N.03
Maggio/Giugno 2014

Io… mi prendo cura di te

1. A me chi è vicino?
C’è qualcuno che si prende cura di me? C’è qualcuno o non cè nessuno?
È una domanda di senso che abita nella profondità di ogni persona e attraversa in modi diversi le varie fasi della vita. È tanto profonda e delicata che spesso rimane silente, sia nel bambino ancora totalmente incapace di formularla, sia nell’adulto seppur già confortato dalla vita.
Appena nati siamo affidati al mondo circostante e abbiamo biso­gno di qualcuno che ci protegga, che ci «dia il permesso» di vivere il più possibile serenamente il nostro essere limitati e bisognosi di cure. Perché questo avvenga per il bambino è necessaria la presen­za di un’unica condizione: «Il poter credere in un’alterità buona, capace e disposta ad accogliere la nostra vulnerabilità, a non usarla contro di noi e a non percepirla come inaccettabile»1.
Erik Erikson, autorevole psicologo evolutivo, esplicita in questa prima sfida del bambino la conquista della fiducia e della speran­za. La fiducia esprime la semplicità («questo sono») e la reciprocità («mentre ti prendi cura di me tu sei in grado di vedermi come io sono, mi rispecchi e rispondi ai miei gesti e bisogni spontanei»). Se la risposta di chi si prende cura offre il rispecchiamento, il bambino, ancora incapace di parola, sentirà di esistere come un essere benvo­luto e potrà in qualche modo anche godere della propria piccolezza e vulnerabilità. Si forma nel bambino un senso fondamentale di fiducia negli altri e di essere lui stesso degno di fiducia, perché percepisce una certa corrispondenza fra i propri bisogni e quelli del mondo (oppo­sta alla sfiducia, alla paura delle minacce esterne e dell’abbandono). Questa fiducia è detta “di base” in quanto costituisce il fondamento della propria capacità relazionale, dona stabilità nella speranza che è possibile attendere in maniera serena ciò che ancora non si possiede, ma si desidera.
Questa prima sfida evolutiva che il bambino è chiamato a vivere dice qualcosa di molto importante anche circa la persona adulta che offre le cure: «L’uomo maturo ha bisogno che si abbia bisogno di lui»2. Nel proseguire il proprio percorso evolutivo, se le cose vanno sufficientemente bene, la persona, secondo Erikson, sviluppa diver­se virtù (volontà, finalità e competenza, fedeltà e amore) fino a di­ventare capace di «trascurare volentieri» le proprie preoccupazioni personali ed immediate, per sostenere gli altri. Parliamo dello svi­luppo della capacità di prendersi cura, di essere generativi e dare vita: è bello amare il prossimo come se stessi, amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze. È bello fare della propria vita un dono il più possibile gratuito. Certamente vivere una simile cura per l’altro è motivo di gioia, di comunione, di pienezza: la vita vissuta in qual­che modo corrisponde all’ideale scelto. Oggettivamente è chiaro che è un bene e il cuore, anche soggettivamente, ne gioisce. Eppure lo stesso cuore può avvertire il bisogno più squisitamente umano, può emergere una sensazione quasi di privazione: «E io?»; «Di me chi si preoccupa?». La domanda iniziale della vita può tornare a fare capolino e far risuonare, in alcuni casi drammaticamente, il dubbio: «Chi sostiene la mia vulnerabilità?».
Quanto somiglia al ben conosciuto interrogativo: «E chi è mio prossimo?» (Lc 10,29)! Una domanda grazie alla quale Gesù ci re­gala una parabola davvero bella, forse non tanto – o non soltanto – di esortazione ad amare come Lui, ma piuttosto una pagina di evangelo, cioè la buona notizia di una vicinanza, di una cura pre­murosa tanto attesa che precede e guarisce, rendendo così possibile l’amore. È la buona notizia che l’invocazione «chi si prende cura di me?» è una richiesta ascoltata volentieri da Gesù e alla quale egli è “obbediente”.
È la famosa domanda del dottore della legge che, dopo aver riconosciuto l’importanza di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la forza e la mente e il prossimo come se stessi, chiede a Gesù: «”A me, chi è vicino?” (…) Il problema del legista non è quello di indi­viduare chi è da amare: tutti sono da amare, vicini e lontani (cf Lc 6,27-38). La questione non è “chi devo amare” (quis diligendus), bensì “chi mi ama” (quis diligens). Infatti nessuno può amare né sé né l’altro né Dio se prima non ha sperimentato la vicinanza di chi lo ama»3.
Sappiamo bene com’è la storia: sulla strada da Gerusalemme a Gerico un uomo incappa nei briganti, viene assalito, derubato e lasciato lì mezzo morto. Arriva un sacerdote prima, un levita poi ed entrambi, forse per prudenza, passano oltre. Invece un samaritano «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (Lc 10,33- 34). Chi è dunque il prossimo? Per quest’uomo ferito, spogliato di tutto e incapace di chiedere l’aiuto è proprio il samaritano. Gesù chiede al ferito della strada di amare con tutto se stesso il samarita­no che si è preso cura di lui. In altre parole: il nostro prossimo sono, innanzitutto, tutti coloro che la provvidenza ha fatto passare sulla nostra strada, che c’erano quando avevamo bisogno di aiuto e ce l’hanno dato magari senza che noi fossimo in grado di chiederlo, che ci hanno “rimesso in sella”. «Il nostro prossimo è il “tu” senza il quale non ci sarebbe più un “io” in noi; è quello che ci ha aiutati in un momento in cui, privi di risorse fisiche o morali, non potevamo più farci né da padre né da madre, non potevamo più sostenerci»4.

2. Inevitabili ferite
Un po’ come il profeta sveglia la coscienza di Davide dicendogli «tu sei quell’uomo» (2Sam 12,7), la parabola lucana ricorda che l’uomo ferito sulla strada rappresenta ogni uomo, ognuno di noi. Del resto è impossibile evitare le ferite o il trovarci in un qualsiasi stato di necessità: significherebbe che non stiamo vivendo davvero. «Il dolore è il luogo in cui il mistero dell’uomo si manifesta: mentre si presenta come nemico e come violenza, come alterità che minac­cia e fa patire, come un blocco che limita e non lascia essere piena­mente come si vorrebbe o dovrebbe, allo stesso tempo appare come legge della realtà, come battito nel ritmo della vita, fuori del quale c’è solo l’illusione e un danno più radicale»5.
Il ritrovarci inevitabilmente feriti può essere motivato, se così si può dire, da diversi “briganti”, con origini e significati differenti: il peccato personale, una difficoltà nello sviluppo con conseguenze a livello di psicopatologia, qualche trauma sperimentato, un limite fisico o intellettuale, una morte, oppure le ferite derivanti dalle re­lazioni attuali o passate…

2.1 La ferita del peccato
La Parola di Dio è invito incessante a scoprire la paternità di Dio che ci fa sentire figli amati e anche “avvertimento” di come ogni uomo sia intimamente ferito, nella sua natura più radicale, da que­sto mistero che è il peccato, il male. Sono due polarità che non si contrappongono, ma piuttosto dinamizzano l’umano: siamo figli amati e peccatori perdonati. È la stessa identità dinamica, c’è una circolarità: più progrediamo nella fede e nell’esperienza di essere figli, più prendiamo coscienza del nostro peccato e del nostro essere lontano dal Padre. Poi l’esperienza del farsi prossimo di Dio, della sua misericordia che è come olio e vino sulle nostre ferite, cura e rigenera, perché largamente perdona e restituisce alla dignità filiale, pur rimanendo peccatori…
In altre parole: siamo feriti anche dal nostro stesso essere feritori.

2.2 La libertà ferita
Ci sono alcune ferite che invece vengono da lontano, profon­de e durature, manifestando una vulnerabilità connessa a forme di psicopatologia, più o meno gravi. Cosa è avvenuto? La psicologia evolutiva parla di arresti e regressioni nel corso dello sviluppo. In alcuni casi non sempre le vicissitudini evolutive sono chiaramente definibili, ma ciò che assume evidenza è che l’ansia ha imposto alla persona una “fuga” attraverso misure difensive di emergenza, mec­canismi di protezione del suo “io” che, in realtà, sono come dei corti circuiti. La persona si ritrova infatti ripiegata su di sé, limitata nella sua vita ordinaria, nella libertà essenziale di comprendere, decidere e volere.
Se simili ferite personali sono sovente riconoscibili chiaramen­te all’esterno, ce ne sono altre che rimangono invece più segre­te, come risultato di qualche processo conflittuale nella storia della persona. La libertà ferita non si manifesta qui con l’incapacità di comprendere, volere ed agire, ma piuttosto si evidenzia nel non riu­scire effettivamente a fare ciò che si vorrebbe fare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Nel nostro cuore c’è come una lotta tra forze motivazionali diverse: siamo attratti e orientati verso ideali che, come un faro, ci dicono dove sia un bene particolare e, al tempo stesso, sperimentiamo una forza che ci trattiene dal dirigerci decisamente verso di esso. La psicologia parla di subconscio: è l’in­sieme delle rappresentazioni che la persona ha di sé e degli altri che sfuggono alla consapevolezza. Cioè precedono ed ostacolano il sorgere di una domanda riflessiva e possiedono una componente affettiva che influisce sia sulla lettura della realtà sia sulle motiva­zioni con le quali si interagisce con essa.

2.3 Ferite relazionali
Quanto detto fin qui ci conduce a considerare le ferite che pro­vengono dalle relazioni, non solo quelle remote, ma anche quelle attuali che avvengono nell’ambito della famiglia, della comunità, dell’ambiente lavorativo. Bisogna riconoscere che non tutte le rela­zioni umane avvengono in un “regime di Grazia”, ma possono rive­larsi vulnerabili, bloccanti, deludenti, lasciando ferite soggettive che possono, talvolta inconsapevolmente, condizionare una lettura vera e realistica (oggettiva) delle relazioni successive. Noi infatti possiamo anche dimenticare alcuni fatti, ma non dimentichiamo le emozio­ni da essi sollecitate ed attivate. Stiamo cioè parlando della “me­moria affettiva” che costituisce il residuo emotivo delle esperienze più significative della vita. Le emozioni sono come “registrate” e automaticamente riattivate (in modo soggettivo, arbitrario rispetto all’evento) nel momento in cui la vita offre situazioni simili a quel­le che hanno originato l’emozione. Se la persona ha un’abitudine all’introspezione e all’ascolto di sé, ed è divenuta almeno sufficien­temente consapevole delle sue ferite e del modo con cui ha imparato a difendersi da esse, allora probabilmente gestirà adeguatamente il suo vissuto. Ma se questo processo non è avvenuto è verosimile che scatterà qualche reazione inconsapevole e non appropriata, seppur “comprensibile” alla luce della storia della persona.
Nel percorso evolutivo possono esserci state “domande” che non hanno trovato un’adeguata corrispondenza e rimangono “regi­strate” appunto nella persona come vulnerabilità: sono come delle domande aperte, insolute, alle quali la persona (anche se adulta) continua a cercare una risposta.
Non pensiamo soltanto a traumi più o meno drammatici, ma an­che a ciò che avviene in una famiglia qualsiasi, un buona famiglia: neppure in essa nessuno riceve tutto ciò di cui ha bisogno e come desidera riceverlo. «Mai tutto l’affetto di cui siamo affamati…e nel modo in cui per noi è digeribile: che mi diano sostegno, ma an­che che mi mostrino fiducia; che mi vogliano bene, ma anche che mi lascino respirare, provare, perfino sbagliare; che mi amino, ma che questo amore non diventi un’arma di ricatto… Il dosaggio è sempre difficile, e mai perfettamente riuscito, anche nelle migliori famiglie!»6. Domande affettive, di stima, di rispetto possono rima­nere come delle ferite aperte e continuare a riproporsi: la persona continua cioè a cercare una risposta, per come può, per come rie­sce, per come è configurata la sua personalità. Consideriamo, ad esempio, una ferita affettiva (magari subconscia): una persona può fronteggiarla con un’eccessiva dedizione agli altri, un’altra con la ricerca di successi ed ammirazione, un’altra ancora chiudendosi e preferendo una posizione di autonomia, e così via… Sono tutti ten­tativi di colmare quella domanda ferita, per eluderla.

3. Stare lì dov’è la ferita: la vita interiore
Possiamo dire che le esperienze vissute, le ferite incontrate nella propria storia condizionano in qualche modo le relazioni successi­ve, ma non necessariamente determinano completamente la pro­pria vita. Sarebbe troppo semplicistico, il cammino della vita non è una sequenza lineare causa-effetto. Da esperienze analoghe pos­sono generarsi esiti diversi da collegare alle successive opportunità relazionali che la vita offre e, soprattutto, alla possibilità di riflettere con intelligenza sulle proprie esperienze.
L’esperienza di tanti, infatti, dice che ci può essere una dimen­sione umanizzante del vissuto doloroso, di qualsiasi natura esso sia; le ferite (se non ci si lascia travolgere) sono sovente un appello per­ché la propria umanità si risvegli, possono costituire l’occasione per nuove partenze, per un cambiamento in meglio della nostra vita. Le ferite sono cioè luogo del mistero perché se è vero che dichiara­no che la realtà si impone a noi con i suoi limiti dolorosi, al tempo stesso esse ci spingono a cercare «altrove» il loro vero significato7.
L’esperienza dice anche che però, purtroppo, questo non vale per tutti. Si può cercare e cercare costruttivamente, ma si può an­che cercare male o fuggire (e non perché lo si desideri).
Nella sofferenza alcuni si chiudono, si abbrutiscono, non è sem­pre detto che la sofferenza umanizzi. Non a tutti è dato, non tutti hanno la capacità di rielaborare dentro di loro le contraddizioni per poi trasformarle in una fonte di libertà, di mansuetudine, di co­municazione. Ci sono sofferenze che a volte paralizzano, qualche dolore è troppo violento, alcune ferite così acute che fanno smar­rire ed emerge la cattiveria e il rancore. Inoltre, più la persona ha una povera vita interiore, più si trova isolata e non ha qualcuno (o fatica ad accoglierlo) che le rivolga la parola e uno sguardo onesto e sereno, una persona, appunto, che si prenda cura di lei, più può inasprirsi.
C’è poi anche la possibilità, come dicevamo, che la ferita rimanga subconscia, ostacolando l’emergere della vera domanda interiore. Abbiamo una capacità incredibilmente “creativa” di evitare le vere paure e le vere domande, ci alleniamo bene con comportamenti e atteggiamenti di vita che tendono a schivare la domanda più pro­fonda e radicale che ci abita.
In questi casi, abbastanza frequenti, avviare un percorso ac­compagnato di riflessione su di sé si presenta come opportuno: è infatti proporzionale allo sviluppo della vita interiore la pos­sibilità di costruire la propria personalità autentica. Dove c’è maggiore consapevolezza c’è maggiore possibilità di giungere ad una soggettività responsabile e libera che si assume la verità di sé, trovandone significato e orientamento.
Altri sembrano accogliere il dolore, aprirsi magari con Dio e a lui offrire il proprio dolore. Questo è bello perché decentra da se stessi ed è dichiarazione limpida che il dolore è condivisibile con chi ci ama. Ma, umanamente, porta con sé il rischio di fuggire dalla fatica di assumere il dolore e la umana protesta ad esso connessa, santifi­candolo forse troppo presto; la sofferenza pretende un ascolto e un dialogo, domanda di essere assunta dalla persona, di darle un senso, di integrarla nella propria storia di vita. Il dolore va sempre “interro­gato” e offerto mai disgiunto da tutte le domande e i vissuti emotivi interiori che lo accompagnano; è la consegna del discreto e forse penoso lavoro interiore che stiamo compiendo con il nostro dolore, in compagnia di Gesù e sotto l’azione del suo Spirito che permette, piano piano, di ritrovare la pace e il senso di unità interiore.
Sì, perché la sofferenza sviluppa forze interne di disunione con le quali si deve lottare, alle quali in qualche modo si deve “obbedi­re”, cioè ascoltarle, lasciar emergere domande che provocano. Im­parare a stare nella propria vita interiore, entrare “in lotta” con le domande che non hanno facile risposta, con le domande che tal­volta rimangono tali (anzi, spesso ne aprono di ulteriori) non è cosa semplice. Però spesso tutto questo è molto più decisivo di possedere eventuali risposte, diviene occasione propizia per una significativa svolta nella vita.
La propensione ad “interrogare se stessi” e la vita dice che il sen­so non è presupposto né immediatamente accessibile: ecco perché la domanda e la “lotta” costituiscono il terreno della “vita viva”, aprono alla ricerca, allargano gli spazi della libertà, permettono il fiorire della vita spirituale.

4. Ascoltarsi ascoltati: la consegna di sé
Le nostre ferite, dunque, implorano quell’ascolto interiore che è l’attitudine ad essere-presso-di-sé. È il primo fondamentale passo, ma non l’unico. L’ascolto di sé, per essere veramente tale, domanda anche che sia racconto di sé e consegna ad un altro. Una vera “lotta” è feconda solo se trasforma e trasforma solo se avviene in una relazione.
Pensiamo quando l’altro a cui raccontiamo noi stessi, le nostre ferite, è il “buon samaritano” per eccellenza, il Signore Gesù. «Nel­la mia angoscia ho gridato al Signore ed egli mi ha risposto» (Sal 120,1): egli certo ci risponde, perché lui è Parola. La sua Parola fa vivere (Sal 119,50) e guarisce (Sal 107,20), ma essendo «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), (paradossale guarigione!) ferisce. Del resto una lotta è, insieme, consolazione e separazione, abbraccio e scontro, riposo e fatica. La forza dell’amore cristiano è senza dub­bio forza di consolazione, ma soprattutto forza di separazione: la parola di Gesù infatti agisce come una spada che, purificando, affina l’esperienza di sé e la comprensione degli altri (anche di Dio stesso), dinamizza la vita. Cioè ci libera. Non dimentichiamo però che la bella legge dell’incarnazione annuncia che la capacità di aprirci al Dio-con-noi avviene sempre attraverso una mediazione, un incon­tro concreto. La crescita nella libertà, o la guarigione delle ferite, se vogliamo, è sempre incontro e relazione.
Quante “piccole” ma significative mediazioni potremmo raccon­tare: una parola buona, una provocazione inattesa, uno sguardo limpido, una frustrazione, una sorpresa, un sorriso, un pianto… Sono come dei “samaritani” che, sollecitando la nostra introspe­zione, ci hanno forse “svegliato”, ci hanno “rimesso in strada” e rilanciato il cammino.
Altre volte il “samaritano” si incarna in una persona che offre un ascolto esperto, cercato magari per affrontare una ferita che fa male e disturba la pace personale. Oppure, trovandosi in un percorso di crescita vocazionale, si è intrapreso un cammino educativo che ha svelato ferite subconsce che non si sapeva neppure di avere.
Sono quegli accompagnamenti prolungati nel tempo che offrono la possibilità di consegnarsi a un educatore che ha già percorso la via, che conosce se stesso, le proprie ferite e le proprie dinamiche relazionali. Se è vero che «nessuno può accompagnare un altro ol­tre il punto al quale lui stesso è giunto»8, l’educatore che si prende cura è allora una persona sufficientemente in pace con quanto ha conosciuto di sé nel suo lavoro introspettivo e permane in una ri­cerca instancabile di interiorità, di bene e di verità. Non avrà il dono magico di non sbagliare mai, ma sarà presenza che si fa accanto, ci guarda con benevolenza, si china sulle nostre ferite servendoci, ci ascolta con profondo rispetto.

4.1 Dalla parte di chi si consegna
Raccontare ad un altro ciò che ascoltiamo in noi stessi è un atto di umiltà, come lo è ogni atto di consegna di sé, di abbandono. È, in fondo, un dire «ho bisogno di te, del tuo ascolto». E, in più, è un gesto umile attendere (e offrire) con amore la verità del proprio essere; una verità spesso offuscata da un rifiuto categorico di rico­noscere la povertà della nostra natura ferita.
È dunque un atto di verità, perché non abbiamo mai detto fino in fondo una verità a noi stessi, e non ci appropriamo veramente di essa, finché non l’abbiamo consegnata ad un altro (in carne ed ossa).
È un atto di fiducia perché all’interno di ogni relazione, in partico­lare in quella educativa, si colloca una tensione esistenziale mai de­finitivamente risolta: il bisogno di essere scoperti e conosciuti fino in fondo in contrapposizione al timore di essere trovati, radicalmen­te compresi o compresi male. Un cammino di consegna rappresenta la possibilità di un nuovo atto di fiducia, proprio come un bambino che, completamente affidato al mondo circostante, gradualmente fa la scoperta della benevolenza e della presenza di un “altro” che, accogliendo le sua vita interiore, lo cura e lo aiuta a crescere.

4.2 Dalla parte di chi ascolta
Un educatore ascolta non solo le parole, ma anche quanto le pa­role non dicono, i silenzi, lo sguardo, le esitazioni di un dialogo che non ha mai niente di insignificante. Sappiamo poi che, laddove poi il dolore fosse più intenso, maggiore sarà l’impotenza delle parole. Ci vuole silenzio e incoraggiamento, rispetto e attesa; ci vuole anche una formazione ed educazione all’ascolto9. Questo avviene infatti nell’ambito di uno scambio capace di farsi carico della complessità affettiva e simbolica dell’altro. Cioè, c’è autentico ascolto del dolore dell’altro quando si è disposti ad ascoltare se stessi e ad elabora­re dentro di sé la rappresentazione mentale della sofferenza che ci viene consegnata. «Un buon ascolto dell’altro ci impegna quindi anche a percorrere quei sentieri non sempre piacevoli e rassicuranti che l’altro ci apre davanti e che aspetta li si percorra insieme a lui. Sentieri che, per forza di cose, mettono in discussione la nostra si­curezza, il nostro equilibrio emotivo»10. È la disponibilità a farlo, la dedizione di chi ascolta e il suo inchinarsi al mondo dell’altro che permette il raccontarsi, non come pura ripetizione di quello che si è già compreso, ma come esplorazione del proprio mondo interiore, anche di quelle ferite che si può aver paura a visitare da soli.

4.3 Dalla parte della relazione
Più ci si accorge che nel raccontarsi e nel consegnarsi chi accoglie rimane libero (non manipola, non lega a sé con dinamiche di pos­sesso, non confonde il dolore personale con quello ascoltato), più ci si tranquillizza e si comincia ad intravedere quanto era indicibile anche a se stessi. Si impara a cogliere nuovi aspetti di sé che con­sentono di iniziare a dare un senso e un orientamento alla propria ferita. Il recupero di ciò che è avvenuto «non è solo necessariamen­te un deprimente viaggio nel mondo dei propri condizionamenti e determinismi, con stoici propositi di rassegnazione, ma riscoperta di potenzialità, ringraziamento»11. Sì, perché c’è sempre del nuovo nel vecchio, anche se a volte può non sembrare. Non esiste il dolore in sé, ma la persona che vive il dolore e c’è una storia di vita che va ascoltata, compresa, spiegata. In forza del complesso intreccio che avviene fra le ferite ricevute, quelle più o meno consapevolmente provocate, i successi e le delusioni, le vicende della vita e le scelte personali… ognuno di noi si crea un modo di percepire se stesso e gli altri.
Da una parte è la forza della personalità che ha una sua “for­ma”, ma dall’altra la “forma” che ciascuno di noi ha assunto come risultante della propria storia può tradire il mistero di cui siamo por­tatori, restringere gli spazi del nostro desiderare e della personale vocazione alla gioia. Un cammino di ascolto, racconto e consegna di sé è un cammino di crescita nella propria umanità, che vede al suo orizzonte la possibilità di imparare ad affrontare le sfide della vita in modo nuovo. Riconsegna gradualmente alla persona le sue potenzialità di umanità e di amore che il dolore aveva ferito fino a renderle “mezze morte”. Questa nuova assunzione di sé avviene grazie al lavoro interiore di entrambi, alla consegna dell’uno e alla sapienza ed esperienza dell’altro, ma anche grazie alla relazione di bene e di cura che sta avvenendo, per la quale entrambi benedicono.
Quando però la vita fosse violata da ferite sconcertanti potrebbe sembrare assurdo o impossibile poter cogliere una luce di speran­za all’orizzonte; potrebbe sembrare irrispettoso scorgere anche solo alcune piccole tracce di gratitudine. In questi casi, benché sembri impossibile e si chieda infinita pazienza, sappiamo bene che solo il crearsi di un legame vero, di autentica cura attraverso l’ascolto, può in qualche modo lenire, almeno parzialmente, una ferita pro­fonda o supplire una mancanza in modo da propiziare la riapertura di uno spiraglio alla gratitudine. «Qualora la riconoscenza alla vita dovesse riaccendersi, sembrerà un evento sorprendente come un miracolo, necessario non solo alla crescita ma alla vita stessa della persona, che non può letteralmente sopravvivere senza legami di riconoscenza»12.
Ecco che, concludendo, ritorniamo all’uomo ferito del Vangelo: a lui, che è stato curato e salvato, il Signore Gesù insegna l’amore. Per tutta la vita amerà il samaritano dal quale ha ricevuto attenzio­ne, cura ed aiuto, possibilità di rialzarsi.
Mai possiamo dimenticare chi ci ha “rimesso in sella”! L’uomo guarito ha la coscienza di un debito (cf Rm 13,8) verso chi lo ha sostenuto in un tratto di cammino permettendogli di continuarlo (o continuarlo meglio). Capiamo bene quindi come l’invito a fare misericordia, «Va’ e anche tu fa così» (Lc 10,37), sia gravido di una forza straordinaria: la forza della gratitudine, della riconoscenza, della benedizione. 

NOTE
1 A. Bissi, Essere e diventare figli. La vocazione dell’uomo, Paoline, Milano 2012, p. 111.
2 E.H. Erikson, Infanzia e società, Armando Editore, Roma 1966, p. 249.
3 S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna 2011, p. 394.
4 F. Dolto, I Vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio, et al./Edizioni, Milano 2012, p. 102.
5 F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, p. 28.
6 R. Capitanio, Principi pedagogici nell’accompagnamento spirituale, in C.M. Martini – R. Vignolo, L’accompagnamento spirituale, Ancora, Milano 2007, p. 85.
8 Suor Emmanuele-Marie, L’accompagnamento spirituale, in AA.VV., in L’attitudine al discerni­mento, Ancora, Milano 1998, p. 110.
7 Cf F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, p. 28.
9 Su alcuni aspetti di “tecnica” si può vedere R. Capitanio, Con empatia, in «Tredimensioni» 7 (2010), pp. 8-16 e Id., Con empatia, oltre l’empatia, in «Tredimensioni» 7 (2010), pp. 166-175.
10 V.L. Castellazzi, Ascoltarsi, ascoltare. Le vie dell’incontro e del dialogo, Ed. Magi, Roma 2011, p. 133.
11 Cf F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, p. 177.
12 E. Parolari, Debito buono e debito cattivo. La psicologia del dono, in «Tredimensioni» 3 (2006), p. 45.