N.02
Marzo/Aprile 2014

La Resurrezione e Noli me tangere

Giotto di Bondone, 1303-1305 c., Cappella degli Scrovegni, Padova

Intitolata a Santa Maria della Carità, la cappella fu fatta costruire e affrescare tra il 1303 e i primi mesi del 1305 da Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere padovano, a beneficio della sua famiglia e dell’intera popolazione cittadina. Lo Scrovegni, nel febbraio del 1300 aveva acquistato da Manfredo Dalesmanini l’intera area dell’antica arena romana di Padova e vi aveva eretto un sontuoso palazzo, di cui la cappella era l’oratorio privato e il futuro mausoleo familiare. Incaricò di affrescare la cappella il fiorentino Giotto, il quale, dopo aver lavorato con i francescani di Assisi e di Rimini, era a Padova, chiamato forse dai frati minori conventuali a dipingere qualcosa presso la loro Basilica di Sant’Antonio.

Giotto dipinse l’intera superficie interna dell’oratorio con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata competenza, recentemente identificato da G. Pisani in Alberto da Padova. Tra le fonti utilizzate vi sono molti testi agostiniani, i Vangeli apocrifi dello pseudo-Matteo e di Nicodemo, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze e, per piccoli dettagli iconografici, le Meditazioni sulla vita di Gesù dello pseudo- Bonaventura, oltre a testi della tradizione medievale cristiana, tra cui Il Fisiologo. Il ciclo pittorico, incentrato sul tema della salvezza, comprende più di quaranta scene ed è focalizzato sulle Storie di Cristo e su quelle che lo precedettero (Storie di Gioacchino e Storie di Maria), fino alla Pentecoste.
La narrazione si svolge secondo un programma decorativo rigoroso, organizzato su tre registri. Sulla controfacciata si trova poi un grande Giudizio Universale. Il carattere di ex voto della cappella è chiarificato nel Giudizio universale, con la rappresentazione del committente che offre alla Madonna, affiancata da San Giovanni e da Santa Caterina d’Alessandria, un modello preciso dell’edificio, come lasciapassare per il Regno dei Cieli. Giotto calcolò con grande precisione il punto di vista ideale al centro dell’oratorio e disegnò l’intelaiatura tra i pannelli in modo da sembrare un finto basamento di marmo e logge sovrapposte. Valutò la fonte di luce e la accordò con la luce nelle scene. Uno sfoggio di virtuosismo illusionistico è la presenza dei cosiddetti coretti, due finte stanze che si aprono all’altezza del primo registro accanto al coro vero, che lasciano intravedere delle volte a crociera in prospettiva.
Importante è anche lo zoccolo a specchiature marmoree in basso, qui usato per la prima volta, che avrà un grandissimo seguito nei due secoli a venire. Qui si trovano le Virtù e i Vizi a monocromo che pure sono i prototipi di un genere a larghissima diffusione, che va dagli sportelli esterni dei polittici fiamminghi, alle lunette della Camera della Badessa di Correggio.
Chiude il tutto la volta con stelle a otto punte su un cielo blu oltremare, colore simbolo della sapienza divina. Essa è attraversata da tre fasce trasversali che creano due grandi riquadri, al centro dei quali due tondi rappresentano la Madonna col Bambino e il Cristo benedicente; otto Profeti fanno loro corona, quattro per riquadro.
Le tre fasce trasversali hanno motivi simili a quelli delle incorniciature delle pareti, con inserti che raffigurano Santi e angeli in quella più vicina all’altare, e Santi (probabilmente i precursori di Cristo) nelle altre due.
L’affresco preso in esame è La Resurrezione e Noli me tangere, compreso nelle Storie della Passione di Gesù del registro centrale inferiore, nella parete sinistra guardando verso l’altare. La scena mostra un doppio episodio: a sinistra il sepolcro vuoto di Cristo con gli angeli seduti e le guardie addormentate testimoniano la Resurrezione; a sinistra la Maddalena inginocchiata davanti all’apparizione di Cristo trionfante sulla morte, con tanto di vessillo crociato, e il gesto del Salvatore che le dice di non toccarlo pronunciando, nelle versioni latine dei vangeli, la frase «Noli me tangere». Sul vessillo si legge l’iscrizione Victor mortis. La stessa montagna che, nella scena del Compianto, precipitava da destra a sinistra sul corpo riverso di Cristo a terra, ora discende invece da sinistra a destra verso Cristo risorto che, issando il gonfalone, sta per allontanarsi dagli uomini.
Al posto dell’albero secco, due alberetti di cui purtroppo è scomparsa la chioma, ma che erano verdeggianti (lo assicura il paragone con la miniatura che copia questa scena nell’antifonario A 15, f. 159, della cattedrale di Padova).
A sinistra sono seduti, alle due estremità di un bel sarcofago di marmo veronese rosa, due angeli sorridenti, che indicano alla Maddalena e allo spettatore il Redentore.
A terra giace la massa compatta dei soldati addormentati in un sonno più profondo di una stanchezza umana: è il sonno di chi non ha riconosciuto ancora il Messia.
Il fulcro della scena è però tutto spostato sulla destra. Maddalena, inginocchiata a terra, con le braccia vanamente protese cerca di trattenere Cristo che si allontana negandosi al suo desiderio, alla sua gioia. Maddalena è ora coperta del suo bel mantello rosso: ai piedi della croce e nel Compianto se l’era tolto, per essere più libera di mostrare la sua disperazione nei gesti del lamento funebre medievale. Cristo invece ha abbandonato la tunica rossa del sacrificio e indossa una tunica e una toga candide con bordi d’oro, il colore della sua splendente divinità.
Sul terreno brullo sono sparse alcune piante (una è un ben riconoscibile alloro), che per accenni connotano il luogo di cui Cristo è stato ritenuto essere l’«ortolano». Nel quadrilobo di presentazione, un leone con i suoi cuccioli: la fonte è il Bestiario: «Quando la leonessa genera il suo piccolo, lo genera morto, e custodisce il figlio, finché il terzo giorno giungerà il padre, gli soffierà sul volto e lo desterà.
Così anche il Dio nostro onnipotente, il Padre di tutte le cose, il terzo giorno ha risuscitato dai morti suo Figlio, primogenito di tutte le creature, il Signore nostro Gesù Cristo, affinché salvasse il genere umano smarrito». Secondo altre varianti è invece la leonessa che resuscita i suoi piccoli: in questo caso la leonessa rappresenta Cristo che resuscita l’umanità morta per il peccato.
Rispetto alle Storie di San Francesco, in Assisi, si assiste a un maggiore affinamento dei mezzi espressivi, a una più forte padronanza della composizione per gli effetti narrativi, dei gesti, della cromia in generale. I preziosi pigmenti che da tutto il bacino del Mediterraneo arrivavano a Venezia furono sicuramente approvvigionati per il lavoro del maestro a Padova: rosa, gialli, arancioni e il costosissimo blu oltremare, che dà un tono intenso agli sfondi dei cieli. Le figure hanno un volume ancora più reale che ad Assisi, avvolte da ampi mantelli attraverso cui si capisce la modellazione dei corpi sottostanti. La stesura pittorica è più morbida e densa, con un modellato più fuso che dà alle figure un risalto più pieno e meno tagliente.
Le figure protagoniste sono sempre maestose e importanti, in un inimitabile equilibrio tra la gravitas della statuaria classica e le eleganze della cultura gotica, con espressioni sempre concentrate e profonde. Più libero è l’approccio alle figure di contorno, vivacissime nelle fisionomie, nei gesti e negli atteggiamenti.

Giotto di Bondone
La Resurrezione e Noli me tangere
1303-1305 c., Cappella degli Scrovegni, Padova