N.04
Luglio/ Agosto 2013
Studi /

Papa Paolo VI: un profilo spirituale

  1. La scelta del ministero presbiterale

Giovanni Battista Montini nasce a Concesio il 26 settembre 1897. Egli compie gli studi primari e secondari a Brescia, presso il Collegio Cesare Arici, retto dai Gesuiti. Nel 1916 inizia gli studi teologici presso il Seminario della diocesi di Brescia e il 29 maggio 1920 riceve l’ordinazione presbiterale dal vescovo di Brescia Giacinto Gaggia. L’educazione familiare rappresenta un primo e decisivo elemento che permette di comprendere la figura di Paolo VI e la sua scelta di dedicarsi al servizio della Chiesa. Nella formazione del futuro Paolo VI le dinamiche comuni della relazione tra genitori e figli si intrecciano con il ruolo pubblico della famiglia Montini nell’ambito ecclesiale, sociale e politico tra la fine dell’Ot­tocento e l’inizio del Novecento. Il padre, Giorgio Montini, è stato infatti un protagonista di primo piano del movimento cattolico ita­liano all’interno dell’Opera dei Congressi, ha partecipato alla vita amministrativa locale e ha contribuito alla formazione del Partito Popolare Italiano, nelle cui liste è stato eletto deputato nel 1919. Egli si è dedicato anche all’attività giornalistica come direttore del Cittadino di Brescia e nel 1904 è stato tra i fondatori dell’Editrice La Scuola.

Il rilievo dell’educazione familiare è ancora più significativo alla luce del fatto che Giovanni Battista Montini ha sì frequentato lezioni del corso teologico del Seminario Vescovile di Brescia, ma per ragioni di salute non ha mai vissuto in Seminario, così che la sua formazione ha seguito percorsi assai diversi da quelli comuni per i chierici del tempo, con un’importanza dell’ambiente familiare e della sua rete di relazioni che non può essere sottovalutata.

Giovanni Battista Montini deve la sua formazione spirituale fon­damentalmente al filippino padre Paolo Caresana. «La vostra pa­ternità è stata il mio Seminario» – scrive Giovanni Battista Montini a padre Caresana in una lettera del 13 aprile 1923, riconoscendo il ruolo avuto da questa guida spirituale nella sua formazione1. In que­sta relazione entra, seppure con estrema discrezione, anche il padre Giorgio che, in una lettera a Battista dell’11 settembre 1913 scrive:

«Mi pare buona cosa che tu colga questa bella occasione per aprirti col R.P. Caresana sui tuoi progetti per l’avvenire: egli è per­sona che può giovarti di consiglio, e, in cose di alta importanza, i consigli di persone assennate e sante non sono mai inutili. Comun­que, ti lascio pienamente libero di regolarti come ti sembra più op­portuno. E che il Signore ti ispiri, ti guidi e ti benedica».

È dunque il padre che, di fronte agli interrogativi e alle incertez­ze del figlio, gli indica la guida spirituale che può accompagnarlo e sostenerlo nelle sue decisioni. Se Giorgio Montini interviene in questo campo con estrema discrezione – «ti lascio pienamente libe­ro di regolarti come ti sembra più opportuno» – non si ritira tuttavia completamente e nel dialogo epistolare tra padre e figlio affiorano spesso i temi legati a una scelta di vita che, maturata nell’intimo, con l’inizio della frequenza dei corsi del Seminario e poi con la ton­sura e il conferimento degli ordini minori, assume anche un carat­tere pubblico.

La prima manifestazione del proprio orientamento al ministero della Chiesa si riscontra però nelle lettere indirizzate dal Giovanni Battista Montini al fratello Lodovico e all’amico Andrea Trebeschi. In una lettera indirizzata a quest’ultimo il 29 settembre 1915, G.B. Montini scrive:

«Io me ne sto godendo questi bei giorni di vacanza: incomincio finalmen­te a gustare la meravigliosa bellezza della natura trovandovi la mano del Creatore: se avessi visto in queste sere che luna! Non mi sarei stancato mai di guardarla: quante bellezze in questo mondo! chissà nell’altro! M’accorgo che quando guardo il cielo stellato o pieno di luna, oppure vengo a parlarne, mi do alla poesia del sentimento: il che forse ti farà sorridere avendotene parlato altre volte. Abbiamo tanto bisogno di avere intorno a noi la bel­lezza, ciò che ci piace, ciò che soddisfa la nostra povera anima, che quando troviamo una briciola di ciò che cercavamo, non finiamo di contemplarla e di sfruttarla per impossessarci totalmente di lei. È questo il riassunto di tutti i miei stati d’animo: una sete continua di felicità. E il male si è che non sem­pre è pura la fonte a cui noi vogliamo attingere e cerchiamo questa felicità: oh se sapessimo trovare la gioia nel sacrificio! Ora ti ringrazio d’avermene tu tante volte dato l’esempio: prega perché il sacrificio nel Signore diventi la soavità, la dolcezza, il mio cibo quotidiano».

La scelta di vita si dispiega dunque come ricerca del modo di realizzare l’aspirazione alla felicità, a una pienezza di vita, come risposta al desiderio di essere partecipe della bellezza che è possibile contemplare nel mondo – «abbiamo tanto bisogno di avere intorno a noi la bellezza, […] che quando troviamo una briciola di ciò che cercavamo, non finiamo di contemplarla e di sfruttarla per impos­sessarci totalmente di lei» – e che tuttavia può essere anche illuso­ria, come suggerisce l’allusione al fatto che «non sempre è pura la fonte a cui noi vogliamo attingere e cercare questa felicità». E allora entra in gioco il sacrificio – termine opposto alla ricerca della feli­cità – che caratterizza fin dalle prime manifestazioni la descrizione della vita che Giovanni Battista Montini intende abbracciare e che suggerisce l’inevitabile aspetto di rinuncia che ogni scelta porta con sé, ma che assume un rilievo particolare nella scelta di consacrarsi al ministero della Chiesa.

Il tema del sacrificio si trova in particolare evidenza in una lette­ra al fratello Lodovico del 1° ottobre 1916:

«Poiché è appunto a una vita di sacrificio che vorrei prepararmi, ma lussureggiante d’amore. E sono già tre anni che penso a questo momento. Ora è lo svolto più importante della mia esistenza terrena. Questi momenti solenni della mia vita, resi più decisi e emozionanti dalla tragedia che ci circonda [la prima guerra mondiale], non poteva rendermeli il Signore più belli che con tutta la dimostrazione d’affetto di cui voi tutti mi fate oggetto: voi guardate a me come a colui che ha trovato la via sicura, ignota e strana agli altri, grande e regale all’occhio cristiano; io guardo a voi che dovete ri­coprire la mia vera meschinità colla benevolenza, con la preghiera, con ogni aiuto di cui disponete».

Nel momento in cui inizia a frequentare i corsi del Seminario, in una lettera del 7 ottobre 1916, rende partecipe il fratello Lodovico dei propri sentimenti:

«Lascio alla Mamma l’informarti della maniera colla quale si vien effet­tuando il mio disegno: io ti dico una sola cosa, mi limito a segnare di questo mio atto solenne il contorno, ma che vuol essere anch’esso pieno di luce, d’amore, non privo delle ombre, non privo di linee miseramente indecise. Voglio dire che io sono arrivato fin presso all’esecuzione del comando divino non senza sentire in me delle stigmate profonde e dolorose di male, di debo­lezza, d’ingratitudine. Oh, come questo mi confonde in questi momenti che desidererei privi d’ogni macchia, che vorrei frutto d’una costanza assidua, d’una corrispondenza è perfetta alla voce che mi chiama alla felicità! Perché attraversando un campo di sacrificio io arrivo alla felicità! Ecco la mia vita, ecco la verità, il perché del mio abbandono, ecco la vita della mia vita. Oh! cos’è mai la felicità. Ti risponderà il filosofo essere l’unico movente delle azioni umane, l’unica cosa che manca all’uomo. Ti dico io ch’essa m’è così vicina, ch’io la posseggo, io la tocco, … Infatti com’è possibile ch’uno vicino al fuoco non senta calore. E come è possibile essere vicini al Salvatore, a Gesù, alla vite che dà la vita ai tralci senza sentire la pace che dispensa e che il mondo non può turbare? E senza sentirsi investiti malgrado l’indefinita miseria, bassezza, incostanza nostra dalle sue parole: – Non si turbi il cuor vostro – Allora come il piccolo Davide contro Golia, balzerò dalla sfera delle vicende umane che mi circondano, dal numero dei miei amici, dalla mia famiglia, dalla mia stessa persona, e uscirò per combattere la causa del bene, nel tempio di Dio, tra l’insulto e il disprezzo, tra gli sguardi del popolo fissi su di me, quasi obbligo imprescindibile di vincere ad ogni costo».

Il tema della vocazione, con il contrasto tra la grandezza dell’i­deale scelto e l’esperienza del proprio limite, è ricorrente nello scambio epistolare con padre Paolo Caresana. Il 17 settembre 1919 Montini scrive al suo padre spirituale:

«E beato Lei che è sempre sereno e sa vedere così presto e così chiaro il volere del Signore nella fatica e nel riposo, anche forzato. Io invece ho la cattiva disposizione d’animo di giungere alla visione della volontà di Dio dopo una lunga discussione, dopo lunghi rimpianti umani. Sono troppo poco coraggioso perché troppo superbo e pauroso quindi di perdere, come se tanto valesse, ciò che proprio m’affligge, la volontà mia. Lei lo sa, e quella nostra ultima conversazione dell’altro ieri non può che averneLa maggior­mente convinto. […]

Da quando il Signore fu buono con me col chiamarmi, non ho mai cessa­to di sentirmi invaso dalla febbre dello spirito, un acceleramento di attività interiore, una sensibilità acutissima di anima, un delirio quasi di gioia, di stanchezza, di sudore, di paura, continuamente. “J’ai l’extase et j’ai la ter­reur d’être choisi” [P. Verlaine]. Ora cerco di raccogliere come conclusione un sentimento solo, tranquillo, umile e fervente: – volo quod vis, volo quia vis, volo quomodo vis, volo quamdiu vis –. Che il Signore voglia in me e contro di me. Questo è stato per me un segno di sicurezza nella vocazione, voler mio malgrado, voler l’opposto di quello che l’uomo vuole, e tante cose ho voluto, quasi per disposizione naturale. Infatti ho avuto agio quest’anno d’osservare le mie facoltà interiori, e sono giunto a questa conclusione, che credo sicura per quanto poco lusinghiera, che la Provvidenza cioè mi ha dato una mente versatile, ma debole, e quindi una volontà dagli smisurati e in­numerevoli desideri, ma fiacca, questi desideri, come altrettante vocazioni, mi sono e mi passano davanti. Quando pensai d’utilizzarli bene a gloria di Dio, colla rinuncia quindi alla gloria loro, credetti di poter desiderare uno studio lungo, ampio, profondo che occupasse questi anni di preparazione; ora vedo che Gesù morì spoglio di tutto e che il sacrificio mio che mi prepari al Sacrificio dell’altare, mistico sacrificio del calvario, debbono avere una ras­somiglianza, quasi un’unione, un’unità. Perciò mi concentro in quell’unico volo che m’ha messo in traspirazione di sforzo e di ardore».

Nelle lettere di Giovanni Battista Montini ritorna spesso il senti­mento acuto del proprio limite, percepibile anzitutto nella fragilità della salute, e dell’inadeguatezza ai compiti che sarà chiamato ad assumere. Sotto questo aspetto il sostegno della famiglia è stato per lui decisivo per superare gli ostacoli e perseverare nel cammino in­trapreso.

«Ho ricevuto stamane il tuo biglietto – scrive al padre – e te ne ringra­zio come degli auguri più cari della persona più cara; essi sono la mia spe­ranza quotidiana senza di cui non saprei come procedere d’un passo nella via incominciata, e vedo che per aiuto divino essi si compiono pur lasciando­mi la fatica e la sensazione della fragilità umana» (18 dicembre 1919).

Sul tema della scarsa salute e delle incertezze di Giovanni Battista circa il futuro che lo attende il padre ritorna in una lettera del 21 gennaio 1921, quando ormai, dopo l’ordinazione, Giovanni Battista si trova a Roma per proseguire gli studi; nel suo scritto, dopo aver sottolineato che anche i problemi di salute possono avere un significato provvidenziale, il padre aggiunge:

«Capisco che tali disposizioni d’animo diventano facili alla mia età: alla tua è molto difficile invece accogliere con serenità e pazienza i capricci della salute, ma c’è maggior merito a farlo. E tu, che hai tante buone disposizioni per uniformarti alla volontà del buon Dio, ti appresti con ciò stesso il mezzo per volgere a bene del tuo spirito e della tua missione la mancanza di robustezza che ti fa “invidiare” – come tu dici – la salute de’ tuoi condiscepoli.

Forse il Signore ha scelto questa via per indirizzarti nella tua vocazione e nei modi di esercitarla. Siamo nella Novena del nostro S. Francesco di Sales, Egli pure fu travagliato nella salute: preghiamolo insieme che ti ottenga la grazia di fare pazientemente, se non lietamente, giorno per giorno ciò che le tue forze ti consentono. Al resto provvederà il Signore.

Ma, ahimé! che cosa sto facendo! la predica a un Reverendo della “Sapienza” di Roma. Taglio subito corto, anche senza raccomandare l’elemosina.

Ti raccomando in cambio di scrivere spesso, di studiar poco, di mangiare meglio che puoi, di non dimenticare la cura delle uova, e di abbracciare per me Lodovico nostro» (21 gennaio 1921).

Questo passaggio racchiude alcuni dei registri fondamentali del rapporto tra Giovanni Battista Montini e la sua famiglia, che rappresenta l’ambiente decisivo all’interno del quale è maturata la sua scelta di vita. Lo scambio epistolare con i familiari esprime il sostegno e l’incoraggiamento della famiglia per le scelte, anche tormentate, che Giovanni Battista si trova via via a compiere. Dall’epistolario emerge inoltre la testimonianza di una tradizione di fede e di una spiritualità ispirata a San Francesco di Sales, coltivata in famiglia, che può guidare e orientare la vita anche nei momenti di incertezza e di difficoltà. Non manca nelle lettere anche l’ironia: il padre si rende conto di aver fatto la predica al figlio “Reverendo” e aggiunge che intende almeno astenersi dalla esortazione a fare l’elemosina. L’epistolario rivela infine la concretezza delle cose – il cibo, i tempi dello studio, le uova – che non richiamano solo la necessità di soddisfare i bisogni fondamentali, ma sono anche la cifra di un rapporto che rifugge da ogni astrattezza e retorica ed è invece intessuto di vita quotidiana.

  1. Alla scuola di San Paolo

Nel 1920, dopo l’ordinazione, Giovanni Battista Montini si tra­sferisce a Roma per proseguire gli studi. Tra il 1920 e il 1922 fre­quenta i corsi presso la Pontificia Università Gregoriana e presso la Sapienza. Entrato nel 1921 all’Accademia dei Nobili Ecclesiastici, dove si preparavano i futuri diplomatici della S. Sede, nel maggio 1923 è inviato a Varsavia come addetto alla Nunziatura Apostolica. Rientrato in Italia nell’ottobre dello stesso anno, inizia la sua attività nella Segreteria di Stato, che fino alla fine del 1954 rappresenterà il suo principale campo di lavoro. Accanto all’impegno a servizio della S. Sede, si dedica all’attività pastorale tra i giovani universitari ed è nominato dapprima (1924) assistente ecclesiastico del Circolo romano della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), quindi nel 1925 assistente ecclesiastico nazionale della stessa Fe­derazione, carica che mantiene fino al 1933 quando, in seguito a contrasti sorti circa l’orientamento della proposta formativa rivolta agli studenti universitari, è costretto a lasciare l’incarico.

I primi anni del ministero di Giovanni Battista Montini hanno dunque visto l’uno accanto all’altro il lavoro in Segreteria di Stato e l’attività pastorale fra i giovani studenti universitari della FUCI. Quest’ultimo era il campo di attività che Montini preferiva. In una lettera del 19 novembre 1930, indirizzata a don Giuseppe de Luca, Montini scrive: «Tu scegli i libri, io vorrei scegliere le anime». Con queste parole l’assistente della FUCI rispondeva a don Giuseppe de Luca, il quale gli aveva manifestato le sue perplessità circa l’im­postazione data alla formazione intellettuale all’interno delle as­sociazioni cattoliche del tempo, condizionata a suo giudizio da un attivismo eccessivo e inconcludente. Montini, al contrario, vedeva l’impegno formativo nell’associazionismo universitario cattolico come strumento irrinunciabile per una formazione cristiana degli studenti, inserita nel quadro di un’unitaria formazione intellettuale e professionale.

Negli anni della sua attività in mezzo agli studenti ha percorso un itinerario di studio e di meditazione delle lettere dell’apostolo Paolo. Gli interrogativi che egli rivolge all’apostolo nascono in una situazione personale che lo vedeva diviso tra il lavoro in mezzo agli studenti universitari, per il quale si sentiva portato e al quale si dedicava con passione, e un lavoro di ufficio, più arido, del quale cercava di capire il significato spirituale e il valore come servizio alla Chiesa.

Dagli appunti sulle lettere di Paolo, che documentano la rifles­sione di Giovanni Battista Montini tra il 1929 e il 1933, vorrei rac­cogliere tre annotazioni, che illustrano altrettanti aspetti del modo in cui Paolo ha vissuto il proprio compito apostolico e che posso­no diventare specchio in cui esaminare il ministero pastorale della Chiesa e i modi di esercitarlo.

Nel primo capitolo della Prima Lettera ai Corinti Paolo parla della «parola della croce» che egli annuncia, la quale è «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani», ma per coloro che sono chiamati è «potenza di Dio e sapienza di Dio». L’apostolo aggiunge che il suo ministero è stato conforme alla parola annunciata: «Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molta trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza».

In questa presentazione che l’apostolo fa del proprio modo di predicare il Vangelo, secondo G.B. Montini, è possibile leggere una caratteristica di ogni ministero ecclesiale, chiamato all’annuncio della Parola: il messaggio viene prima del messaggero e la parola annunciata, con la forza di cui essa è portatrice, deve avere la pre­cedenza sulle capacità retoriche e intellettuali di chi è chiamato a trasmetterla.

«La grande regola della predicazione evangelica è preferire il contenuto alla forma; quel contenuto paradossale e misterioso a qualsiasi forma cerca­ta per attenuarne la sincerità dell’affermazione. La forma dev’essere prete­rintenzionale. Cioè il predicatore deve lui stesso così imbevere la sua vita, la sua persuasione, la sua mente del soggetto che tratta che gli sia spontanea la manifestazione “spiritus et virtus”»2.

Questo significa che il ministro non può mai trovarsi in primo piano rispetto al messaggio che proclama, ma tutto quello che fa e dice deve essere a servizio della comunicazione della parola che gli è stata affidata.

«Nel ministero ecclesiastico bisogna far emergere Dio. Così il ministro è invulnerabile alla critica, è sollevato nei suoi difetti, è stimato per il fattore divino del suo ufficio, è sollevato su l’assemblea dei credenti. Ma nello stesso tempo è invitato e costretto quasi, se non vuol far violenza alla natura del suo stesso incarico onorifico, ad umiliarsi continuamente e a professare per primo ed a proprio riguardo l’annientamento del ministro dinanzi al Divino Padrone»3.

La sottomissione dell’apostolo alla parola che gli è stata affidata, non toglie nulla alla qualità umana dei rapporti che Paolo stabilisce con le comunità che ha fondato e con le quali mantiene i contatti attraverso le lettere. Al contrario, il suo è un rapporto con i fedeli che manifesta tutta la ricchezza dei modi in cui si esprime l’affetto umano.

Nelle note si parla dei «rapporti di confidenza e di affezione cristiana fra ministro e fedeli»4 e il vincolo che unisce Paolo alle sue comunità è descritto come «una relazione di amicizia, di paternità»5.

«L’affetto ch’egli porta a coloro a cui annuncia la parola divina distingue la sua predicazione da quella profetica, pur essa calda di sentimento, ma più impersonale tanto per riguardo al profeta quanto per riguarda all’uditorio. S. Paolo paragona se stesso a una nutrice e a un padre. E sembra che le pene incontrate e subite per il suo ministero, invece di rendere fredda e diffidente la sua azione, come capita a troppi pastori dominati dalle difficoltà, la stemperano, la accendono, la rinvigoriscono con affettuosità commossa e commovente. Bisogna amare molto quelli ai quali si vuol fare del bene»6.

Nel commento alla Lettera ai Filippesi è messa in rilievo la diversità esistente tra i rapporti cordiali dell’apostolo con i suoi collaboratori e «lo stile burocratico cui talora l’apostolato moderno crede dover dare la preferenza»7. L’affetto di Paolo per i collaboratori e i fedeli non è quindi solo espressione di una caratteristica personale dell’apostolo, ma rivela un principio che ha validità generale e una condizione per un esercizio fruttuoso del ministero:

«Senza un tessuto sentimentale, ove la carità mostri la presenza sua, le relazioni, anche più strette da vincoli gerarchici, si dissolvono, si affievolisco­no e in parte si snaturano, ché altri sentimenti, che alla carità non si riferi­scono e forse si oppongono, vengono ad interferire tra persona e persona, e all’effusione della bontà, dell’amicizia, della pietà, della stima, della fratel­lanza, della compassione, della spiritualità, della concordia, della comune speranza subentra insensibilmente l’affermazione della propria preminen­za, del proprio merito, del proprio diritto, della propria difesa, dell’egoismo insomma inesorabile dissolvitore della carità della Chiesa»8.

Le note insistono in particolare sulla necessità di non scambia­re l’esercizio dell’autorità pastorale con l’atteggiamento autoritario della gente che «va avanti alla cieca, parla senz’essere ascoltata; si fa ubbidire senza farsi amare»9. Non c’è alcun dubbio che l’autorità del pastore non sia fondata sulle doti umane personali, «ma deve pur compiere un’opera che le anime o prima o poi debbono sentire salutare, e vivificante; altrimenti non verrà meno in se stessa, mai, ma mancherà al suo fine, farà il vuoto d’intorno, si priverà della fiducia delle anime, faticherà per nulla. La fiducia delle anime: ecco ciò che sottintende o intende l’Aposto­lo. Bisogna pensarvi, bisogna meritarla»10.

Una terza caratteristica del ministero apostolico è riassunta nella formula “coscienza ecclesiastica” che viene utilizzata per indicare il tema della Lettera a Tito e, più in generale, si riferisce all’insegna­mento delle Lettere pastorali circa le virtù dei ministri della Chiesa.

Perché Paolo apre le sue lettere sempre presentando se stesso e la propria vocazione e ministero di apostolo? Non si tratta semplice­mente di un uso dettato dalle regole dello stile epistolare. La ragione è più profonda: «S. Paolo comincia dalla sua coscienza. È estremamente importante per chi ha un dovere spirituale da compiere avere sempre vigile e precisa la coscienza del proprio ufficio»11. Questo vale anche per i pastori della Chiesa. Il primo mezzo di santificazione a disposizione della gerarchia ecclesiastica è «la coscienza della dignità del proprio ministero. Ancor prima della riforma della condotta, il clero deve badare ad avere una coscienza esatta ed elevata del proprio ufficio: lo spirito sacerdotale gli è in­nanzi tutto necessario»12.

La radice del fare cui il ministro è chiamato si trova nella co­scienza di quello che egli è e della vocazione ricevuta. Si tratta di diventare sempre più consapevoli non solo della propria identità, ma anche del legame tra la propria vita e la chiesa al cui servizio si è stati chiamati.

La coscienza ecclesiastica non è un vago sentimento, ma è stret­tamente legata ad una “coscienza professionale”. È abbastanza sor­prendente trovare nelle note su San Paolo questo concetto, che appare a prima vista troppo profano. Eppure Montini parla di una “coscienza professionale” che deve essere formata nel clero e con questa formula indica il «desiderio e abilità di fare le cose bene, con proprietà, con efficacia, con impiego di forti virtù naturali a soste­gno della missione soprannaturale»13.

Coscienza ecclesiastica significa anche consapevolezza della di­gnità del proprio ministero. Questa, in genere, nella storia della chiesa, è stata ben presente, anche se ha spesso trovato espressione in forme storiche che hanno indotto a ricercare prevalentemente il prestigio sociale. In realtà:

«l’unica ambizione che un sacerdote dovrebbe avere non dovrebbe esser quella di aggiungere o titoli, o abiti, o lode profana al suo nome, ma quella d’essere conosciuto, stimato, cercato come “episcopo” come direttore di ani­me, come maestro di spirito, come intermediario fra Dio e gli uomini. La ambizione di aggiungere qualche cosa a questa prerogativa (quando non sia giustificata da necessità ecclesiastiche) dimostra una scarsa comprensione di essa: aggiungere è disconoscere, forse è avvilire»14

La coscienza ecclesiastica, cioè la consapevolezza del legame tra la propria vita e la Chiesa, ha come conseguenza anche che il pasto­re non può più essere considerato una persona privata. La sua vita si svolge sotto lo sguardo di tutti ed è continuamente sottoposta al giudizio della comunità cristiana. Ciò richiede, da una parte l’esem­plarità nella vita cristiana e nella dedizione al ministero.

«Il Pastore deve resistere alla prova della lente d’ingrandimento; troppe persone guardate da vicino sono prive di quelle virtù veraci e interiori su cui deve basarsi realmente la formazione del popolo cristiano. L’uomo privato nella Chiesa non deve smentire nella stessa persona l’uomo pubblico»15.

Dall’altra, il pastore deve fare tesoro anche della valutazione che il suo ministero riceve da parte dei fedeli e del modo in cui la sua azione è accolta.

«Se più spesso gli uomini di Chiesa pensassero alle impressioni che fanno su l’animo del fedele e si preoccupassero di produrle buone ed evangeliche, la loro vita sarebbe migliore e più feconda di virtù. Sovente invece essi si schermiscono da questo ossequio al giudizio degli umili perché pensano che l’autorità propria non deve rendere conto agli uomini, ma non pensano che all’autorità è fatto obbligo di rendersi illustre ed amata per esempi generosi ed eloquenti»16.

È un ministero che non ha paura di esercitare l’autorità quello descritto nelle note su San Paolo di Montini. Ma è anche un mini­stero che deve sempre più tendere ad un esercizio dell’autorità con­forme ai criteri evangelici. E i tre aspetti ricordati – la priorità della parola, la qualità umana delle relazioni, la coscienza ecclesiastica – indicano condizioni che evitano deformazioni dell’autorità o modi di esercitarla che hanno poco a che vedere col Vangelo.

  1. Vocazione e ministero

Il 13 dicembre 1937 Giovanni Battista Montini è nominato Sosti­tuto della Segreteria di Stato e il 29 novembre 1952 Pro-Segretario di Stato per gli Affari Straordinari. Dopo la morte del card. Ildefon­so Schuster, il 1o novembre 1954 è eletto da Pio XII arcivescovo di Milano. Il 15 dicembre 1958 è creato cardinale da Giovanni XXIII.

Il 21 giugno 1963 Giovanni Battista Montini è eletto alla sede di Pietro e prende il nome di Paolo VI. Nei primi anni del pontificato l’impegno di Paolo VI è stato rivolto anzitutto alla continuazione e alla conclusione del Concilio Vaticano II che il suo predecessore Giovanni XXIII aveva convocato e che nel suo primo periodo aveva visto una grande vivacità del dibattito, ma anche un’evidente diffi­coltà a definire un disegno organico e coerente per i propri lavori. Nel discorso di apertura del secondo periodo conciliare, il 29 set­tembre 1963, Paolo VI delinea il suo piano per la prosecuzione dei lavori conciliari e indica ai padri quattro priorità: «La conoscenza, o, se così piace dire, la coscienza della Chiesa, la sua riforma, la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità, il colloquio della Chiesa col mondo contempo­raneo».

Alla ricerca degli storici e alle loro ricostruzioni spetta il compito di mettere in luce le grandi scelte che hanno orientato il pontificato, le risposte date ai problemi emergenti nella Chiesa e nel mondo e le trasformazioni avvenute nella vita ecclesiale e nelle istituzioni. Ma al di là dell’idea e del progetto che le prese di posizione e le scelte compiute lasciano intravedere, in ogni persona protagonista di vi­cende storiche alcuni aspetti rimangono insondabili e come avvolti nel mistero. E ancor più nascosta rimane la sorgente intima da cui scaturiscono le scelte, che i gesti e le parole non riescono mai a ren­dere del tutto trasparente.

Senza la presunzione di svelare questo segreto, un accostamento al pontificato di Paolo VI che, attraverso gli scritti di carattere au­tobiografico o spirituale, si sforzi di coglierne il lato personale e di comprendere il rapporto tra la persona e il ministero non è privo di interesse. In Paolo VI infatti una persona, con la sua storia, il suo temperamento, la sua sensibilità, la sua cultura, la sua fede, la sua spiritualità si incontra con un ministero, al quale è affidato un compito essenziale a servizio dell’unità della Chiesa e che, insieme, porta i segni della storia millenaria attraverso cui ha preso forma e si è trasformato. Questo intreccio tra individualità personale e og­gettività istituzionale si incontra in ogni vocazione cristiana che si incarna in un servizio ecclesiale, ma quanto più ampia è la respon­sabilità del ministero da svolgere, tanto più aumenta la tensione tra le due dimensioni ricordate.

Alcune note personali di Paolo VI del periodo del pontificato permettono di cogliere alcuni aspetti del modo in cui egli ha compreso e vissuto il rapporto tra la coscienza di sé e la coscienza delle esigenze del ministero al quale era stato chiamato. Si tratta di appunti che rispecchiano la meditazione compiuta durante ritiri spirituali, oppure di annotazioni occasionali, il cui contesto non è determinabile in modo esatto. Queste brevi riflessioni hanno un filo conduttore e un tema comune: le esigenze del ministero papale in relazione all’esperienza del limite personale.  Se gli atti pubblici e i discorsi ufficiali vedono il prevalere del compito ministeriale, fino quasi a far scomparire la persona, questi testi lasciano trasparire in forma viva ed immediata il riflesso dell’esercizio di tale compito nell’animo di Paolo VI. Dal punto di vista cronologico, gli appunti ai quali ci riferiamo si possono collocare tra il 1965 e il 1974 e abbracciano quindi il decennio centrale del pontificato17. La collocazione temporale delle note suggerisce una prima osservazione. Lungo tutto il periodo del suo pontificato Paolo VI ha avvertito in modo acuto e drammatico il peso del ministero al quale era stato chiamato. Questo sentimento, sempre accompagnato dalla professione della fiducia in Dio e nella sua grazia, rappresenta perciò una costante che fin dall’inizio ha caratterizzato la sua percezione del proprio ufficio e dei doveri che esso comporta e non sembra legato ad eventi esterni, che avrebbero provocato il passaggio da un atteggiamento più fiducioso a un atteggiamento più preoccupato o addirittura angosciato. Già il 28 maggio 1965, a Concilio ancora aperto, egli parla delle «grandi angustie» in cui si trova, non solo a causa della mancanza del tempo e delle forze per far fonte ai doveri che incombono, «ma specialmente per le tempeste che sono nella Chiesa e nel mondo».

«Siamo in grandi angustie. Non solo per il tempo che ci manca e per le forze troppo scarse per i grandi doveri. Ma specialmente per le tempeste che sono nella Chiesa e nel mondo. Così fidiamo nel Signore, trepidanti per noi, sicuri di Lui o ch’Egli ci chiami, o che ci salvi».

Il peso del ministero è descritto anzitutto in termini assai concreti, così come si rende percepibile nella mancanza del tempo che

sarebbe necessario per fare tutto ciò che è richiesto. Paolo VI ricorda «la quantità delle occupazioni che non danno respiro e esigono assai più tempo di quanto disponibile». Ugualmente è motivo di preoccupazione la percezione della quantità di conoscenze che sarebbero necessarie per essere all’altezza dei compiti da svolgere.

«Questo ufficio apostolico esige una continua tensione dello spirito – per la necessità di conoscere (tutto: dalla teologia alla politica, dalle correnti di pensiero e di costume ai piccoli intrighi di curia, dalle innovazioni moderne alla psicologia della gente; libri, giornali, studi, corrispondenza, ecc.) – per il dovere di fare ciò che la missione apostolica impone; il senso di responsabili­tà non dà tregua – per le difficoltà, le opposizioni, la diversità delle opinioni, la scarsezza di consiglieri veri e saggi – per la quantità delle occupazioni che non danno respiro e esigono assai più tempo di quanto disponibile – per la debolezza dei buoni, di quelli cioè che lo dovrebbero essere, dispiacere ineffa­bile questo – per l’impegno all’amore superiore e totale a Cristo».

Quello del papa è un ufficio che richiede di conoscere tutto «dal­la teologia alla politica, dalle correnti di pensiero e di costume ai piccoli in­trighi di curia, dalle innovazioni moderne alla psicologia della gente; libri, giornali studio, corrispondenza». È dunque prima di tutto il concreto lavoro quotidiano che fa toccare con mano la sproporzione tra le esigenze del ministero e le proprie forze e pone chi ad esso è stato chiamato in «una continua tensione dello spirito».

Quest’ultima espressione è illuminante perché presenta come due facce e unisce la constatazione di un dato di fatto, cioè la spro­porzione e la distanza tra capacità personali ed esigenze dell’ufficio – che è appunto causa di tensione – e la consapevolezza di dover corrispondere ad un’altissima vocazione, in virtù della quale la per­sona è posta in una continua tensione verso la realizzazione dell’i­deale proposto.

Anche la riflessione sulla tensione spirituale insita nella risposta alla propria vocazione non perde tuttavia il contatto con la concre­tezza delle cose da fare. È infatti nella complessità delle situazioni in cui ci si trova ad agire e sulle quali si deve decidere che si manifesta l’appello ad obbedire ad una chiamata. L’attenzione si rivolge in pri­mo luogo all’esercizio dell’autorità, considerato in queste note non tanto nel suo lato istituzionale, quanto nei suoi risvolti personali. A Paolo VI interessa in particolare delineare i tratti di una psicolo­gia dei propri doveri, cioè definire l’atteggiamento interiore con cui svolgere il proprio ministero.

«Per uno studio sulla psicologia dei miei doveri – non meravigliarsi di nulla, non lasciarsi abbattere da nulla di quanto può essere motivo di dispiacere o di dolore. Giudizio chiaro, sereno, benevo­lo. Come se fosse naturale che tale cosa avvenga; ma non mai per indifferen­za o disprezzo (cf Mt 13,24ss.); – il senso della funzione fra Cristo e la Chiesa e l’umanità – voluta da lui – primaria e universale – come servizio pastorale – in certo senso come canale condizionante (di parola, di grazia) – come principio informante e promovente di unità, di fraternità, di sacerdozio e sacrificio».

Riflettendo sull’atteggiamento da tenere nelle situazioni in cui nascono contrasti, che inevitabilmente hanno ripercussioni interio­ri, egli insiste sulla necessità di conservare un animo sereno: «Non meravigliarsi di nulla, non lasciarsi abbattere da nulla di quanto può essere motivo di dispiacere e di dolore». Ciò di cui c’è bisogno è invece un «giudizio chiaro, sereno, benevolo», che nasce da uno sguardo realistico sulla Chiesa, nella quale il bene è mescolato al male. L’allusione alla parabola del grano e della zizzania (Mt 13, 24ss.) conferma questa considerazione realistica della situazione in cui si trovano la Chiesa e il mondo e mette in rilievo al tempo stesso la necessità del discernimento tra bene e male e della pazienza che sa attendere il momento appropriato per il giudizio che distingue. Un altro tratto presente nelle note è la coscienza di essere chia­mato a un ministero che si esercita sotto gli occhi di innumerevoli osservatori ed è quindi «visto, criticato, giudicato da tutti».

«Esempio – com’è facile per chi occupa uffici di responsabilità dare cattivo esempio, “dare scandalo”. Chi è in alto è visto, criticato, giudicato da tutti. Tutti desi­derano e pretendono di vedere in lui rispecchiate le proprie idee, le quali, se sono buone o credute tali, e non sono riflesse e applicate da lui, producono una reazione negativa, uno sdegno, uno scandalo […]  D’altra parte la persona responsabile deve pure agire con libertà, coerente con la propria coscienza e con certi principi morali obbliganti; e non deve uniformare la propria condotta, quando si tratta di doveri superiori special­mente, al gusto del pubblico, né deve temere l’impopolarità per compiere la propria funzione (cf 1Cor 4,4: qui autem judicat me Dominus est. Paolo VI richiama in questo appunto i motivi tradizionali del dovere di dare buon esempio e di non essere occasione di scanda­lo. Dal papa tuttavia non ci si aspetta solo l’esemplarità nel modo di agire, ma nei suoi confronti si esercita anche una pressione da parte di coloro che si attendono determinati comportamenti e prese di posizione. «Tutti desiderano, pretendono di vedere in lui rispecchiate le proprie idee, le quali se sono buone o credute tali, e non sono riflesse ed applicate da lui, producono una reazione negativa, uno sdegno, uno scan­dalo».  In forme sconosciute in epoche precedenti della storia della Chiesa, Paolo VI deve confrontarsi con l’opinione pubblica e con la forza che essa è in grado di esprimere anche all’interno della Chiesa attraverso la richiesta di determinate decisioni e l’azione volta a contestarne altre o a renderle inoperanti. Ma l’esercizio del mini­stero papale non può ridursi alla presa d’atto di quanto l’opinione pubblica si attende e richiede. Ciò è inaccettabile in ragione della li­bertà che deve guidare le decisioni e le azioni di ogni persona e della necessità che esse  siano coerenti con la coscienza e con i principi morali. Senza riferirsi alle prerogative magisteriali che gli spettano, Paolo VI sottolinea che, come ogni persona responsabile, anche il papa «non deve uniformare la propria condotta, quando si tratta di doveri superiori specialmente, al gusto del pubblico, né deve temere l’impopolarità per compiere la propria funzione».

In queste note si riflette la coscienza di un ministero che, a mo­tivo della singolare responsabilità che comporta, pone colui che è chiamato ad esercitarlo in una condizione di solitudine. Anche se a motivo della difficoltà di determinare il senso esatto dei silenzi questo elemento non deve essere enfatizzato oltre misura, colpisce la mancanza di riferimenti ai collaboratori e ai consiglieri che lo affiancano nell’esercizio delle sue funzioni. L’unica allusione è di carattere negativo e lamenta «la scarsezza di consiglieri veri e saggi». A ciò corrisponde, nella riflessione già ricordata sull’atteggiamen­to da assumere di fronte alla pressione dell’opinione pubblica, la chiara coscienza che è Dio il giudice al quale dovrà rispondere delle proprie scelte, come testimonia la citazione biblica di 1Cor 4,4: «Qui autem judicat me Dominus est». Nei pensieri per un giorno di ritiro del 13 agosto 1973 la rifles­sione di Paolo VI assume la forma di un bilancio della sua vita, scan­dito secondo le coordinate temporali del passato, del presente e del futuro.

«Ieri – oggi – domani

1 – Cioè: il passato. Lunga vita. Il riflusso dei ricordo: le persone care, specialmente: quale fortuna, quale grazia! quale rimpianto e quali speranze di rivederle nel regno ben diverso della vita futura. Luoghi amati e benedet­ti. Vicende e disegno della mia vita. La grande e difficile scelta, prestabilita e libera. Il povero uomo, sempre impegnato in doveri più grandi della sua statura. Gli amici buoni. Le gioie del piccolo ministero e la pallida coscienza del mistero enorme vissuto. Alla fine: dovere di esaltante gratitudine e di implorante misericordia. Tu, Domine, Te.

2 – Il presente. Una grande missione da compiere (Pasce, confirma… Evangelium omni creaturae…). Le chiavi: poteri e doveri. Coscienza. Sforzo massimo: Tu me sequere… Scandalum mihi es? Modicae fi­dei, quare dubitasti? Apparuit Simoni (visus est Cephae). Il “bonum certamen”: questo è l’epilogo, questo è il presente.

3 – Il futuro. Non lasciarsi incantare dai cari ricordi del passato, dal rimpianto del tempo che fu, dalla nostalgia delle cose che non ritornano – cf Phil 3,13-14 – Guardare avanti. Fare grande economia di tempo, chè poco ormai ne resta. Utilizzare bene, come possibile, orari e impegni. Pensare alla morte. Prepararsi nell’amore. Sperare sempre. La speranza escatologica (cf Jo 17,24)».

Lo sguardo di Paolo VI sul presente è dominato dalla «grande missione da compiere» il cui contenuto è illustrato dalle parole ri­volte da Gesù a Pietro e dai passi biblici che descrivono la missione apostolica. Un tono più personale assume invece la riflessione sul passato e sul futuro. Il passato è ricolmo dei ricordi numerosi di una lunga vita: le persone care, i luoghi amati e benedetti, le vicende e il disegno del­la vita, gli amici buoni. Tra i ricordi del passato è da notare il modo in cui Paolo VI parla della sua decisione di abbracciare il ministero presbiterale come della «grande e difficile scelta prestabilita e libera». La formula, con il suo carattere paradossale, esprime la singolarità di una scelta di vita che può essere compiuta solo in libertà, assumen­do il rischio di decidere di se stessi, ma al tempo stesso corrisponde a una vocazione “prestabilita”, che precede la persona, dal ricono­scimento e dalla fedeltà alla quale dipende la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni più profonde.

A questa decisione presa in gioventù è seguito un ministero de­scritto con accenti simili a quelli già ricordati. Anche nello sguardo retrospettivo sui compiti svolti a servizio della Chiesa domina dun­que il senso del limite personale, la convinzione di essere un «pove­ro uomo, sempre impegnato in doveri più grandi della sua statura» e la coscienza dell’insuperabile distanza tra «il piccolo ministero» e il «mistero enorme vissuto» di cui ha avuto solo una «pallida coscienza». Dal passato non ci si deve però lasciare imprigionare. I ricordi, il rimpianto e la nostalgia non devono impedire di guardare avan­ti e di protendersi verso il futuro, come l’apostolo Paolo invita a fare in Fil 3,13-14. E lo sguardo rivolto al futuro riporta in primo piano il tema del “tempo”, nel senso concreto di condizione per potere adempiere i compiti che il ministero richiede, ma anche in senso più ampio, come tempo dato da vivere e che l’avvicinarsi del tramonto della vita permette di apprezzare nel suo valore. Nell’e­numerazione degli impegni da mantenere e degli atteggiamenti da assumere il buon uso del tempo quotidiano si intreccia così con la riflessione sull’incontro finale con Dio che rappresenta la meta del cammino della vita: «Guardare avanti. Fare grande economia di tempo, ché poco ormai ne resta. Utilizzare bene, come possibile, orari e impegni. Pensare alla morte. Preparami nell’amore. Sperare sempre. La speranza escatologica».

Le note di Paolo VI sono dominate da un senso acuto della ten­sione tra persona e ministero. Ma la riflessione spirituale che in esse trova espressione testimonia anche lo sforzo costante di superare questo scarto e di dare unità all’esistenza personale intendendola come chiamata di Dio per una dedizione totale e un servizio senza riserve alla Chiesa. La risposta a questa chiamata non può che esse­re compito dell’intera esistenza. «Vocazione  cento volte più grande delle mie capacità d corrispondervi.  Bisognerebbe essere ispirati da un Amore folle, cioè superiore alle misure  della prudenza umana. Lirico, profetico, eroico, teso fino all’impossibile per poter compiere qualche cosa di possibile.  Signore, perdonami ogni mediocrità, infiamma la tiepidezza, dammi l’audacia di sfidare i calcoli dell’insipienza per venire incontro all’infinità del tuo Amore».

Note

1 Le citazioni delle lettere sono tratte da G.B. Montini-Paolo VI, Carteggio I. 1914-1923, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 2012.

2 G.B. Montini, San Paolo. Commento alle Lettere [1929-1933], Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 2003, p. 32.

3 Ivi, pp. 35-36.

4 Ivi, p. 134.

5 Ivi, pp. 146-147.

6 Ivi, p. 146.

7 Ivi, p. 130.

8 Ibidem.

9 Ivi, p. 25.

10 Ibidem.

11 Ivi, p. 178.

12 Ivi, p. 158.

13 Ivi, p. 173.

14 Ivi, p. 159.

15 Ivi, pp. 161-162.

16 Ivi, p. 167.

17 Cf Vocazione e ministero, in «Istituto Paolo VI. Notiziario» n. 45 (2003), pp. 7-9.