N.02
Marzo/Aprile 2014

L’amore nasce e cresce nella Verità

«Ciò che era fin da principio,
ciò che noi abbiamo udito,
ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi,
ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia,
il Verbo della Vita –
Questo è il nostro tema» (1Gv 1,1)

Queste parole estratte dalla Prima lettera di San Giovanni sono una bella introduzione a ciò che sono venuta a condividere con voi riguardo la mia esperienza di vita presso la comunità dell’Arche da più di 28 anni. Si tratta di un’esperienza di tatto, di vista, di ascolto e di osservazione.

1. In spirito e in verità
Ciò che abbiamo visto con i nostri occhi e toccato con le nostre mani e udito con i nostri orecchi a l’Arche negli ultimi 50 anni è proprio Gesù che si è rivelato attraverso la nostra piccolezza. Da principio, vedevamo la presenza di Gesù soltanto nella persona che si trovava in una situazione di debolezza dovuta al proprio handicap.
Man mano che proseguivamo, ci rendevamo conto che tale presenza è in ognuno di noi. Scoprivamo che proprio attraverso la nostra piccolezza e la nostra fragilità, possiamo entrare nel mistero della sua presenza. La sfida è quella di aprirci affinché Gesù toc chi i nostri cuori, in modo da diventare colori i quali trasmettono questo messaggio al prossimo. Il cammino è lungo e a volte molto doloroso. Tuttavia, si tratta di un cammino verso la verità e verso l’apprendimento dell’amore.
Mi è stato chiesto di fare una riflessione con voi su un tema proveniente da un brano del Vangelo secondo Giovanni: «Dio è Spirito, e quelli che lo adorano, devono adorare in spirito di verità…» (Gv 4,24).
Sappiamo che tale brano del Vangelo è il frutto dell’incontro tra Gesù e la Samaritana al pozzo. Un incontro che deve aver toccato Gesù nel suo intimo poiché è proprio qui che Cristo le rivela di essere proprio il Messia, Colui che verrà. Mi piace pensare che, nell’arco della mia vita, ho incontrato alcune “Samaritane” alle quali Gesù ha fatto questa rivelazione e che io sia stata invitata a partecipare allo stesso mistero.
Dopo avervi dato alcune informazioni riguardanti il mio cammino nell’Arche, vorrei condividere e sviluppare con voi tre punti principali:
Il passaggio dalla paura e dall’angoscia alla guarigione e alla pace interiore;

  1. Gesù il guaritore ferito;
  2. beati quelli che seguiranno l’esempio.

 1.1 Storia dell’Arche
Le comunità dell’Arche nacquero nel 1964 quando Jean Vanier aprì una piccolo casa in Francia dove vivere con Raphael e Philippee, due uomini accolti da un istituto vicino Parigi. Era entrato in contatto con il mondo dei “disabili” attraverso il suo amico e guida spirituale Padre Thomas Philippe, cappellano Domenicano di un piccolo istituto in un paesino chiamato Val Fleuri. Jean inaugurò una casa che si sarebbe chiamata l’Arche – come l’Arca di Noè, ma anche come l’Arca dell’Alleanza. Questa casa si ingrandì man mano che veniva popolata da altre persone che arrivavano per vivere la vita quotidiana semplice nella comunità. Oggi contiamo 146 comunità in 36 Paesi in tutto il mondo.
La chiamata che Jean ricevette nel suo incontro con persone quali Raphael e Philippe è la stessa chiamata che ricevono le centinaia di assistenti nelle nostre comunità, molti dei quali su base volontaria annuale. La chiamata è una chiamata all’amicizia e alla comunione.
Nel 1964 Jean Vanier scoprì alcune persone interessate più alla sua amicizia piuttosto che al suo bagaglio culturale di filosofia e alla sua esperienza di ufficiale militare. Questo cambiò radicalmente il suo modo di relazionarsi. Lo stesso accade ad ogni assistente che si avvicina alle nostre comunità. Veniamo invitati ad intraprendere relazioni in un modo nuovo. Si tratta molto di più di un lavoro o di un’esperienza sociale, sebbene sia anche questo. 

1.2 Il mio cammino nell’Arche
Il mio cammino nell’Arche iniziò quando avevo 20 anni. All’epoca studiavo all’università in Canada, la mia patria. Mi stavo preparando per la facoltà di Medicina. Ero in gamba. Avevo doti naturali che mi avrebbero portato ad un certo successo. Durante un fine settimana in visita presso una piccola comunità dell’Arche dove viveva e lavorava una mia amica, rimasi profondamente commossa da ciò che vedevo. C’era qualcosa in quel luogo che mi aveva “ribaltato”.
In autobus sulla via del ritorno, cominciai a sentirmi turbata. Tutto cambiò velocemente. Alla fine della settimana lasciai l’università e feci domanda per andare a vivere nell’Arche come assistente. Cosa mi stava succedendo? Credo fosse una chiamata da Gesù. All’epoca pensai che fosse una chiamata per servire ed aiutare i poveri. Nella successiva lettura della mia storia personale ho capito che la chiamata era anche per me stessa. Ben presto scoprii di essere piccola e povera. Coloro i quali venivo a servire erano gli strumenti divini per la mia guarigione, sebbene non sapessi che avevo bisogno di essere sanata.
La vita quotidiana nelle nostre case è semplice. Mangiamo, dormiamo, andiamo al lavoro, apparecchiamo e sparecchiamo la tavola, laviamo i piatti, facciamo le pulizie, lavoriamo nelle officine, tagliamo l’erba, puliamo il cortile, ecc. Alla fine, abbiamo l’impressione di fare veramente poco. O per lo meno, abbiamo l’impressione di ripetere sempre le stesse cose, di stare sempre al punto di partenza. Persino le nostre battute sono sempre le stesse. È strano che ci facciano ancora ridere. È semplicemente disarmante.
Attualmente sono capo-gruppo in una piccola comunità dell’Arche nelle Alpi Francesi vicino Chambéry. Mi è stato chiesto di assumere tale responsabilità due anni fa, dopo 22 anni trascorsi nella comunità di Trosly, la comunità inaugurale. Tale cambiamento era il risultato della chiamata all’apertura, alla novità e alla fiducia. Non credevo di essere in grado di diventare capo-gruppo. Sembrerebbe che tutto vada bene nonostante le mie paure ed apprensioni.
La mia storia è come quella delle nostre comunità. Non siamo sempre sicuri della meta. Dobbiamo andare avanti con fede. È proprio ciò che fece Jean Vanier fin dall’inizio. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe diventata l’Arche. Dentro di sé sapeva e desiderava fare qualcosa per i portatori di handicap. Così aprì una casa. Proseguì e si lasciò sorprendere dall’opera divina e dal messaggio del Vangelo che venivano rivelati nella quotidianità dai disabili.
L’Arche è la storia del cuore più che della testa. Jean era un filoso ed ex-ufficiale dei Marines Canadesi. Non aveva nessun tipo di formazione nel settore sociale. Ma il suo cuore fu commosso dalle persone che incontrò in Val Fleuri, e da quelle che avrebbe poi accolto provenienti da istituti e presidi ospedalieri locali.

2. Il passaggio dalla paura e dall’angoscia alla guarigione e alla pace interiore
2.1 Il cuore umano bello e fragile
Non esiste nulla di più bello del cuore umano. Tuttavia, non vi è nulla di più fragile e vulnerabile. Ciò è evidente quando osserviamo un neonato. Abbiamo da poco festeggiato il Natale nella contemplazione del mistero di Dio divenuto umano, il Verbo fatto carne. L’Onnipotente entra nel seno della Madonna e nasce attraverso l’acqua e il sangue. Le doglie del parto di Maria. L’attesa di Giuseppe. L’attenzione e la tenerezza al momento della nascita.
Ogni essere umano, nel cuore, nel corpo e nell’intelligenza ha bisogno di nutrimento e di calore. Ma, soprattutto, ha bisogno di amore. Se non riceviamo cibo e calore moriremo fisicamente. Ma se non riceviamo amore, vivremo una forma di morte anche se vengono soddisfatte le necessità fisiche. Il bebè deve sentire che è prezioso per i propri genitori, deve sentirsi bello e unico. Tu sei la mia gioia. Questo dà sicurezza al bebè, permettendogli di crescere sicuro di sé e di sviluppare la propria personalità fino a diventare se stesso.
Se un figlio, anziché sentirsi dire “ti amo così come sei“, si sente dire ”ti amo solo se farai carriera“, crescerà con un disperato desiderio di avere successo. Forse, noi tutti a volte proviamo tale desiderio, ma se il desiderio non diventa un’ossessione, allora non vi è niente di male. È importante fare qualcosa di meritevole. Il problema nasce quando la necessità del fare mi ostacola nel mio essere. Divento ossessionati dal posto che ho raggiunto in società, nel luogo di lavoro, persino in chiesa e nella mia comunità. Divento un arrampicatore sociale nella scalata al potere per dimostrare che valgo. Ho bisogno di riconoscimenti dalla nostra società che funziona così.
Tuttavia, che succede con la persona che ha capacità minime o addirittura che non ha alcuna abilità? Quando un bimbo nasce con una disabilità, non sarà mai in grado di fare tutto ciò che i genitori si aspettavano. Non ha speranza di arrivare al successo. Tutt’altro, tale bimbo sarà un’illusione, una delusione e poi un fallimento. La famiglia avrà difficoltà a trovare il giusto equilibrio per aiutare il bimbo a vivere una vita piena e bella se consideriamo l’impossibilità del successo. Tale persona portatrice di handicap vivrà sempre ai margini della società. Questa realtà porta al rifiuto e all’emarginazione.
Chi è che vuole avere come amico uno che non sarà mai normale? Jean Vanier spesso parla della «tirannia della normalità». Se non si è normali, non si troverà il proprio posto in società.
A prescindere se siamo persone con tendenza al successo o se siamo persone portatrici di handicap, se non sentiamo di essere amati e preziosi semplicemente per ciò che siamo, con il tempo è probabile che svilupperemo rabbia, depressione, ansia, paura e angoscia. Poiché, nel nostro intimo, vogliamo essere amati per ciò che siamo e non per ciò che facciamo. Abbiamo bisogno di sapere che siamo la gioia e il tesoro di qualcuno. Altrimenti ci chiuderemo in noi stessi sprofondando in un baratro di angoscia distaccandoci alla realtà. Forse riusciremo a sfuggire alla dolorosa realtà buttandoci a capofitto nei nostri progetti e nelle nostre preoccupazioni.
Oppure ci rintaneremo dietro una barriera psicologica ed emotiva.
La domanda nasce spontanea: è possibile scappare dall’isolamento o fuggire la solitudine? Se la risposta è sì, allora cosa si deve fare?
Dobbiamo scoprire il passaggio dalla paura e dal dolore alla guarigione e alla pace interiore. 

2.2 Ellen: un incontro e un percorso
Vorrei raccontarvi la storia di una persona, Ellen, che mi ha insegnato tanto riguardo il passaggio dalla rabbia e dalla paura all’amore; il viaggio della scoperta che siamo amati proprio per ciò che siamo e non per ciò che facciamo. Vorrei condividere con voi un po’ della mia relazione con Ellen. Lei mi ha fatto capire che è possibile superare anche gli ostacoli più insormontabili.
Inizio col dire che io sono il tipico prodotto della cultura del successo.
Sono cresciuta in Nord America. La società nord-americana rappresenta il contesto perfetto per tale cultura per cui si deve sfondare nel mondo del lavoro e si deve fare carriera. Dalla mia famiglia ho ricevuto amore, ma sapevo che se fossi andata bene a scuola e se avessi svolto tutte le attività giuste sarei stata amata e apprezzata ancora di più. Mi sono lasciata condizionare da questa situazione.
Ero un’instancabile stacanovista. Ero una donna fortunata e di successo.
Dallo studio sarei facilmente passata alla carriera. Avevo tutte le carte in regola per affermarmi nella vita.
Ellen era nata in una famiglia piuttosto povera con problemi economici e sociali. La madre non era in grado di mantenere i propri figli che furono affidati ai servizi sociali. Quando nacque Ellen, sua mamma non ebbe neppure il tempo di rendersi conto che la figlia fosse una disabile grave. Ellen nacque con gravi malformazioni. Era semi-paralizzata. Non avrebbe mai parlato, mai camminato e non sarebbe mai stata indipendente. Il corpo rimase sempre piccolo ad eccezione della testa che era sproporzionatamente grande.
Poteva muovere soltanto la mano destra per afferrare gli oggetti o tenere il cucchiaio per mangiare. Si trascinava lungo il pavimento con il braccio destro e questo ero tutto il movimento fisico che era in grado di fare autonomamente. Fu trasferita da un istituto ad un altro e anche in diversi presidi ospedalieri. Veniva assistita, lavata en nutrita dai para-medici, ma non aveva mai conosciuto nessuno in grado di dirle quanto fosse preziosa e amata.
Ho conosciuto Ellen in una delle nostre case a Trosly dove viveva già da dieci anni. Era approdata lì all’età di 18 anni. Faceva parte del primo gruppo della nostra prima casa per disabili adulti gravi (ringrazio Dio per l’ingenuità di coloro che la accoglievano… non sapevano a cosa stavano andando incontro). Ellen era una donna angosciata che soffriva molto. L’amarezza della sua infanzia l’aveva segnata. Non aveva né autostima né amor proprio. Di conseguenza, riversava la sua rabbia e la sua angoscia su se stessa picchiandosi la testa, gettandosi a terra dalla sedia a rotelle e urlando incessantemente.
Si chiudeva in se stessa in un mondo di autolesionismo. Era stata fasciata in testa e alla mano per proteggerla dalla sua stessa violenza. I dottori dissero che le ferite che si era inflitta sulla fronte non si sarebbero mai richiuse. 

2.3 Far capire che si è amati
Il ruolo degli assistenti dell’Arche era quello di dire ad Ellen che era bella e che poteva essere amata. Poco a poco, giorno dopo giorno,gli assistenti le dovevano far capire che la sua vita aveva uno scopo, quello di donare, e dovevano infonderle il senso di appartenenza.
Dovevano farle capire, inoltre, che lei era in grado di donare la sua vita per gli altri: «È importante che tu esista». Non fu un compito facile e richiese molto tempo. Ellen aveva tanta rabbia dentro di sé.
Infine, iniziò a prendersela con gli altri. Perlomeno, smise di prendersela con se stessa, ma fu difficile per gli assistenti.
Nello nostre comunità l’unione fa la forza. Non si è soli nell’assistere persone come Ellen. Le nostre squadre di assistenti collaborano con i professionisti. Occuparsi ed assistere Ellen significava avvalersi dell’aiuto di persone competenti. È stato molto importante seguire l’evoluzione di Ellen nel corso degli anni. Abbiamo dovuto interpretare il suo linguaggio non-verbale e adattare, di conseguenza, l’accompagnamento, che consisteva nella semplice routine quotidiana di lavarla, vestirla, camminare con lei, mangiare con lei, ridere con lei, insomma, trascorrere del tempo con lei. 

2.4 Capire il grido di angoscia
Abbiamo dovuto capire cosa le causava tanto dolore e poi cosa fare per aiutarla. Come mai tanta angoscia? Il grido di aiuto proveniva dal profondo di Ellen, ma, ovviamente, lei non fu mai in grado di dirmelo. Mi ricordo un volta una giovane assistente all’Arche che mi raccontava di aver attraversato un periodo di sofferenza intollerabile fino al punto che si procurava bruciature sul braccio con il mozzicone di sigarette perché affermava che il dolore fisico era meno forte di quello psicologico.
L’angoscia è un qualcosa di intollerabile e difficile da riconoscere.
Se, da un lato, la paura è una reazione (che può essere paralizzante)ad elementi esterni, una sorta di protezione o di consapevolezza davanti ad un eventuale pericolo, l’angoscia, invece, è diversa. Proviene da dentro ed è accompagnata da una sensazione di smarrimento.
Si ha la sensazione di perdere il comando; si prova agitazione e non si vede la luce fuori dal tunnel. Non è necessario essere cervelloni per capire che si prova angoscia. L’angoscia ti sale in petto e ti invade. La si può provare in periodi di lutto, di dolore o quando si ha la sensazione di non essere necessari agli altri. Se nessuno ha bisogno di me allora sono privo di valore e se non valgo nulla e se non sono importante allora vuol dire che ho fatto qualcosa di male. Il senso di colpa si insinua senza un vero motivo e ci si chiede: «Che ci sto a fare qui?». Ci volle molto tempo e tanta pazienza per aiutare Ellen a superare le sue sofferenze.
Durante questo cammino con Ellen ci siamo imbattuti in molti ostacoli. Ci ha spinto fino ai nostri limiti. Ci sono stati momenti in cui Ellen era così impetuosa e violenta con me, mentre mi occupavo di lei, che me ne sono dovuta uscire dalla stanza per timore di perdere il mio autocontrollo. La sua rabbia e la sua angoscia scatenavano una sensazione di violenza in me. Le sue urla mi trafiggevano. Io, che dovevo essere lì per aiutarla a mantenere il controllo, mi sono ritrovata dinnanzi alla mia incapacità di gestire questo dolore. Mi resi conto che potevo io stessa perdere la calma e reagire con violenza. Così, nel mezzo del cammino per offrire aiuto ad Ellen, scoprimmo che non conoscevamo noi stessi fino in fondo. Per ciò che riguarda me, la priorità era di capire da dove provenissero la mia violenza e la mia rabbia. Cosa scatenava
Ellen in me? Le mie sensazioni di inutilità, di rabbia irrisolta o di solitudine?
Cosa fare quando scopriamo di provare paura e dolore? Se voglio aiutare chi soffre, allora devo prima affrontare le mie sofferenze.
Se voglio parlare con le persone che soffrono e che sono in cerca di serenità, devo prima accettare le mie sofferenze riguardo ciò che non conosco. Anche io, come Ellen, avevo bisogno di aiuto da parte di persone pazienti per affrontare il cammino verso l’amore. Con il passare del tempo Ellen ed io diventammo “pellegrini nello stesso cammino”.
Nell’Arche veniamo a servire i poveri per donarci a loro con generosità. Se la nostra permanenza si protrae, scopriamo che i poveri siamo noi e che abbiamo tanto da ricevere quanto da donare, o addirittura di più. 

2.5 Verso la pace
Poco a poco, nel corso degli anni, Ellen diventò più tranquilla. Rimase fragile, ma scoprimmo che aveva uno spiccato senso dell’umorismo.
Sapeva ridere di se stessa e ridere con gli altri. Riusciva a vivere la tristezza senza prendersela con se stessa. Mostrava di essere comprensiva nei confronti di chi soffriva. Divenne bella per i nostri occhi. Volevamo stare con lei specialmente quando era di buon umore poiché era diventata una vera gioia. Alla fine della giornata, durante le preghiere, ce la prendevamo in braccio, era la nostra gioia e ci trasmetteva un senso di pace.
Dalla nostra esperienza personale, cominciammo a capire che sotto le nostre ferite e sotto la nostra sensazione di nullità, abbiamo un immenso tesoro di bellezza. Siamo tutti belli oltre la nostra immaginazione. “Io sono qualcuno”. C’è vita in me e io sono capace di dare la vita. Posso portare gioia e amore al mio prossimo. Ellen poteva portare gioia e vita agli altri e lo potevo fare anche io. Tutto questo non solo per ciò che io posso fare per Ellen o per altri come lei, ma perché io sono ciò che sono. Jean Vanier nelle sue conferenze ci ricorda sempre: «Tu sei molto più bello di ciò che osi immaginare!». Ed è verissimo.

3. Gesù il guaritore ferito

Gesù il guaritore ferito fu il tema di un ritiro spirituale presieduto da Jean Vanier al quale ebbi il privilegio di partecipare alcuni mesi fa. Questo tema va a pennello per la mia presentazione odierna. Gesù, colui che è stato rifiutato, è colui che ci guarisce. La persona stessa che aiuto, diventa la persona che aiuta me.
Tornando all’incontro di Gesù con la Samaritana, con cui ho cominciato il mio intervento, è a questa donna che Gesù rivela di essere il Messia. Colui che verrà. Una realtà intima manifestata a una donna “rovinata”.
Come inizia questo incontro? «Gesù è stanco del viaggio…»:
Gesù stanco e probabilmente anche accaldato, solo e indigente. Ha sete e si siede vicino al pozzo, ma non sa come attingere acqua. È povero e ha bisogno di aiuto. Non si tratta di una messinscena per incontrare la donna. È la realtà. Gesù è vulnerabile e può essere vulnerabile dinanzi al suo prossimo. Non è venuto con un atteggiamento di superiorità, ma di umiltà. «Ecco, sono alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui» (Ap 3,20).
«Dammi da bere» (Gv 4,8). Forse si tratta di un altro modo per dire che ha bisogno di lei. Così inizia il dialogo. Sappiamo che Gesù la inviterà a ricevere l’acqua viva che conduce alla vita eterna, ma la donna ancora non lo sa. Qui la Samaritana si trova di fronte ad un uomo ebreo che le chiede qualcosa, fatto scandaloso per quell’epoca.
Giovanni è chiarissimo a riguardo: gli Ebrei non avevano nulla a che fare con i Samaritani. Non approfondirò il concetto che voi conoscete molto meglio di me: le barriere che separavano Gesù da questa donna. 

3.1 Gesù abbatte le barriere e i muri della separazione
Gesù porta all’unione, porta a riunire la gente. Il mondo non è cambiato. Oggi, ci sono ancora clan, gruppi, fazioni e partiti separati.
Ogni membro di ogni gruppo ha la tendenza a rimanerci dentro perché all’interno del proprio gruppo si prova un senso di sicurezza.
Non veniamo incoraggiati ad uscire all’esterno e incontrare quelli che sono differenti e non la pensano come noi. Abbiamo paura della differenza. Nel nostro gruppo possiamo essere tutti d’accordo dicendoci che siamo uniti e che non siamo come quelli che la pensano diversamente da noi e hanno ricevuto un’istruzione diversa dalla nostra. Jean V. racconta sempre un aneddoto di quando era in macchina, in viaggio dall’aeroporto di Santiago del Cile verso il centro della città. Il tassista gli spiega che stanno sulla strada principale.
Da un lato della strada ci sono le ville dei ricconi. Dall’altro lato ci sono le baraccopoli dei poveri. Poi spiega: «Nessuno attraversa mai la strada». La separazione è evidente. I ricchi e i poveri non attraversano mai la strada.
Quindi, la Samaritana è sorpresa perché non si aspettava Gesù, che è il maestro dell’imprevisto.
Nel mio primo incontro con Ellen, la vidi che si trascinava sul pavimento spingendosi con il braccio. La mia prima reazione fu quella di pensare che non ci poteva essere una persona in quel corpo!
Stavo già all’Arche da quattro anni, ma ebbi comunque un vero shock. Ellen era troppo differente da qualunque persona. Gesù abbatte le barriere e i muri per avvicinarsi a noi. Attraversa le frontiere. Come si evince dall’incontro con la Samaritana, proprio perché egli si propone come persona umile e povera, riesce a venire incontro alla donna. Gesù non arriva sdottoreggiando lezioni morali né le chiede di cambiare. Incontra la Samaritana nel luogo dove si trovava. Un incontro che le cambierà la vita. Poiché con il dialogo, Gesù la porta alla verità che lei prima non vedeva.

La promessa dell’acqua eterna, la risveglia dal suo torpore spirituale:
«Dammi di quest’acqua perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua…».
«Vai a chiamare tuo marito».
«Non ho marito» (ha avuto cinque mariti e quello che ha ora non è suo marito…).
Poi Gesù le dice: «Hai detto il vero» (Gv 4,15-18). 

3.2 Gesù il guaritore ferito ci esorta alla verità
Gesù ci invita alla verità di ciò che siamo. Dice che egli stesso è venuto per testimoniare la verità. È anche per questo che ci chiama, affinché anche noi diventiamo testimoni di verità. Prima dobbiamo accettare la verità riguardante noi stessi. Può far male quando si esplora il lato oscuro dentro di noi. Tuttavia, ci imbarchiamo in questo viaggio perché c’è una promessa di Vita. La promessa e la buona novella che siamo amati e siamo preziosi e belli. Piccoli, sì, ma molto più belli di quanto osiamo immaginare. Così può sbocciare la vita in noi.
Durante il nostro cammino personale possiamo, di conseguenza, invitare gli altri a rialzarsi e a riscoprire la propria bellezza facendo capire loro che sono amati e che possono amare. Però, prima di diventare guaritori, dobbiamo conoscere le nostre ferite e la nostra fragilità. 

3.3 Paura della verità?
Perché abbiamo così paura di giungere sul luogo della verità? Temiamo che se le persone scoprono chi siamo veramente allora non siano più in grado di amarci? E che dire delle barriere dentro di me che non oso attraversare? «Nessuno attraversa la strada». A volte abbiamo paura di guardarci dentro e di ammettere che siamo fatti in un certo modo. Crediamo che se osiamo andare nel luogo della verità in noi allora saremo liberi?
L’acqua eterna sgorgherà in noi al posto delle torbide acque stagnanti delle nostre tenebre. Le persone come Ellen possono “raddrizzarsi” con dignità. Il terribile dolore dei portatori di handicap, e delle loro famiglie, è l’umiliazione. È come se fossero privati della dignità fondamentale. Vengono derisi e presi in giro. È facile capire il modo in cui guardiamo i disabili. È molto doloroso. 

3.4 L’umiliazione dei disabili e dei loro genitori
Poco tempo fa, per Natale, abbiamo invitato a cena a Chambéry le famiglie per una serata canora e per festeggiare il Natale e Capodanno.
A fine serata, dopo una breve recita natalizia, abbiamo mostrato una serie di diapositive con le foto dei nostri eventi e della nostra vita quotidiana in comunità. Il tutto accompagnato dalla musica scelta da un nostro assistente. Una piccola produzione. Mi piaceva. L’assistente aveva fatto un buon lavoro. Tuttavia, non mi aspettavo la reazione commovente da parte dei genitori dei disabili.
Per me si trattava di una serie di foto della nostra vita di ogni giorno. A fine serata, uno dei genitori è venuto da me con le lacrime agli occhi e mi ha detto: «Non si può immaginare che bello è per un genitore vedere tutte quelle foto che mostrano quanta vita c’è in comunità e che gioia vedere mio figlio che vi partecipa! Come padre, vedo la bellezza di mio figlio, ma purtroppo non tutti riescono a vederla.
Vivo ogni giorno con il dolore del suo handicap. Persino gli altri miei figli non sempre riescono a vedere ciò che vedo io in lui. Però in queste foto mi rendo conto che lei ha captato e compreso tale bellezza».
È come la bellezza che abbiamo iniziato a vedere in Ellen con il passare del tempo e che non era più umiliante, ma al posto giusto riceveva e donava la vita agli altri. Quando Ellen morì, arrivarono messaggi da tutto il mondo da parte degli assistenti che l’avevano conosciuta e volevano manifestare il cambiamento positivo che Ellen aveva apportato in loro.

 3.5 Se si vuole conoscere l’umanità…
Mi viene in mente un’altra persona che si chiamava Claude, uomo dal volto sfigurato. Era stato sottoposto ad una serie di operazioni, ma sul suo viso rimasero sempre le cicatrici. Era alto e segaligno, con il corpo sproporzionato che gli dava uno strano aspetto.
Mentalmente era abbastanza intelligente. Amava stare con i bambini, ma ogni volta che arrivavano i bambini in casa si ritirava dicendo:
«Mi piacciono i bimbi, ma il mio viso li spaventa». In effetti era vero. Questa situazione gli causava molta sofferenza sebbene avesse accettato la realtà. Quindi era sempre in soggezione davanti alla bellezza di un bambino.
Nelle nostre comunità abbiamo la tradizione, durante un lutto, di condividere un periodo di testimonianza del defunto. Rievochiamo i “fioretti “ quotidiani e le gioie e i dolori dell’aver vissuto insieme. Ricordiamo cosa ci ha insegnato il nostro caro defunto riguardo Dio e la spiritualità. Per la morte di Claude dovevo dare una testimonianza e mi resi conto che Claude non ci aveva mai parlato molto di Dio. Non andava spesso a messa e le sue preghiere erano brevi e fatte a modo suo. In effetti, la “situazione preghiera” gli scombinava i suoi programmi. Preferiva starsene a fumare una sigaretta. Dissi che, a quanto pare, Claude non aveva avuto nulla da dire riguardo Dio, ma forse Dio aveva tanto da dirci su Claude: se vuoi avvicinarti all’umanità, se vuoi conoscere la realtà umana, devi conoscere persone come Claude. Le cose che Dio ha nascosto ai saggi e agli eruditi, le ha rivelate alle persone come lui.
Un esempio che mi ha sempre commosso è la storia di Dédé, un ospite nelle nostre comunità. Un omone grande che ha trascorso tanti anni con la rabbia. Non fu facile fargli superare il suo passato e il suo handicap. Però sviluppò un’amicizia profonda con Gesù. Una volta, doveva andare a fare una visita cardiologica. Al suo ritorno gli chiedemmo come fosse andata la visita. Rispose che il dottore avevamo guardato nel suo cuore. Gli chiedemmo cosa avesse visto. La sua risposta fu: «Gesù». Così gli chiedemmo cosa stesse facendo Gesù nel suo cuore e la sua risposta fu: «Stava riposando». Gesù riposa nei nostri cuori. È tutto un programma!

4. Beati quelli che seguono l’esempio
La nostra vocazione è amare. Siamo chiamati ad essere umili testimoni della verità e a condividere la buona novella che siamo amati da Dio e siamo chiamati ad intraprendere una relazione nell’amore che ci renderà liberi di essere noi stessi per donarci agli altri.
I nostri cuori di pietra devono diventare cuori teneri. I cuori umani sono vulnerabili e possono essere feriti. Tuttavia, sono cuori aperti. Il desiderio di Dio è di dimorare nei nostri cuori per trovare un posticino dove riposarsi.
Ci vuole tenerezza per amare e rivelare agli altri che anche essi sono amati. La tenerezza supera le parole. Ci sono volute tante giornate e tante ore di duro lavoro quotidiano con Ellen per poi poterle rivelarle di essere bella. A sua volta Ellen divenne una fonte di vita e di guarigione. Dopo alcuni anni che già vivevo con Ellen, ero con lei e la osservavo con ammirazione. La trovavo veramente bella. All’improvviso mi venne da pensare: se io riesco a vedere tanta bellezza in Ellen (proprio lei che ha dovuto con sofferenza superare tanti ostacoli nella sua vita), allora dovrei essere in grado di vedere tanta bellezza anche in me. Vi ricordo che la prima volta che l’ho vista mi sono chiesta come fosse possibile che ci fosse una persona in quel corpo. Un guaritore ferito. Una delle definizioni dell’amore è quella di “rivelare al prossimo che è bello”. Esiste un riflesso, un riscontro delle situazioni. Tu riveli a me chi sono e io lo rivelo a te. 

4.1 La lavanda dei piedi
Nelle nostre comunità diamo molta importanza alla lavanda dei piedi poiché è un bell’esempio del nostro stile di vita quotidiano. Quando facciamo la lavanda dei piedi è come se ci stessimo dicendo: «Tu sei importante e io sono contento che tu sia qui». Durante la lavanda ci passiamo la bacinella mentre stiamo seduti in circolo. Può capitare che io lavi i piedi a Dédé e che poi lui li lavi al capo-gruppo e così via. La lavanda dei piedi richiede tempo. È importante guardare la persona, toccarle i piedi ed essere presente per quella persona. Con questo gesto Gesù non stava forse dicendo: «Sei molto più bello di quanto osi pensare?». E non stava forse mostrando il suo amore personale per ognuno di noi? E non era forse presente per ognuno di noi? Qui Gesù ci dà anche un modello di autorità. All’Arche ci impegniamo affinché l’autorità sia “un’autorità servizievole”. La lavanda dei piedi è proprio questo. «Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l’esempio» (Gv 13,13-15). Ci dobbiamo inginocchiare ed invitare il nostro prossimo ad elevarsi. Dobbiamo invitare il nostro prossimo ad essere se stesso, a guarire e a diventare guaritore affinché diventi un testimone della verità sempre in cerca della verità.

4.2 L’assurdità dell’Arche
C’è qualcosa di veramente assurdo nella nostra vita presso l’Arche.
A volte mi domando come l’Arche riesca ad andare avanti poiché si tratta di una vera e propria follia: l’impegno a mantenere uniti tutti gli aspetti dell’istituzione e della comunità; la provenienza internazionale degli assistenti e degli ospiti con le varie nazionalità, culture e i differenti bagagli culturali; la creazione di comunità mediante persone che non sanno cosa sia una comunità; la convivenza quotidiana con la sofferenza dei portatori di handicap e dei malati.
Non ho mai fatto un conteggio del numero di “emergenze o di imprevisti”, ma so che la media è molto alta. Tuttavia, miracolosamente l’Arche continua a funzionare.
Più che essere capo-gruppo, sto scoprendo la “gioia” di essere sopraffatta e sommersa dal lavoro e sono sorpresa da ogni eventuale problema e situazione che si presenta quando meno me lo aspetto.
Sono consapevole che non posso fare tutto da sola. Ho bisogno dell’aiuto di Dio, di Gesù e dello Spirito Santo. So che desidero seguire la sua chiamata e mi voglio lasciar trasformare dalle relazioni che ho con i miei fratelli e le mie sorelle dell’Arche, ma sono consapevole dei mie limiti, dei miei blocchi, delle mie incapacità e delle mie ferite che devono essere sanate. Sono in cammino. Siamo tutti in cammino.
Al cuore di tutto sta il fatto che io ho lavato i piedi ad Ellen e lei a me. Oggi vivo ciò con Isabelle, François e Marie a Chambéry. Ci laviamo i piedi a vicenda e ci invitiamo ad andare alla verità attraverso le nostre relazioni. Viviamo la beatitudine della lavanda dei piedi: “beati coloro che seguono questo esempio” e i nostri cuori di pietra diventeranno teneri.
Gesù bussa alla porta. Sappiamo che a volte è difficile udire la nostra risposta, ma proviamo a dire di sì. Perlomeno, dobbiamo sapere che il nostro desiderio è quello di aprire la porta e di invitare
Gesù ad entrare.

Vorrei condividere con voi alcuni appunti che avevo preso durante un ritiro con Jean Vanier:
Se bevete l’acqua che vi darò, non avrete più sete. Avrete una sensazione di benessere quindi non avrete più necessità di cercare sicurezze. Saprete di essere amati.
Se riceverete amore allora donerete amore. Se umilmente vi atterrete alla verità, allora umilmente donerete la verità.
Sono piccolo ma bello. 

Conclusione
Ho iniziato con una citazione della Lettera di San Giovanni: «Ciò che abbiamo visto, udito e toccato con le nostre mani»… questo è il nostro tema. I poveri e gli emarginati sono quelli che ci possono guarire e ci possono aiutare a scoprire la bellezza e la capacità di donarsi. Ci fanno scoprire la fonte di vita che sgorga in noi.
Spero di avervi trasmesso tale messaggio che ho scoperto e appreso nella mia vita quotidiana presso l’Arche con tutte le gioie e i dolori. Nel nostro statuto si legge: «L’Arche non è la soluzione, ma è un segno». L’Arche è sempre stata e sempre sarà fragile. In qualche modo riusciamo a mantenerla in equilibrio. A volte è stancante, ma così sappiamo che abbiamo bisogno di Dio.
Siamo chiamati ad adorare in spirito e verità. Questa verità giunge a noi e si fa viva in noi durante questo semplice ma forte cammino nel profondo del nostro cuore grazie anche a colore che incontriamo i “guaritori feriti”. La persona vulnerabile e rifiutata diventa poi la persona che aiuta i forti e i capaci. Poco a poco, giorno dopo giorno, la paura molla la presa su di noi e noi diventiamo capaci di amare.