N.04
Luglio/ Agosto 2013
Studi /

Ogni vita è vocazione. Cultura vocazionale e accompagnamento personale, nell’ottica della nuova evangelizzazione

  1. A immagine e somiglianza di Dio.

Partiamo proprio dall’origine: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”… E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (Gen 1,26-31). L’affermazio­ne che appare più intrigante, in questo testo famoso, è quella che si riferisce all’uomo come immagine e somiglianza di Dio. Con un pizzico di ironia, qualcuno ha osservato che, visto quello che l’uomo è capace di combinare, Dio non farebbe una gran bella figura! In realtà il testo dice sì che l’uomo è fatto a immagine di Dio, ma non che Dio è fatto a immagine dell’uomo: il rapporto non è simmetrico e quindi le due affermazioni non sono equivalenti! Comunque è in­teressante vedere le vie diverse che i commentatori hanno percorso per chiarire questa affermazione: che cosa significa dire che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio? E che cosa, nell’uomo, lo rende somigliante a Dio? La somiglianza va forse cercata nel corpo dell’uomo per la sua posizione eretta? O nella conoscenza umana, per la sua apertura universale? O nella libertà? O nell’anima con le sue diverse facoltà? L’autore pensava forse al linguaggio, alla ca­pacità di articolare parole significative? Alla capacità di ascolto e di dialogo? Probabilmente bisogna dire che tutte queste opinioni sono corrette e, probabilmente, se ne potrebbero aggiungere altre: tutto ciò per cui l’uomo è uomo contribuisce a fare di lui l’immagine di Dio. Questa immagine, infatti, non consiste nel possedere una qual­che qualità specificamente divina; è invece un compito consegnato all’uomo (insieme alle doti necessarie per realizzarlo, s’intende): il compito di essere “creatore” in subordine (come immagine) di quel mondo che è stato creato da Dio; il compito di custodire il mondo che Dio ha voluto per lui; di arricchire il mondo attraverso una rete di relazioni, di conoscenze, di valori, che faccia del mondo una te­stimonianza della sapienza e dell’amore di Dio. Per operare tutto questo l’uomo ha bisogno del corpo (deve essere anch’egli “mon­do”), dell’intelligenza (deve comprendere il mondo per agire in esso con saggezza), della libertà (per motivare le sue scelte come scelte di amore), del senso morale (per amare il bene e rifiutare il male) e così via. Insomma, l’uomo è una creatura in cammino per maturare e diventare uomo; e nella misura in cui diventa uomo, realizza in se stesso l’immagine e la somiglianza con Dio: nella misura, quindi, in cui con le sue azioni costruisce un mondo sano, nel quale sono pre­senti e operano e dominano la giustizia, la verità, l’amore. Non c’è bisogno di dire che questa missione o vocazione riguarda anzitutto l’umanità intera, la sua storia, la sua evoluzione culturale, etica, politica, religiosa. E all’interno di questa vocazione dell’umanità in solido, riguarda ciascun uomo, con la sua individualità, mai, però, separato dagli altri. La considerazione dell’individuo singolo e della sua vocazione è necessaria a motivo della libertà e della responsabi­lità che è sempre personale; ma l’isolamento dell’individuo è un’a­strazione che non corrisponde in nessun modo alla realtà: sono vere le parole di John Donne: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è parte di un continente, una parte del tutto».

Dunque, secondo il libro della Genesi, l’esistenza dell’umanità nel cosmo risponde a una volontà specifica di Dio che vuole l’uma­nità come strumento della sua sapienza e del suo amore nel gover­no del mondo. L’esistenza di ogni uomo si colloca dentro a questa grande missione-vocazione dell’umanità: ciascuno deve contribui­re, a suo modo, a plasmare un’umanità che sia immagine e somi­glianza di Dio, che operi nel mondo in modo conforme alla volontà di Dio, che trasformi il mondo in modo da far risplendere sempre meglio la sapienza e la bontà di Dio. La conoscenza, l’esercizio della libertà, la tecnologia, il lavoro, la società nelle sue molteplici forme, la cultura, l’arte, l’educazione, i sentimenti, le decisioni, le azioni… tutto questo complesso vario di materiale umano entra a realizzare questa grande vocazione dell’uomo.

 

  1. Nella terra di Dio

Ma perché parliamo di “vocazione”? O, in modo equivalente, di “missione”?

«Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti maledi­ranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12,1-4a). È determinante in questo testo il gioco dei pronomi: «Vattene dalla tua terra… verso la terra che io ti indicherò… Io ti benedirò e tu sarai una benedizione…». Tutto si gioca nel rapporto io-tu (Dio-Abramo).

Dal punto di vista geografico Abramo deve spostarsi da una terra a un’altra terra (dalla Mesopotamia alla terra di Canaan), ma que­sto spostamento locale non sembra costituire l’elemento decisivo. Ciò che è davvero decisivo è il rapporto inedito con Dio che Abramo potrà vivere nella terra di Canaan: è la terra che Dio gli destina; in quella terra, ricevuta in dono secondo una promessa, Abramo dovrà sentirsi beneficato da Dio e quindi riconoscente nei suoi confronti. Se in Mesopotamia Abramo poteva muoversi all’interno della “sua” terra, in Canaan, ovunque egli si sposti, si troverà nella terra di Dio. In questo modo tutta la sua esistenza sarà concepibile solo se riferita a Dio, in conseguenza del suo dono. La partenza da Harran avviene in risposta a una parola di Dio (quindi a una vocazione); ma sarebbe riduttivo limitare la vocazione di Abramo a quel momento iniziale; da allora, tutta la vita di Abramo sarà “vocazionale” nel senso che non sarà vissuta da Abramo solo con se stesso, come una persona che cerca di chiarire a se stessa le proprie preferenze, ma nell’ascol­to, nel dialogo, nell’obbedienza a Dio. «Quando Abramo ebbe novan­tanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: “Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò molto, molto numeroso”» (Gen 17,1-2). Il Signore si fa presente ad Abramo e pronuncia il suo nome, cioè si rivela a lui: Io sono Dio l’Onnipotente; poi rivolge ad Abramo un comando: cammina davanti a me e sii integro. Camminare davanti al Signore vuol dire vivere, scegliere, operare misurando sempre di nuovo il proprio comporta­mento con la parola e la volontà di Dio, in un confronto continuo. Debbo imparare a scegliere non ciò che mi piace, ma ciò che mi piace quando sto davanti a Dio; non ciò che mi sembra bene, ma ciò che riconosco bene stando davanti a Dio; e così via. Naturalmente, l’esperienza di “essere davanti a Dio” dipende essenzialmente da Dio che si fa presente all’uomo e si fa conoscere da lui; ma dipen­de anche dall’uomo e dalla familiarità che egli sviluppa con Dio. Man mano che conoscenza e familiarità crescono, cresce anche la profondità e la trasparenza della percezione che l’uomo avrà di ciò che piace a Dio, di ciò che è giusto e bene ai suoi occhi. Se la cono­scenza di Dio è scarsa, essere davanti a Lui sarà poco significativo. Se la conoscenza di Dio si fa più profonda, più luminosa e potente sarà la percezione di ciò che comporta stare alla presenza di Dio. La ricchezza di questo rapporto si riassume nel legame di alleanza: Dio, per puro amore, si fa Dio dell’uomo, quindi si rivela, ama, perdona, corregge, illumina, consola; l’uomo, rispondendo all’amore di Dio col suo amore, crede, conosce, si fida, obbedisce, spera.

  1. Gesù, immagine di Dio

La figura che presenta in perfetta sintesi tutto quanto abbiamo detto finora è naturalmente Gesù di Nazaret. Di lui dice la Lettera ai Colossesi che è «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15) Anzi, in lui «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). S’intende: in lui, uomo. L’uomo Gesù di Nazaret appartiene al mondo in quanto uomo, ma la sua forma umana è plasmata fin nelle fibre più profonde e nascoste dal rapporto con Dio, il Padre. In Gesù l’umanità ha realizzato la sua vocazione di essere immagine e somiglianza di Dio. Anche in questo caso non dobbiamo pensare prima di tutto alla natura divi­na del Verbo, ma al modo concreto in cui Gesù ha sviluppato nel tempo la sua umanità crescendo «in età, sapienza e grazia, davan­ti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52). Gesù, dirà San Pietro, è passato facendo del bene e liberando tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo (e cioè: tutti quelli che erano schiavi del peccato) «perché Dio era con lui» (cf At 10,38); ha parlato con autorità per­ché non parlava da sé, ma diceva quello che aveva udito dal Padre (cf Gv 8,28); ha sofferto l’umiliazione della croce e ha sacrificato la sua vita in obbedienza alla volontà del Padre. La vera, corretta traduzione del volto invisibile di Dio in un volto umano visibile è lui. Ma non basta: l’inno della Lettera ai Colossesi dice che «Egli è anche capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di coloro che risorgono dai morti» (Col 1,18). E cioè: quella nuo­va configurazione che la natura umana ha preso in Gesù e che ha portato questa natura ad essere immagine di Dio, è avvenuta non come se Gesù fosse un fenomeno unico e isolato (lo ricordavamo prima: nessun uomo è un’isola, nemmeno Gesù), ma è avvenuta in lui come primogenito di una moltitudine di fratelli. Da qui viene quella sorprendente espressione che si trova nelle lettere di Paolo secondo cui il corpo di Cristo è composto da tutti i credenti come sue membra; la Chiesa, fatta da una molteplicità di credenti, costi­tuisce l’unico corpo di Cristo sulla terra. Quello che Cristo ha fatto nel suo corpo umano (cioè agire in modo da manifestare l’amore di Dio) Cristo vuole continuarlo attraverso la vita della Chiesa perché l’umanità intera abbia la forma stessa del suo corpo (cioè la forma dell’amore di Dio). Questo avviene in tutte le azioni dell’uomo, nel­la misura in cui queste azioni corrispondono alla volontà di Dio. La conoscenza umana aperta a tutta la verità, le decisioni prese con senso di responsabilità, le azioni indirizzate al bene dell’uomo, l’a­more aperto a tutte le creature e, culmine di tutto, l’amore rivolto a Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze… tutti questi comportamenti realizzano insieme la vocazione dell’umanità nella storia e portano a compimento il disegno di amore di Dio.

Portate pazienza se lo ripeto: è tutto il complesso dell’esistenza umana nella storia, con la sua varietà, creatività, complessità che realizza il disegno di Dio – non solo le azioni religiose (la preghiera e la liturgia). Anche se, naturalmente, in questo sistema immenso che è la storia umana le azioni religiose hanno un loro posto insostitui­bile: anzitutto per quell’amore di Dio sopra ogni cosa nel quale tutte le forme autentiche di amore hanno la loro sorgente inesauribile, il loro compimento e la loro verità; poi, perché le azioni religiose hanno la forza di motivare, correggere, dirigere e sanare il cammino dell’uomo nella storia; questo cammino non è mai perfettamente diritto; è invece segnato da debolezze, errori, cattiverie, falsità e, di conseguenza, ha un bisogno continuo di purificazione e di guarigio­ne e di perdono, ciò che solo l’azione religiosa può attuare.

  1. La vocazione di ogni uomo

A questo punto posso dire sinteticamente il senso della vocazio­ne in genere e della vocazione consacrata in particolare. Vocazione è il riconoscimento che il mondo creato e l’uomo, in questo mondo creato, sono destinati (chiamati, mandati) a portare l’immagine di Dio e quindi del suo amore creativo e oblativo; e vocazione è il ri­conoscimento che ogni esistenza umana concreta – quindi la mia esistenza concreta – si colloca entro questa vocazione universale e contribuisce, per la sua quota parte, a compierla. L’esistenza di ogni uomo si distende nel tempo per contribuire a dare forma al mon­do – a dargli una forma che ne faccia, del mondo, il luogo di una manifestazione sempre più chiara dell’amore di Dio. Non sarebbe difficile applicare questa affermazione alle situazioni concrete di vita. Un medico, per esempio, incarna l’amore di Dio per gli uomini attraverso il suo amore per gli altri operando per la loro salute fisica e psichica; un insegnante lo fa trasmettendo il patrimonio della cul­tura, convinto che questo patrimonio sia indispensabile per vivere in modo umano; un architetto cerca le soluzioni migliori per offrire all’uomo un ambiente di abitazione nel quale egli possa sentirsi a suo agio e così via. Ogni attività umana, se non è un’attività disone­sta, contribuisce alla vita della comunità degli uomini e quindi può essere un atto di amore. Naturalmente, perché l’attività umana sia configurabile come amore si richiedono due condizioni: la prima è che oggettivamente essa dia un contributo positivo alla vita di tutti; di qui l’importanza della competenza, dell’aggiornamento conti­nuo, anche dell’efficienza (che è cosa diversa dall’ideologia dell’ef­ficientismo). La seconda è che il lavoro sia personalmente motivato da un sincero amore per le persone; la presenza di una tale motiva­zione si riconosce nello stile costante della persona, nel suo modo di accostare gli altri, di parlare, di scegliere; e si riconosce nella di­sponibilità ad andare “oltre” le prestazioni richieste dal protocollo lavorativo per immettere nel lavoro valori umani “gratuiti”, come la pazienza, l’affabilità, l’umiltà. In questo modo di vedere si può riconoscere come anche lo studio, la conoscenza, la ricerca facciano parte dell’apprendistato dell’amore perché permettono ad una per­sona di compiere un servizio in modo utile. Su questa dimensione della vocazione non c’è bisogno di fermarsi oltre: il discernimento avviene secondo le attitudini delle persone e secondo i bisogni della società in cui viviamo. E qui il discorso, per farsi concreto, dovrebbe valorizzare l’esperienza dei credenti laici che in ciascuna professio­ne o ambito di vita cercano di incarnare la loro testimonianza cri­stiana; sono loro che conoscono le possibilità, le fatiche, gli ostacoli che ogni forma particolare di vita presenta; e quindi sono loro che ne possono parlare con competenza e in modo credibile. A scanso di equivoci, aggiungo che anche la situazione di chi non può fare al­cun lavoro per una condizione di debolezza, di malattia o di impedi­mento, e ugualmente la condizione degli anziani (che non possono più lavorare) o dei bambini (che non lo possono ancora fare) con­tribuiscono a dare una forma umana alla società; il “sì” che queste persone sono chiamate a dire alla vita contribuisce – e in maniera determinante – al bene della società stessa. Ma questo tema richie­derebbe una trattazione a parte che non possiamo permetterci qui.

  1. La vocazione consacrata

Quanto invece alle vocazioni di consacrazione, la loro presenza nella società degli uomini e nella Chiesa ha bisogno di una rifles­sione ulteriore. Prescindo, qui, dalla molteplicità di servizi che le società di vita consacrata svolgono nel campo dell’educazione, in quello della salute, dell’assistenza sociale, del sostegno in genere alle persone: per tutto questo vale il discorso fatto sopra per le di­verse vocazioni; aggiungendo, però, un elemento specifico. Mentre il servizio professionale è pagato secondo il riconoscimento del suo valore nel sistema economico della comunità, il servizio fatto da persone consacrate ha generalmente una dimensione più o meno grande di gratuità; e mentre il servizio professionale si impegna entro certi limiti di tempo e di responsabilità, il servizio fatto da persone consacrate spesso non ha misura. Non dico questo per fon­dare un giudizio di superiorità o inferiorità, che non avrebbe molto significato; ma per mostrare che la dimensione di consacrazione – strettamente verticale, perché motivata dal rapporto con Dio – pro­duce però anche degli effetti visibili nel concreto della attività – nel­la dimensione orizzontale. A motivo della scelta di povertà, castità e obbedienza, la persona consacrata accetta gioiosamente di rinun­ciare a una parte del suo “guadagno” economico proprio perché si manifesti meglio la gratuità e la generosità del dono di Dio che fon­da una riconoscenza più grande. Voglio dire questo: l’amore di Dio per l’uomo si manifesta sia nel servizio dell’infermiere che fa il suo lavoro per 36 ore alla settimana e per questo riceve il salario con­cordato, sia nel servizio della suora che non ha orari e si accontenta di meno. Ma, evidentemente, la motivazione di fede risplende più chiaramente nel servizio della suora che ha rinunciato a parte del compenso materiale perché dà al suo servizio una valenza di fede e trova perciò, nel servire, una sorgente supplementare di gioia. Il significato primo della consacrazione, però, è un altro: è la risposta diretta, di un amore totale, data a Dio con tutto il cuore; è la procla­mazione sorprendente che “Dio basta” e che, a condizione di vive­re in pienezza il rapporto con Dio, si può rinunciare gioiosamente alla ricchezza (scelta di povertà), a una propria famiglia (castità), a un’affermazione personale (obbedienza), cioè a tutto quello che il mondo può promettere e offrire di più prezioso. Una vocazione così dice al mondo che Dio non è un’idea astratta o un desiderio imma­ginario: è una presenza così vera e così intensa da poter sostenere e motivare, da sola, una vita intera. Il mondo ha bisogno di questa testimonianza perché ha bisogno di rimanere aperto a Dio in modo reale ed efficace. Senza l’apertura a Dio, il mondo si ripiega su se stesso e finisce per esaurirsi nella produzione di beni da consumare e nel consumo dei beni che ha prodotto. L’apertura a Dio pone in­vece nel mondo uno stimolo al superamento di sé nella linea dell’a­more e quindi produce esperienze sempre nuove, desideri “ulte­riori”, valori sempre più ricchi. Non solo: la presenza visibile di Dio in mezzo agli uomini è pegno di un perdono di cui l’uomo ha un bisogno continuo. L’uomo, infatti, se è sincero con se stesso, sa di non essere mai del tutto all’altezza della sua vocazione (immagine e somiglianza di Dio!) e di non riuscire normalmente ad esserlo per molto tempo. Per procedere nel suo cammino ha bisogno sempre di nuovo del perdono di Dio, della sua infinita misericordia che lo solleva e lo rimette in corsa ogni volta. Si capisce bene che il discer­nimento di una vocazione di consacrazione si gioca soprattutto sul­la profondità del rapporto personale con Dio. Perché una esistenza di consacrazione sia vissuta positivamente, bisogna che il mondo della fede sia così vivo nella coscienza della persona da riempire pensieri, sentimenti, desideri, mozioni interiori; da sanare ferite, da dare gioia, da far sopportare fatiche, incomprensioni, mancanze di riconoscimenti. In questa verifica la vita comune è un vaglio prezio­so ed esigente perché nella vita comune vengono immediatamente in luce nevrosi, immaturità, deformazioni nei giudizi, tristezze… Il rischio, infatti, è che la vita di consacrazione sia desiderata come luogo di sicurezza, protetto dai rischi di un’esistenza in campo aper­to, in un mondo difficile e pauroso. Tra parentesi, possiamo dire che questo rischio era più vero in passato che non oggi.

Questo significa che la consacrazione suppone una sufficiente maturità umana: conoscenza di sé, capacità di dialogo con gli altri, tirocinio consolidato di amore e di servizio che tende alla gratuità. Una tale maturità è presupposta, naturalmente, anche nella vocazio­ne al matrimonio: chi si sposa deve essere capace di passare da una visione (e organizzazione) della vita basata sull’affermazione di se stesso e sul raggiungimento dei propri ideali personali a un’esistenza costruita insieme a un’altra persona nella edificazione di quell’edifi­cio meraviglioso e delicato che è la vita di coppia e la famiglia. Nes­suno può ragionevolmente pensare che la convivenza con un’altra persona non comporti la rinuncia a qualcosa di sé; che un ideale di coppia (e, in prospettiva, di famiglia) possa realizzare tutti e singoli i sogni dell’uno e dell’altra. E nessuno può ragionevolmente pensare che mettere al mondo dei figli non comporti una vera rivoluzione nell’organizzazione della vita – con impegni, rinunce, responsabilità. Si può vivere bene il matrimonio se l’amore per il coniuge è tale da motivare il dono di sé e da trasmettere gioia quando si raggiungono gli ideali comuni; se si è aperti alle responsabilità spesso inattese che il futuro presenta (si pensi, appunto, alla presenza dei figli). Non è poco. E forse non è un traguardo che sia sempre raggiungibile pri­ma di sposarsi. Ci vorranno tempo, esperienze, conflitti, correzioni per raggiungere un equilibrio sufficiente, mai definitivo. Ma bisogna che chi decide di sposarsi abbia la consapevolezza di quale sia l’av­ventura originale cui egli dà inizio con la sua scelta. Nessuno può sapere in anticipo dove lo porterà questa avventura e nessuno può programmare con sicurezza i tempi, i sentieri che dovrà percorrere. Una cosa, però, rimane salda e cioè che, vivendo con saggezza la vita con i suoi imprevisti, la persona crescerà nella sua maturità di amore e costruirà un’esistenza secondo la volontà di Dio. Intendo dire una cosa semplicissima: le circostanze della vita possono impedirci alcuni (o molti) degli obiettivi che ci eravamo proposti, ma non possono impedirci l’obiettivo supremo – quello di diventare persone umane o, che è lo stesso da un altro punto di vista, quello di rispondere alla vocazione di Dio, di realizzare quei compiti che Dio ci affida, di con­tribuire nel nostro piccolo a formare un’umanità che sia immagine e somiglianza di Dio.

  1. La vocazione al presbiterato

Una parola, naturalmente, sulla vocazione al presbiterato (e, fatte le debite proporzioni, a qualsiasi ministero nella Chiesa). Il prete è chiamato a edificare e guidare la comunità cristiana attra­verso l’annuncio autorevole del Vangelo, l’azione liturgica in tutte le sue dimensioni, la rete di comunione che unisce famiglie e grup­pi all’interno della comunità. In realtà, la vocazione di un prete è quella stessa di ogni uomo e cioè quella di crescere nell’amore oblativo a somiglianza di Dio che ci ha creati; quella di servire il bene degli altri e di tutta la famiglia umana; quello di trasmettere alle generazioni future un mondo migliore… e così via. Se decide di fare il prete, lo fa perché è convinto, proprio con questa scelta, di fare un servizio utile agli altri, di esprimere nel modo migliore la de­cisione di amare e di servire, di compiere quindi così qualcosa che piace a Dio ed entra nel suo disegno di amore verso tutti gli uomini. Si capisce, allora, che una vocazione al presbiterato può nascere in una persona quando questa persona (1) conosce Gesù Cristo ed è convinto che Gesù Cristo sia uno straordinario dono di amore fatto da Dio agli uomini; (2) considera la Chiesa il “corpo” di Cristo e cioè la presenza visibile, attiva, efficace di Gesù nella storia a favore di tutti gli uomini; (3) è disposto ad assumersi i doveri legati allo stato presbiterale. Una parola per spiegare tutto questo.

Anzitutto la vocazione presbiterale suppone un amore autenti­co nei confronti di Gesù di Nazaret e la considerazione chiara che Gesù è un dono prezioso, anzi decisivo per gli uomini. Quando Andrea, Pietro, Giacomo e Giovanni abbandonarono la famiglia, il mestiere, le sicurezze quotidiane per andare dietro a Gesù, pro­babilmente non sapevano bene chi fosse Gesù, ma dovevano aver ben chiara la percezione che Gesù era un dono apparso sulla loro strada, una possibilità insperata, e che, seguendo Gesù, la loro vita avrebbe preso una direzione di pienezza e di gioia. Poco alla volta debbono avere capito che attraverso Gesù era Dio stesso che aveva fatto irruzione nella loro vita ed era Dio che li chiamava a un servi­zio di dedizione totale. Un prete gioca tutta la sua vita su un’unica carta, Gesù; lo può fare solo se è sicuro che Gesù non sia illusio­ne o inganno. Per avere questa percezione gli potranno essere utili conoscenza storiche, esegetiche, teologiche, ma ciò che è decisivo deve essere un giudizio personale, del tipo: Gesù non mi toglie nul­la di ciò che può essere vero, buono e santo nella mia vita; anzi, m’introduce dentro a un rapporto con Dio che esalta al massimo la mia libertà e la mia responsabilità, la mia vocazione alla verità e al bene; seguire Gesù non può che essere un arricchimento della mia esistenza umana; annunciare Gesù è un effettivo, decisivo servizio che può aiutare le persone a vivere e a realizzare al meglio la loro condizione umana. Ora, un giudizio di questo tipo non viene mai solo dallo studio; può venire solo dall’esperienza di un rapporto vissuto con Gesù nella preghiera e nell’impegno di un’esistenza cri­stiana. Non meravigliatevi se, in questo modo di presentare le cose, non ho parlato immediatamente della vita eterna, del paradiso e della beatitudine che sono l’ultimo vero traguardo di un’esistenza di fede, nella comunione definitiva con Dio. Alla risurrezione dei credenti insieme con Cristo credo con tutto il cuore. Ma mi sembra che questa risurrezione sia la risposta di Dio a un’esistenza terrena vissuta secondo la sua volontà e, quindi, a un’esistenza storica tra­sformata in amore, solidarietà, responsabilità nei confronti degli al­tri. È la vita qui, nel tempo, che sono chiamato a plasmare secondo la chiamata di Dio, proprio perché la risposta di Dio a un’esistenza così possa essere: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padro­ne» (Mt 25,23). Ho parlato della fedeltà nel poco (nel concreto di un’esistenza nel mondo) per poter sperare in un potere sul molto (la gioia della beatitudine).

Una difficoltà, in questa dimensione dell’esperienza di fede – lo si è ripetuto spesso – è quella che viene dal pluralismo religioso e culturale in cui viviamo. Come considerare Gesù Cristo valore defi­nitivo senza, per ciò stesso, temere di disprezzare altre convinzioni religiose? Anzi, senza sentirsi in colpa per questo giudizio? Credo che la via giusta non sia quella del confronto per distribuire valuta­zioni scolastiche, ma piuttosto quella di cogliere in ciò che viviamo la pienezza di tutti i valori umani autentici, nella consapevolezza che i valori costituiscono una scala, che non sono realizzabili tutti insieme, che ci sono precedenze e vie necessarie per giungere alla meta. In concreto, non faccio il confronto tra la fede in Gesù e l’in­segnamento di Buddha; cerco piuttosto di assumere nella fede che vivo tutto ciò che di vero e di santo c’è nelle altre esperienze umane autentiche. Sono convinto – l’ho detto sopra – che la fede in Gesù non mi precluda nessun cammino se non quello che mortifica la mia umanità, o che disperde la mia vita in rivoli contraddittori, o che mi rende ostacolo al cammino dei miei fratelli. So anche che tutto questo è facile da dire, ma tremendamente difficile da sentire; nel nostro cuore sono presenti timori, sospetti, risentimenti che pro­ducono chiusure e contrasti. Ne dobbiamo essere consapevoli per riuscire, con pazienza, a costruire un cuore libero e rapporti sinceri.

La seconda condizione per una vocazione presbiterale è quella di amare senza condizioni la Chiesa comprendendola concretamente come la presenza visibile del Signore risorto nella storia degli uomi­ni, il luogo nel quale il Signore opera efficacemente con la parola e i sacramenti, lo strumento per una trasformazione del mondo secon­do il disegno di Dio. L’uomo non ha bisogno della Chiesa – almeno teoricamente – per vivere un rapporto autentico con Dio creatore; ma l’uomo ha certamente bisogno della Chiesa per vivere questo rapporto attraverso Gesù, attraverso l’incontro con la sua umanità concreta. Le idee vere possono essere capite e credute indipenden­temente da qualsiasi riferimento visibile; ma il rapporto personale con Gesù, quel rapporto che passa attraverso la sua umanità, non può essere vissuto senza riferimento ai segni visibili nei quali questa umanità si fa presente nel tempo e nello spazio del mondo – cioè la Chiesa. Chi accetta di essere prete, accetta di mettersi al servizio della Chiesa perché sa che essa è insostituibile per trasmettere Gesù Cristo agli uomini d’oggi. Questa fede rivolta alla Chiesa è neces­saria per fare il prete e porta ad accettare il funzionamento della Chiesa così come esso è di fatto. Non voglio dire che non si possa­no desiderare o promuovere cambiamenti; la Chiesa vive di una riforma continua, di una conversione sempre rinnovata. Non solo è lecito, ma è doveroso desiderare e operare per le trasformazioni che rendano la Chiesa più fedele al Vangelo e più capace di parlare all’uomo d’oggi. Ma tutto questo non deve cancellare la convinzio­ne che la Chiesa, così com’è, è di fatto il corpo vero di Cristo. Un prete non può amare la Chiesa sotto condizione, del tipo: la amerò davvero quando la Chiesa si mostrerà libera da questo o quel difet­to, da questo o quel limite che proprio non riesco a sopportare.

A tutto questo bisogna aggiungere due brevi riflessioni. La prima è che bisogna applicare alla vocazione presbiterale quello che abbia­mo detto sopra della vocazione a una vita consacrata. È vero che un prete non fa voti di povertà e di obbedienza; ma è altrettanto vero che un prete impegna tutto se stesso nel ministero. Non fa solo al­cuni servizi indispensabili alla vita della Chiesa, ma accetta di essere lui stesso, il prete, un sacramento di Cristo pastore. E non c’è dub­bio che può essere sacramento nella misura in cui è coinvolto total­mente nel ministero. Il pastore di cui il prete è sacramento è quello che «ha dato la vita per le pecore» (cf Gv 10,15), non ha quindi solo fatto un servizio particolare a tempo; il suo servizio fondamentale è stato requisire la sua stessa vita per farla essere servizio, dono, offerta. Un cristiano può e deve vedere nel prete una persona che vive per lui, che per lui parla e per lui sacrifica il suo tempo e i suoi progetti. So bene quanto grande rimanga la nostra fragilità; ma mi sembra che la via della gioia sia aperta per noi solo se entriamo con decisione in questa via di consacrazione di vita.

La seconda riflessione è altrettanto importante e difficile e ri­guarda la sessualità e il celibato. Nella disciplina della Chiesa il mi­nistero presbiterale è legato alla scelta di essere celibe e quindi di rinunciare a costruire un rapporto di coppia vivendo la propria vo­cazione all’amore umano in una dimensione insieme più ristretta (perché rinuncia all’esercizio della genitorialità) e più ampia (per­ché riferita non a un’altra singola persona, ma alla comunità cri­stiana intera). Non c’è bisogno che sottolinei l’importanza che ha la sessualità nell’equilibrio umano e psicologico della persona. Non è nemmeno ora il momento di ripercorrere il Nuovo Testamento per vedere come, all’interno di un rapporto di fede con Gesù, la vergini­tà diventi una scelta possibile e desiderabile per il credente. È chiaro che una scelta di questo genere può nascere dove il rapporto con Dio e con Gesù è così umanamente profondo che non lascia spazio per altri interessi totalizzanti. Questa condizione è previa rispetto alla scelta del ministero. In altri termini: la Chiesa ha deciso di con­ferire l’ordinazione sacerdotale solo a persone per le quali la perce­zione del valore del Regno – e cioè di Dio col suo amore e la sua ri­velazione in Cristo – è così profonda e così pervasiva da non lasciare posto ad altri desideri o progetti totalizzanti. Di conseguenza, nel discernimento della vocazione presbiterale, ha un’importanza deci­siva la verifica che una vita celibe sia vivibile dalla persona con un sufficiente equilibrio psicologico e affettivo; bisogna evidentemente evitare che l’esistenza presbiterale sia vissuta con tensioni psicolo­giche troppo forti o, peggio, in un’ambiguità non risolta. Nell’uno e nell’altro caso la figura del prete, invece di diventare segno credi­bile dell’amore di Dio per gli uomini, rischia di diventare una con­trotestimonianza. E non solo quando siamo di fronte a situazioni irregolari, ma anche quando si manifestano nevrosi che nascono da un’esistenza non sufficientemente armonica. I rischi sono tanti: che una persona non sia sufficientemente consapevole delle sue pulsioni; che la disciplina esterna mascheri le disarmonie interiori; che ci si adatti a compromessi… Tutto questo avrà bisogno anche di competenze psicologiche per essere chiarito – anche se la psicologia rimane ancora una scienza agli inizi, ben lungi dal dominare il suo campo di azione.

 

Conclusione

Credo di potere riassumere come segue quanto finora detto.

– L’esistenza dell’uomo nel mondo nasce da una chiamata-missione di Dio il cui contenuto essenziale è che l’uomo sia a sua “immagine e somiglianza”. Ciò significa che l’uomo è chiamato a operare in modo che la presenza e la sovranità di Dio appaiano nel mondo sempre più evidenti.

– L’uomo risponde a questa vocazione essenziale facendo della sua vita un lungo, incessante processo di crescita nel quale diventa sempre più evidente il suo servizio della verità e del bene attraverso l’attenzione al mondo, la comprensione intelligente delle cose, la formulazione di giudizi corretti, l’assunzione di decisioni respon­sabili, la scelta concreta del bene, l’apprendistato dell’amore fino all’amore oblativo.

– L’uomo vive questa vocazione in tutti gli ambiti della sua espe­rienza (rapporti interpersonali, sociali, professionali…) nella misura in cui sa trasformare tutto quello che fa in servizio e amore.

– Il cristiano vive come tutti gli uomini questa dinamica vocazio­nale, ma la vive in modo particolare attraverso la fede in Gesù che rappresenta l’uomo autentico, immagine vera del Dio invisibile e quindi modello e origine dell’esistenza cristiana.

– Il consacrato introduce nell’esistenza della Chiesa l’attenzione diretta a Dio da amare con tutto il cuore; in questo modo contri­buisce in modo decisivo a tenere aperto il mondo al mistero di un Dio trascendente. È proprio questa apertura che mantiene la salute spirituale del mondo: relativizzando tutte le conquiste e i possessi del mondo; stimolando a un superamento di ogni equilibrio, alla ricerca di quel bene che è oltre tutti i beni particolari; offrendo sempre di nuovo l’annuncio del perdono di Dio per risanare tutte le ferite della fragilità e della cattiveria umana.

– Il prete assume molti aspetti della vita di un consacrato, ma orienta tutta la sua vita all’edificazione della Chiesa nel concreto delle comunità cristiane. Per fare questo deve avere un amore per­sonale, intenso anche dal punto di vista affettivo, per Gesù Cri­sto, un amore leale e senza condizioni verso la Chiesa concreta, un amore appassionato ed effettivo verso tutti gli uomini.