispetto a quello che loro hanno pensato…

Ma non ci sono solo i genitori e la famiglia, pensiamo anche alle figure educative, oggi molteplici e diverse: se ci sono, sono ve­ramente autorevoli? L’autorevolezza di un in-segnante nasce dalla sua coerenza tra dire, fare e vivere, dalla sapienza accumulata, dal­la libertà esercitata rispetto alle dominanti culturali. E se ci sono, “chiamano”? Per chiamare occorre in primo luogo essere convinti che Dio chiama, che la vocazione cristiana è una grazia, è qualcosa che porta bontà, bellezza, beatitudine, e non invece tristezza e pe­santezza di comandi. Oggi mancano questi “traghettatori” da una riva all’altra, dalla propria chiamata a una nuova chiamata, uomini e donne capaci di incontrare l’altro, invece di consigliarlo subito, di parlargli dicendogli cosa deve fare o non fare. In una società senza padri, sono venute a mancare figure spiritualmente generanti, ed ecco allora la crisi di vocazioni… Mi si permetta l’espressione: oggi manca una cultura della chiamata, e anziché chiamare ad ascoltare nella Chiesa il Signore che chiama (e basta!), si chiamano i fedeli a servizi, ministeri, diaconie già predeterminate, con la mentalità di chi deve riempire i posti delle urgenze e dei servizi necessari. E poi ci lamentiamo della crisi di vocazioni!

Ma la vocazione cristiana è tale se è Cristo che chiama con liber­tà, con sovranità, con la sua parola efficace, senza che ci siano trop­pi diaframmi. Occorrono persone chiamanti, nel senso di persone che fanno eco alla voce del Signore, persone che, come il Battista ,sono pronte a sparire quando avviene l’incontro tra il chiamato e il chiamante, il Signore (cf Gv 3,29-30). Non si devono negare le me­diazioni della comunità cristiana, dei testimoni che chiamano, ma poi la chiamata personalissima, la messa a parte, l’elezione restano opera di Cristo, il Kýrios!

 

Conclusione

Cari amici, chi vi parla è un fratello, un semplice fratello, che legge la sua vita nell’anzianità, che guarda al passato senza nostal­gie, ma lo guarda solo per vedere il filo rosso che dà unità ai suoi anni, un filo rosso che solo Dio può stendere.

Che dirvi ancora? Semplicemente che Dio è fedele: lo ripeto, è fedele anche quando noi siamo infedeli! Solo «se lo rinneghiamo lui ci rinnegherà» (2Tm 2,13), dice l’Apostolo. Dio è fedele perché ha fatto sentire in me la sua voce quando ero ancora un bambino. Non l’ho seguita subito, ma non vi ho mai opposto altre vie, e in giovinezza nella libertà ho potuto dire il mio “Amen” alla vocazione che Dio mi aveva posto davanti. Ho finito per vivere il cristianesimo come monaco, e certo sono stato infedele, sono stato un cattivo monaco, ma Dio non mi ha deluso e mi concede fino ad oggi di conservare la fede; e lo spero ancora, per il mio esodo…

Ma a voi dico di cercare di ascoltare Dio che parla in ciascuno di voi, di sentire che vi dice: «Esci, esci da te stesso, dalla tua famiglia (cf Lc 2,48-51); esci e non temere, perché tu sei il mio figlio amato (cf Lc 3,22)». E se voi acconsentirete, sentirete lo Spirito su di voi, sentirete nelle vostre menti e nei vostri cuori lo Spirito Santo che vi dà forza, vi consola, vi sostiene nella lotta (cf Lc 4,1-2). Senti­rete questo, fino a poter dire agli altri con umiltà: «Lo Spirito del Signore è su di me e mi ha inviato» (cf Lc 4,18; Is 61,1). Con molta umiltà, con la consapevolezza di non essere niente e di non poterci vantare di nulla, e tuttavia di essere chiamati, dunque inviati.