N.05
Settembre/Ottobre 2013
Studi /

La nuova evangelizzazione: quale attenzione vocazionale?

Nuova evangelizzazione e attenzione vocazionale sono profondamente relazionate; costituiscono i due fuochi di un’unica ellisse. A questo tema si era riferito l’Instrumentum Laboris della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede, al n. 160, ricordando come «uno dei segni più evidenti dell’affievolirsi dell’esperienza cristiana sia proprio l’indebolimento vocazionale, che riguarda sia la diminuzione e la defezione delle vocazioni di speciale consacrazione nel sacerdozio ministeriale e nella vita consacrata, sia la diffusa debolezza riguardante la fedeltà alle grandi decisioni esistenziali, come ad esempio nel matrimonio». Significativamente, Pascual Chávez Villanueva, Rettore Maggiore della Società Salesiana, durante il Sinodo dell’ottobre 2012 ha affermato: «Evangelizzazione e vocazione sono due elementi inseparabili. Anzi, criterio di autenticità di una buona evangelizzazione è la sua capacità di suscitare vocazioni, di maturare progetti di vita evangelica, di coinvolgere interamente la persona di coloro che sono evangelizzati, sino a renderli discepoli, testimoni ed apostoli. Sentiamo oggi, più forte che mai, la sfida di far sì che la pastorale ecclesiale diventi realmente vocazionale, promuovendo una cultura vocazionale, cioè un modo di concepire e di affrontare la vita come un dono ricevuto gratuitamente da Dio per un progetto o una missione secondo il suo disegno»1. Da queste parole si può evincere l’unità tematica del mio intervento intorno all’attenzione vocazionale implicata nel processo della nuova evangelizzazione. In effetti, un rinnovato annuncio evangelico non può che avere come dato fondamentale la promozione di una cultura vocazionale.

 

  1. L’urgenza della nuova evangelizzazione

Cerchiamo, in un primo momento, di determinare il senso della nuova evangelizzazione per scoprirne le implicazioni vocazionali. Che cosa si intende con tale espressione?2 Da un punto di vista strettamente cronologico l’espressione è introdotta da Giovanni Paolo II, il 9 giugno 1979, durante l’omelia nel Santuario di Santa Croce a Mogila, in Polonia, quando, prendendo spunto dalla nuova croce di legno che vi è stata innalzata durante le celebrazioni del millennio del cristianesimo della Polonia, il Vescovo di Roma afferma: «È iniziata una nuova evangelizzazione, quasi si trattasse di un secondo annuncio, anche se in realtà è sempre lo stesso»3. Il tema viene ripreso più articolatamente durante il Discorso alla XIX Assemblea del Celam nel 1983. Ai Vescovi dell’America Latina così il beato Giovanni Paolo II si rivolge: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione avrà il suo pieno significato se sarà un impegno vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni»4. Questo brano risulta essere quello in seguito più citato: il papa, pensando all’anniversario dei cinque secoli di evangelizzazione dell’America latina, presentava la necessità di leggere l’evangelizzazione come un evento che non deve smettere di accadere, ed ogni volta in modo nuovo. Successivamente l’esortazione Redemptoris Missio (1990) precisa i vari livelli dell’opera missionaria della Chiesa: la “missione ad gentes”; la “cura pastorale della Chiesa”, nella sua modalità ordinaria; la nuova evangelizzazione là «dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo» (n. 33). Il motu proprio Ubicumque et semper (2010) specifica poi in dettaglio l’opera pastorale della nuova evangelizzazione in riferimento all’indebolirsi del tessuto cristiano in zone di antica evangelizzazione, secondo modalità differenti, a seconda della capacità del soggetto ecclesiale di far fronte al distacco della cultura dalla fede.

Infine, in riferimento all’andamento del Sinodo, celebrato nell’ottobre 2012, si può osservare come si sia passati da una visione di una comunità ecclesiale che nella sua vita pastorale ordinaria si sviluppa, da una parte, verso la missio ad gentes e dall’altra verso coloro che si sono allontanati dalla fede, ad una percezione più complessa, per la quale anche le Chiese giovani di recente fondazione si trovano ad avere bisogno di ridire il Vangelo a coloro che già manifestano sintomi di distacco dalla fede; mentre nello stesso tempo sul territorio di Chiese di antica evangelizzazione ci si trova a fare missio ad gentes e a proclamare il primo annuncio. Da qui la necessità di un impegno rinnovato: «Oltre ai metodi pastorali tradizionali, sempre validi, la Chiesa cerca di adoperare anche metodi nuovi, curando pure nuovi linguaggi, appropriati alle differenti culture del mondo, proponendo la verità di Cristo con un atteggiamento di dialogo e di amicizia che ha fondamento in Dio che è Amore»5.

 

  1. I contesti socio culturali della nuova evangelizzazione e la loro ricaduta vocazionale

A questo punto è necessario individuare i fattori presenti nella nostra società che invocano la nuova evangelizzazione e che si manifestano particolarmente incisivi sul terreno vocazionale. Credo che oltre ai molti interventi sinodali, rimanga di grande utilità l’Instrumentum Laboris che, insieme ai Lineamenta, aveva tracciato un interessante disegno degli scenari della nuova evangelizzazione. Il primo, e fondamentale, nuovo scenario è indubbiamente quello dei cambiamenti socio-culturali6. I documenti preparatori del Sinodo mettono in rilievo innanzitutto il fenomeno della secolarizzazione, caratterizzante in modo prevalente l’area euroatlantica, ma che di fatto, in forza del processo di globalizzazione, ai mezzi di comunicazione e al movimento migratorio, acquista rapidamente un carattere planetario. Ecco un passaggio significativo: «Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante. Radicata in modo particolare nel mondo occidentale, (…) la secolarizzazione si presenta oggi nelle nostre culture attraverso l’immagine positiva della liberazione, della possibilità di immaginare la vita del mondo e dell’umanità senza riferimento alla trascendenza»7. Con queste parole vengono sintetizzate le caratteristiche, per così dire, “finali” della secolarizzazione. Tale esito, tuttavia, non ha un carattere monolitico, ma possiede una storia complessa, con interessanti ricadute vocazionali.

 

2.1 Le tre fasi della secolarizzazione

Per illustrare quanto affermato ritengo utile proporre una riflessione del filosofo canadese Ch. Taylor, nel suo monumentale volume The Seculare age (2007)8, il quale descrive tre forme o fasi del processo di secolarizzazione. La prima è quella connotata dalla secolarizzazione degli spazi pubblici che si sono «svuotati di Dio o di qualsiasi riferimento alla realtà ultima». Pertanto, si osserva, «le norme e i principi che seguiamo, le deliberazioni in cui ci impegniamo allorché operiamo all’interno delle diverse sfere di attività

– economica, politica, culturale, educativa, professionale, ricreativa – in genere non [fanno] riferimento a Dio o alle credenze religiose ». In un secondo aspetto «la secolarizzazione consiste nella diminuzione della credenza e della pratica religiosa, nell’allontanamento delle persone da Dio e dalla Chiesa». Infine, Taylor ricorda un’ultima forma: il nucleo della secolarizzazione delle odierne società euroatlantiche consisterebbe ora nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre. Siamo passati da una società in cui era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre»9.

 

2.2 Le ricadute vocazionali

Si potrebbero, in forma di contrappunto, notare le ricadute vocazionali di queste fasi. Ad una secolarizzazione degli spazi pubblici e alla conseguente privatizzazione della fede, corrisponde di fatto una baricentratura ecclesiale sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa che caratterizza in modo crescente la figura vocazionale a partire dalla teologia post-tridentina e che si impone fino alla prima metà del ‘900. La vocazione acquista un carattere in tal modo “esclusivo”, con riferimento alle vocazioni di speciale consacrazione. Questa lunga fase è quella nella quale la figura del laico cristiano si indebolisce gradatamente dal punto di vista della valenza ecclesiale. La sua è essenzialmente una figura passiva. Essere “laico”, come sappiamo, nel processo della modernità sta ad indicare sempre più il relazionarsi nella vita pubblica “etsi deus non daretur”, ossia a prescindere dalla confessione religiosa.

La seconda fase, ossia la diminuzione della pratica religiosa, è quella oggi sociologicamente più rilevabile e la sua ricaduta in ambito vocazionale è immediata: alla diminuzione della pratica religiosa corrisponde di fatto una diminuzione delle vocazioni di speciale consacrazione. Tale diminuzione si manifesta come contrazione numerica dei candidati e aspiranti e come abbandono della vocazione, non sentendo più perseveranza e fedeltà vocazionale come valori.

Potrebbe essere utile richiamare al nesso tra la prima e seconda fase. Ossia, una fede privatizzata, che non ha presa sul reale, diviene gradatamente irrilevante dal punto di vista antropologico e sociale. La disaffezione nei confronti della Chiesa e della vocazione sorge come conseguenza di una sostanziale estraneità tra l’annuncio della fede e l’umano. Di conseguenza anche le figure vocazionali che in un registro culturale cristiano erano paradigmatiche della vita cristiana, in una società segnata dalla secolarizzazione rischiano di diventare simbolo della estraneità tra Chiesa e mondo.

La terza fase, segnalata dal filosofo canadese, è quella “postideologica” e postmoderna, dove lo stesso processo di secolarizzazione diviene disincantato rispetto alle sue stesse promesse elaborate negli ultimi secoli, ospitando al suo interno elementi postsecolari. Qui assistiamo perlopiù alla caduta della pregiudiziale ideologica di fronte alla religione, presente nella prima e seconda fase; tuttavia essa avviene all’interno di un contesto ormai fattosi culturalmente “debole”, più teso ad esaltare la libertà individuale, il soddisfacimento dei bisogni e il godimento immediato che a sottolineare la ricerca della verità e del senso. Anche se queste domande rimangono antropologicamente inestirpabili, esse, tuttavia, in un contesto di relativismo nichilista stentano ad essere considerate adeguatamente. Anzi, nel nostro tempo si può pensare persino che sia necessario dire Addio alla verità (Vattimo) per poter vivere in una società tollerante delle differenze culturali e religiose. La cittadinanza di religioni e culture diverse sembra essere autorizzata solo dove viene posta in atto una rinuncia alla istanza veritativa da parte di tutti, della filosofia come della religione.

Quale spazio vocazionale sembra legittimarsi in un tale contesto? Ovviamente non vi sono problemi di plausibilità sociale rispetto a forme di spiritualità personali e di impegno caritativo, anche radicale; tuttavia esse sembrano comprese più come impeto di dedizione personale o volontà di impegno, piuttosto che di reale “chiamata”. Le vocazioni, mi sembra, appaiono in questo contesto non solo fragili dal punto di vista affettivo, come si può facilmente rilevare, ma proprio dal punto di vista culturale. Per parafrasare Taylor, le scelte vocazionali sono oggi spesso “possibilità tra le altre”, sono opzioni baricentrate sul soggetto e sulla libertà di scelta reiterabile e proprio per questo sostanzialmente vissute come “revocabili”.

 

2.3 “L’uomo senza vocazione”

Certamente molti fattori aumentano questa percezione della vita centrata sulle scelte revocabili. Lo sviluppo invasivo di internet e dei social network, la percezione così ampia della visibilità e dell’apparenza mutevole contribuiscono ad indebolire culturalmente l’idea che vi sia una verità definitiva per la quale si possa rischiare la vita con scelte “per sempre”. Papa Francesco ha recentemente parlato di “cultura del provvisorio”, dominante nel nostro tempo, che mina il senso della vocazione10. Infine, è del tutto evidente che dietro i grandi mutamenti degli scenari culturali, come lo sono ad esempio quelli della comunicazione, ci sia l’espansione della tecnoscienza, con la sua straordinaria capacità manipolatoria del reale, la quale comporta anche una promessa di benessere e di possibilità inedita di trasformazione del reale. L’ebrezza e la vertigine che tali nuove possibilità sembrano introdurre portano con sé il fatto che l’uomo stesso si concepisca come un esperimento, “l’esperimento di se stesso”. La libertà, in modo imparagonabile rispetto al passato, è posta di fronte ad una vertigine di possibilità tanto affascinante quanto a volte disorientante. Qui mi sembra ritroviamo quello che assai acutamente era stato affermato alla fine degli anni ’90 dal documento In Verbo tuo. Nuove vocazioni per una nuova Europa, riguardo all’uomo senza vocazione come caratteristica della nuova stagione culturale, ossia di un soggetto antropologico che tende a concepirsi da sé e verso di sé, e che per questo non ha bisogno di essere chiamato da alcuno.

 

2.4 Libertà e desiderio

Proprio qui, mi sembra, sorge, allo stesso tempo, lo spazio della nuova evangelizzazione e della sua imprescindibile declinazione vocazionale. Il contesto ci impone di riprendere il tema dell’annuncio cristiano e della proposta vocazionale avendo il coraggio di assumere fino in fondo due parole chiave per la vocazione, emergenti nel nuovo contesto sociale: la libertà e il desiderio. Sono due parole in nome delle quali spesso ci si congeda dalla verità cristiana, ultimamente dalla esperienza religiosa, dalla idea di Dio come verità definitiva, trascendente e fondante. Ma se ci pensiamo bene queste sono due parole la cui radice è profondamente cristiana.

Questo fa capire perché la nuova evangelizzazione non è innanzitutto un problema di strategie di riconquista ma di qualità della nostra vita cristiana, nella capacità di mostrare all’uomo postmoderno che realmente la verità ci fa liberi e che se il Figlio ci fa liberi, lo saremo “davvero” (Gv 8,36). Non a caso durante il Sinodo è emersa più volte la parola “conversione”, personale, comunitaria e pastorale, come cuore della nuova evangelizzazione11. Una conversione come evento di grazia e di libertà che trasforma la vita dal di dentro, cosicché l’uomo possa imparare a vivere all’altezza dei propri desideri. Il vero nemico della vocazione non è il desiderio, ma la sua riduzione superficiale; l’antagonista alla esperienza vocazionale non è certo la libertà, piuttosto la sua riduzione ad autoreferenza narcisistica. L’evento della vocazione è tale proprio nella sua potente capacità di intercettare il desiderio profondo della persona e di muovere la libertà alla decisione.

 

  1. La nuova evangelizzazione per le vocazioni

Da quanto detto finora si dovrebbe comprendere che per natura sua un’autentica nuova evangelizzazione è vocazionale. Il sorgere di vocazioni di radicalismo evangelico è segno di una autentica vita cristiana. Propongo qui come una sorta di “elenco” degli elementi propri della nuova evangelizzazione che mostrano una pertinenza vocazionale.

 

3.1 Il soggetto della nuova evangelizzazione, esperienza spirituale e vocazione

Innanzitutto occorre fare tesoro di un leitmotiv ricorrente nel magistero pontificio riguardo al cuore della nuova evangelizzazione: si tratta del suo carattere spirituale12. La nuova evangelizzazione è possibile solo se torniamo ad essere noi i primi ad essere evangelizzati, ossia a compiere una esperienza tale da permetterci di scoprire la persuasività del Vangelo, mettendone in luce la sua pertinenza antropologica. Questo primato dell’esperienza spirituale nella nuova evangelizzazione vuol dire porre l’accento sul soggetto ecclesiale prima che sul progetto pastorale. Si tratta di lavorare innanzitutto per la edificazione del soggetto ecclesiale nei suoi elementi fondamentali, ad immagine della prima comunità, ossia di una realtà di comunione in cui si possa dire: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). In definitiva, è la vita della Chiesa come comunione ad essere il vero soggetto della nuova evangelizzazione e il presupposto di una autentica azione pastorale vocazionale.

Interessante che Benedetto XVI, nel consueto discorso alla Curia in occasione degli auguri per il Santo Natale del 2012, abbia riletto il Sinodo sulla nuova evangelizzazione attraverso il primo incontro di Gesù con i discepoli, narrato dopo il prologo di Giovanni, che si presenta emblematicamente come incontro vocazionale. Conviene mettersi in ascolto delle sue parole: «Il primo e fondamentale elemento è il semplice annuncio, il kerigma, che attinge la sua forza dalla convinzione interiore dell’annunciatore. Nel racconto dei due discepoli segue poi l’ascolto, l’andare dietro i passi di Gesù, un seguire che non è ancora sequela, ma piuttosto una santa curiosità, un movimento di ricerca. (…) Il terzo atto poi prende avvio per il fatto che Gesù si volge indietro, si volge verso di essi e domanda loro: “Che cosa cercate?”. La risposta dei due è, nuovamente, una domanda che indica l’apertura della loro attesa, la disponibilità a fare nuovi passi. Domandano: “Rabbì, dove dimori?” La risposta di Gesù: “Venite e vedrete!” è un invito ad accompagnarlo e, camminando con Lui, a diventare vedenti. La parola dell’annuncio diventa efficace là dove nell’uomo esiste la disponibilità docile per la vicinanza di Dio; dove l’uomo è interiormente in ricerca e così in cammino verso il Signore. (…) Questo andare con Lui conduce al luogo dove Gesù abita, nella comunità della Chiesa, che è il suo Corpo. Significa entrare nella comunione itinerante dei catecumeni, che è una comunione di approfondimento e, insieme, di vita, in cui il camminare con Gesù ci fa diventare vedenti. “Venite e vedrete!” Questa parola che Gesù rivolge ai due discepoli in ricerca, la rivolge anche alle persone di oggi che sono in ricerca»13.

Quando si pone l’accento sulla esperienza spirituale, si desidera propriamente sottolineare questa dinamica dell’incontro, della testimonianza, dell’invito a venire e a vedere. Non si tratta di applicare alla vita una dottrina imparata altrove, di fronte alla quale la libertà del soggetto si sente mortificata e bloccata nel proprio desiderio di compimento e di felicità. Si tratta piuttosto di mostrare come la verità di Dio, rivelataci in Cristo, sia realmente l’evento di un incontro con una persona che bussa alle porte della nostra libertà; la quale pertanto viene esaltata, diventando essa stessa ingrediente della esperienza spirituale. Allo stesso tempo si deve mostrare in che modo l’evento della fede dialoghi imperiosamente con il desiderio dell’uomo, di essere amato e di amare, di felicità e di bellezza. Certamente non è dal desiderio antropologico che deduciamo la vocazione o la verità di Dio e tuttavia il desiderio dell’uomo, quando è percorso veramente nella sua profondità, è sempre ultimamente desiderio dell’Altro, dell’altrove, che spinge la libertà ad uscire da sé. Da questo punto di vista, le grandi storie vocazionali, sia nella Sacra Scrittura che nella storia della spiritualità, sono sempre evento di libertà e di desiderio, come incontro indeducibile tra la libertà di Dio che gratuitamente chiama ad un compito e la libertà dell’uomo. In tal senso la stessa dinamica della nuova evangelizzazione è la stessa dinamica della chiamata vocazionale: è la grazia di un incontro che desta la santa curiosità, ossia il desiderio della persona, mettendo in moto la propria libertà alla ricerca di ciò che possa compiere la promessa iscritta nel cuore dell’uomo.

 

3.2 La vita come vocazione

Qui a mio avviso emerge un altro fattore chiave del nostro tema riguardo all’attenzione vocazionale della nuova evangelizzazione. Essa infatti passa innanzitutto dalla educazione alla vita come vocazione, prima ancora che formazione alle diverse forme vocazionali. Già l’Instrumentum Laboris aveva affermato come uno degli impegni dei Sinodo per la nuova evangelizzazione era non tanto lavorare per «constatare la crisi, e non soltanto per rinforzare una pastorale vocazionale che già viene fatta, quanto piuttosto, e più profondamente, per promuovere una cultura della vita intesa come vocazione » (n. 160). Benedetto XVI nel suo magistero ha parlato non solo di vocazione in riferimento ai diversi stati di vita, ma anche della vita stessa come vocazione. Troviamo questa espressione sia nella esortazione apostolica Sacramentum caritatis, in riferimento al laico cristiano (cf SCa 79) che in Verbum Domini in relazione ad ogni persona (cf VD 77)14. Ci sembra particolarmente suggestiva la tematizzazione della vita come vocazione in riferimento alla Parola

di Dio, che siamo chiamati ad annunciare. Infatti, il Dio-che-parla si manifesta sempre anche come il Dio-che-chiama: «Questa Parola chiama ciascuno in termini personali, rivelando così che la vita stessa è vocazione in rapporto a Dio» (VD 77). La vita come vocazione indica la struttura permanente dialogico-relazionale dell’uomo nei confronti della realtà. Dire che la Parola di Dio ci fa scoprire che la vita è vocazione vuol dire riconoscere che esistere è essere interpellati in ogni istante dal “tu”, dall’altro. Noi siamo stati creati ed esistiamo in riferimento ultimamente al Logos di Dio (cf VD 8-9.22). Noi esistiamo sempre e solo come esseri in relazione. Anche la nostra autocoscienza esiste perché qualcuno ci ha parlato, ci ha sorriso e ci ha chiamato per nome spalancandoci la coscienza all’infinito mistero dell’essere. La vita come vocazione si compie definitivamente quando nell’orizzonte della propria esistenza accade l’incontro personale con Gesù Cristo, pienezza e compimento della rivelazione (cf DV 2.4). Infatti, «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo (…). Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (GS 22).

Anche gli orientamenti pastorali della CEI pubblicati nel 2010 a questo proposito affermano: «L’accoglienza del dono dello Spirito porta ad abbracciare tutta la vita come vocazione. Nel nostro tempo, è facile all’uomo ritenersi l’unico artefice del proprio destino e pertanto concepirsi “senza vocazione”. Per questo è importante che nelle nostre comunità ciascuno impari a riconoscere la vita come dono di Dio e ad accoglierla secondo il suo disegno d’amore» (n. 23).

 

3.3 Dalla vita come vocazione alle forme vocazionali

Inoltre, se è vero che il soggetto di tale nuova sensibilità è la Chiesa come mistero di comunione, allora, oltre alla educazione fondamentale alla vita come vocazione, occorre anche che le determinazioni vocazionali particolari, legate ai diversi stati di vita, vengano considerate nella loro autenticità.

 

3.3.1 La vocazione battesimale per la nuova evangelizzazione

Dando uno sguardo ai documenti preparatori del Sinodo e considerando gli interventi nell’assemblea sinodale, si deve riconoscere che un grande ruolo viene dato alla vocazione battesimale e laicale, come anche all’importanza del matrimonio e della famiglia. Questa insistenza è assolutamente necessaria, proprio in relazione al processo della secolarizzazione. Se è vero che l’esito più problematico di esso sta nella irrilevanza della fede per la vita, è chiaro che il luogo fondamentale della pertinenza antropologica della fede e del Vangelo non può che attestarsi innanzitutto nelle comuni condizioni del vivere. Pertanto la vocazione laicale, come vocazione battesimale, vissuta nelle circostanze comuni del vivere, risulta essere il punto nodale della nuova evangelizzazione. Legato a ciò si deve oggi insistere anche per una rilettura evangelica del tema degli affetti e della differenza tra uomo e donna, da una parte, e tra genitori e figli, dall’altra, recuperando il senso della differenza generazionale. Ben difficilmente potrà esserci una sana ripresa vocazionale senza una adeguata evangelizzazione degli affetti nella loro struttura fondamentale segnata dalla differenza. Per questo da un amore profondo alla realtà degli affetti, della relazione uomo-donna e famiglia, hanno da guadagnarci tutte le vocazioni nella Chiesa15.

 

3.3.2 Le vocazioni di speciale consacrazione e la nuova evangelizzazione

Tuttavia questo non autorizza a trascurare la cura e la chiara comprensione identitaria delle vocazioni di particolare consacrazione. Una tale trascuratezza andrebbe contro un’adeguata ecclesiologia di comunione, in cui i diversi stati di vita in una vera circuminsessione devono essere in profondo rapporto tra loro, proprio

perché il soggetto Chiesa sappia annunciare in modo credibile ed efficace il Vangelo di Cristo. Da questo punto di vista è necessario, mentre si recupera la vocazione laicale battesimale in chiave di nuova evangelizzazione, avere la chiarezza di riconoscere il carattere peculiare della vocazione sacerdotale e della vocazione alla sequela di Cristo secondo la forma dei consigli evangelici. Ciò in realtà è a tutto vantaggio della vocazione fondamentale del cristiano nel mondo. Infatti, ciò che nel cristianesimo è peculiare, è tale solo se in relazione all’universale cristiano. In definitiva credo che la nuova evangelizzazione manifesterà una adeguata attenzione alle vocazioni nella misura in cui le valorizzerà all’interno di tale azione. Qui sarebbe assai deleteria una visione livellante le vocazioni stesse, o una comprensione riduttiva che veda, per esempio, la via dei consigli evangelici solo come una mera variante facoltativa della vocazione battesimale. Senza una chiara visione della identità e del compito delle vocazioni difficilmente i giovani saranno portati a riconoscere in essa una vocazione vera, carica di significato ed esigente per la quale decidersi con coraggio per tutta la vita. Una visione generica delle identità vocazionali non può che comportare anche fedeltà generiche. Da questo punto di vista sono assai importanti le Propositiones approvate dal Sinodo sulle vocazioni di speciale consacrazione in prospettiva missionaria16.

 

3.4 La vocazione e il metodo della testimonianza

Infine vorrei riprendere il metodo della nuova evangelizzazione, emerso frequentemente nei lavori sinodali17, per rapportarlo alla pastorale vocazionale. Se il cuore della trasmissione della fede nel nostro tempo sta nell’autentica esperienza spirituale, allora il suo metodo consiste essenzialmente nella testimonianza. Il Vangelo non si dimostra, né si impone, ma si mostra persuasivamente e si propone attraverso una vita cambiata dall’incontro con Cristo. In modo assai suggestivo Benedetto XVI ha così definito questa dinamica nella esortazione apostolica Sacramentum Caritatis: «Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» (n. 85). Nella testimonianza ritroviamo così riconciliati i termini che la modernità ci ha consegnati disarticolati. Nella testimonianza, infatti, la verità di Dio si mostra amica della nostra libertà e interlocutrice umile e potente del nostro desiderio. In tal modo il tema della nuova evangelizzazione consegna alla pastorale vocazionale il metodo della testimonianza: Dio chiama l’uomo attraverso la testimonianza, come ha fatto Giovanni Battista per i primi discepoli, destando in loro la santa curiosità per quell’uomo che era il Dio-con-noi. In tal modo, secondo il metodo della testimonianza, la vocazione scaturisce ultimamente da quell’incontro che, rivolgendosi al nostro desiderio, può ancora ripeterci persuasivamente lo stesso invito: venite e vedrete.

 

NOTE

1 In «L’Osservatore Romano», domenica 14 ottobre 2012, p. 9.

2 Cf Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, Enchiridion della Nuova Evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 1939-2012, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.

3 Giovanni Paolo II, Omelia tenuta durante la S. Messa nel Santuario di S. Croce, Mogila (9 giugno 1979), 1: AAS 71 (1979), p. 865.

4 Discorso alla XIX Assemblea del CELAM (Port au Prince, 9 marzo 1983).

5 In «L’Osservatore Romano», lunedì-martedì 29-30 ottobre 2012, p. 8.

6 Per un’analisi più dettagliata rimando a P. Martinelli, La nuova evangelizzazione: una questione di fede, in «Italia Francescana» 87 (2012), pp. 393-423

7 Lineamenta 6; cf Instrumentum Laboris 52.

8 Ch. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 12-14.

9 Ivi, p. 14.

10 Cf «L’Osservatore Romano», lunedì-martedì 8-9 luglio 2013, p. 6.

11 Cf Propositio, n. 22 (ci riferiamo al testo in lingua inglese delle proposizioni reso noto dalla Segreteria Generale del Sinodo).

13 In «L’Osservatore Romano», sabato 22 dicembre 2012, p. 5.

14 Riprendiamo qui quanto abbiamo sviluppato altrove: Eucaristia, Parola di Dio ed esistenza cristiana. Un itinerario attraverso le esortazioni apostoliche post-sinodali di Benedetto XVI Sacramentum Caritatis e Verbum Domini, in G. Marengo – J. Prades López – G. Richi Alberti (edd.), Sufficit gratia Tua. Miscellanea in onore del Cardinale Angelo Scola per il suo 70° compleanno, Marcianum Press, Venezia 2012, pp. 479-491.

15 Cf Propositiones, nn. 45.46.48.

16 Cf Propositiones, nn. 49-50.

17 Cf Propositio, n. 8.