N.03
Maggio/Giugno 2014

Io… vengo a cercarti

«Lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5,20)

Come una cascata benefica e salutare, il verbo della riconci­liazione, che l’apostolo Paolo annuncia come un vangelo1, scende e immerge il lettore. In soli tre versetti (2Cor 5,18-20), la parola “riconciliazione” (katallagē) e il verbo “riconciliare” (ka­tallàssein) compaiono cinque volte. L’apostolo Paolo si accende in una supplica accorata: per vivere la parola della riconciliazione, cor­done ombelicale tra Dio e l’uomo in Gesù Cristo, occorre pregare. È necessario che Paolo non esorti più soltanto con il fuoco della sua parola, o che susciti la fede proclamando la riconciliazione che Dio ha operato in Cristo: ora occorre mettersi nell’atteggiamento della supplica (v. 20). E implora: «Lasciatevi riconciliare con Dio». È Dio che prende l’iniziativa e raggiunge l’uomo esattamente quando lui era peccatore, empio: «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6).
Come Mosè che, mentre pascolava il gregge di Ietro, suo suo­cero, si spinse oltre il deserto, anche noi ci spingiamo oltre il testo per essere raggiunti da quel roveto ardente che continua a bruciare senza consumare. Il nostro roveto ardente è la parola della ricon­ciliazione che l’apostolo Paolo ci presenta: è la sete che Dio ha di noi; il bruciare senza consumarsi è la supplica che Paolo fa per farci entrare in questa terra santa: è la sete che noi abbiamo di Dio.

1. L’“exitus” del Padre: Gesù il riconciliatore
Nel NT l’opera della riconciliazione è un desiderio che si riferi­sce principalmente a Dio: è lui che, per riconciliare definitivamente l’umanità a sé, attua la redenzione mediante Gesù Cristo. Non ci sarebbe motivo per Dio né, soprattutto, necessità di riconciliarsi con l’uomo. Nella traduzione greca della Bibbia (LXX) emerge questo dato, da quanto risulta, per esempio, nella storia dei fratelli Mac­cabei: «Ascolti le vostre preghiere, si riconcili con voi e non vi ab­bandoni in tempi di calamità» (2Mac 1,5); e: «E se ora, a scopo di castigo e di correzione, il vivente Signore nostro per breve tempo si è irritato con noi, di nuovo egli si riconcilierà con i suoi servi» (2Mac 7,33; cf anche 2Mac 8,29).
Particolarmente illuminato sulla verità del mistero della ricon­ciliazione è l’apostolo Paolo che, soprattutto nella Lettera ai Roma­ni e nella Seconda Lettera ai Corinzi, esprime quanto il Signore gli ha fatto intuire. È interessante notare che nel greco extra-biblico il vocabolario delle lettere paoline (riconciliazione/riconciliare) non viene quasi mai attestato per esprimere il rapporto con la divinità, ma dove appare in ambito profano implica sempre l’idea che sia l’offeso ad essere riconciliato oppure che sia l’offensore a riconci­liarsi. Secondo Paolo, invece, chi riconcilia attivamente è Dio e ad essere riconciliati siamo noi o è il mondo: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» (2Cor 5,18-19).
La logica di Dio che Paolo ha vissuto sulla propria pelle prevede questo colpo di scena: colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore; colui che è benedizione, nel nome e nella natura, Dio lo rese maledizione per noi; colui che era fin da principio in unità e comunione con il Padre, Dio permise che sperimentasse la separazione e la frattura dalla Trinità, affinché noi venissimo riconsegnati alla semplicità e alla comunione. Non soltanto abbiamo ricevuto la riconciliazione per mezzo del sangue di Gesù Cristo, ma possiamo vantarci di essere stati definitivamente salvati noi che non avevamo nessun motivo di vanto dinanzi a Dio2.
«È per così dire la parte lesa che paradossalmente compie il primo decisivo passo per riconciliare a sé coloro che erano “deboli/empi/peccatori/nemici”, e questo senza che essi abbiano preso da parte loro la benché minima inizia­tiva (“quando eravamo…”). È qui che si manifesta un puro atto di grazia, cioè di amore appunto gratuito, libero e immotivato, oltre che generoso»3.
Così Dio Padre fa il suo esodo verso l’umanità in maniera au­tentica solo quando il Figlio Gesù muore sulla croce e diventa il riconciliatore tra l’umanità e, appunto, suo Padre. Nel dialogo con Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni, Gesù aveva spiegato questa verità: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unige­nito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Questa salvezza ha un prezzo e un tramite, Gesù stesso: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). La preposizione dià (“attraverso, per mezzo di“) qua­lifica la concretezza con cui Dio stesso, nella passione del suo Figlio, ha scelto di attuare il suo esodo verso di noi.
Che significa «per mezzo di lui»? Come Paolo ci ha spiegato, vuol dire attraverso la giustificazione che Egli compie per rimet­terci in pace con Dio: «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mez­zo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa gra­zia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,1-2); per mezzo del suo sangue: «A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rm 5,9); attraverso il prezzo del suo sangue, come spiega Pietro: «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,18-19); attraverso la torchiatura nel tino dell’ira e della misericordia di Dio: «L’angelo lanciò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e rovesciò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio. Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di milleseicento stadi» (Ap 14,19-20).

2. Il “reditus” del Figlio: Gesù l’intercessore
2.1 La supplica di Gesù: «Offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» (Eb 5,7)
Se l’effluvio del sangue di Gesù è il segno principale dell’offerta che il Figlio fa di sé a nome del Padre, c’è un altro effluvio che sca­turisce da Dio stesso e che testimonia la verità della consegna del Cristo e di quale abisso di dolore abbia realmente provocato questa gratuita e amorosa donazione: le lacrime. Che lo strappo, in seno alla Trinità, del Figlio dal Padre a favore della salvezza del mondo sia qualcosa di profondamente reale, senza finzioni, è testimoniato dal­le segrete lacrime che l’Eterno versa sulla sorte di sofferenza del suo popolo. Lacrime segrete ma efficaci che nella pienezza dei tempi trovano visibilità nel pianto intercessore del Figlio Gesù. Ci racconta di questo mistero di compassione e di comunione profonda di Dio con l’uomo un passo del profeta Geremia: «Se non ascolterete, io piangerò in segreto la vostra superbia; il mio occhio verserà lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore» (Ger 13,17). Questa profezia relativa al pianto segreto di Dio ha lungamente stimolato la riflessione dei saggi che, nel Talmud, si chiedono come intendere queste immagini: «Rab Shemuel, figlio di Iniya, dice in nome di Rav che “il Santo, sia Egli benedetto, ha un luogo che gli è riservato chiamato luoghi segreti”. È lì che si ritira per piangere senza testimoni sulle sventure del suo popolo»4.
Dio si ritira dove nessuno può raggiungerlo e piange. Piange ogni giorno, precisano i maestri alla fine di questo passo talmudico. Questa immagine con i suoi tratti antropomorfici che il profeta in­tuisce sul conto di Dio, ci rivela una potente verità: «Tale immagine non intende solo confortare coloro che sono in preda ad un dolore senza testimoni, inducendoli a credere che Dio piange con loro. Essa rivela anche il presentimento, o anche la coscienza, dei saggi che l’esperienza umana del pianto segreto conduce il più vicino possibile a una verità in cui la somi­glianza dell’uomo al suo creatore si libera dei miraggi che, normalmente, la tengono prigioniera»5.
Nel NT Gesù, prima di insegnare il Padre Nostro, mette in guar­dia da una preghiera farisaica e ipocrita e, insieme alla dinamica del digiuno e dell’elemosina, insegna innanzitutto a rivolgersi in ma­niera personale al Padre che vede “nel segreto”: «Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricom­penserà» (Mt 6,6). Essendo ad immagine e somiglianza di Dio, Gesù rivela la verità dell’uomo proponendogli, potremmo dire, l’imita­zione di quello che dall’eternità Dio ha sempre fatto quando vuole “pregare” per i propri figli, quando vuole “implorare” (dal latino plorans, da ploro, “piangere”) coloro che egli ama.
Il pianto di Dio diventa visibile ed efficace nelle lacrime del suo Figlio Gesù, che pure, però, quando si ritirava in preghiera, lo fa­ceva andando in luoghi deserti e che risultassero in disparte dalla folla6. La Lettera agli Ebrei menziona le lacrime di Gesù insieme alle sue grida come la modalità attraverso cui Egli rivolge preghiere e suppliche al Padre: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte, e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esau­dito» (Eb 5,7-10).
In genere il riferimento storico, nella vita del Cristo, è all’Or­to degli Ulivi, laddove le testimonianze evangeliche narrano di quell’agonia fino a sudare sangue: «E, entrato in agonia, pregava più intensamente. E il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano a terra» (Lc 22,44). La maggior parte degli studiosi della Lettera agli Ebrei, infatti, ritiene che il passaggio di Eb 5,7-10 faccia riferimento esclusivamente a quell’ora di agonia e di prova7. Tuttavia non mancano coloro8 che ritengono possa applicarsi all’in­tera esistenza umana di Gesù quel passaggio che sembra far riferi­mento ad una determinata ora, ad un determinato periodo quanti­ficabile storicamente. La dicitura «nei giorni della sua vita mortale» farebbe per l’appunto allusione a tutta la sua vita terrena.
Il tipo di preghiera e di supplica di cui parla Eb 5,7 riguarda la caratteristica dell’orazione non intesa in senso generale, bensì con un’intensità particolare in riferimento ad una necessità specifica. Il sostantivo è “supplica” (deēsis), la cui derivazione verbale greca indica letteralmente “mancare, aver bisogno di”, e, di conseguen­za, il significato del termine esprime l’idea di “supplicare, chiedere con insistenza”. È questo il verbo che Paolo utilizza in 2Cor 5,20 per esortare con tutte le forze a permettere a Dio quest’opera di riconciliazione. Nel NT il verbo “supplicare” (deomai) è usato quasi esclusivamente da Luca e Paolo. Non sempre il suo significato ori­ginario di “mancare di qualcosa/bisogno” viene posto in evidenza, ma si intende generalmente il significato di “pregare/supplicare”.
Nell’approfondimento dei termini supplicare/supplica impiega­ti nell’Antico Testamento emerge come l’originale ebraico richia­mi l’idea dell’implorare una grazia (chiedere il favore). L’azione della preghiera di supplica è connessa con l’urgente bisogno di ot­tenere misericordia da parte della persona implorante9. In diver­se ricorrenze dell’Antico Testamento si presenta tale dinamica di implorazione, rivolta generalmente verso Dio10. In questo senso si comprende meglio la presentazione di YHWH come «colui che è disposto a mostrare grazia e misericordia». Il Dio misericordioso e compassionevole rappresenta il fondamento della visione teologica di Israele. Un testo esplicativo è la teofania di Es 34,6-7: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»11.
In questo modo così pregnante Gesù, oltre che riconciliatore, diventa intercessore, sperimentando sulla propria pelle, nella pro­pria carne, quello che tutti gli uomini sulla terra provano quando la povertà estrema, l’indigenza, le lacrime, le suppliche per otte­nere qualcosa, si fondono insieme nel gesto stesso della persona che si effonde davanti a Dio. Supplica e supplice sono una sola cosa: è la risposta dell’uomo come gratitudine alla riconciliazione di Dio.

2.2 La supplica dei figli: «Non essere sordo alle mie lacri­me» (Sal 39,13)
La compassione reale ed effettiva è testimoniata dal fatto che la preghiera del supplice non è solo espressione vocale, richiesta verbale, seppure accorata, ma anche e soprattutto gestuale, visiva. Diremmo che più di cercare l’ottenimento della grazia attraverso un’intercessione fatta di parole, ed essere quindi dimostrativa delle ragioni urgenti che spingono alla supplica, la preghiera del supplice prevede naturalmente un livello espressivo e visibile che ha lo sco­po innanzitutto di mostrare la situazione di fatale necessità, che di per sé non ha bisogno di ulteriori chiarificazioni. La supplica corri­sponde con il supplice: le sue silenziose lacrime e la sua condizione di bisognoso costituiscono la supplica stessa. Ce ne dà riprova un rapido sguardo alla storia dell’umanità, che vogliamo analizzare at­traverso il ricorso a due esempi, tratti uno dal mondo classico dei tragediografi greci, e un altro dalla cultura semitica del cosiddetto Vicino Oriente Antico (VCO)12.
Quanto al primo riferimento, desideriamo attingere uno stral­cio della supplica di Ifigenia, nell’omonima tragedia euripidea Ifi­genia in Aulide. Il testo viene tra l’altro richiamato dall’occorrenza del medesimo vocabolo greco che esprime la supplica del Figlio di Dio in Eb 5,7. Il verbo da cui deriva è il termine “supplica”, che in­dica l’“andare verso qualcuno supplicando“. Ciò che specificamente dava a riconoscere la condizione di supplice era anche l’abbiglia­mento: avvolto in bende di lino, il supplice stringeva tra le mani un ramo di olivo. Questo atteggiamento di un’itineranza supplice caratterizza la condizione del personaggio epico di Ifigenia. Essa è una fanciulla che, secondo l’oracolo di Calcante, deve essere sacrifi­cata agli dei per propiziare la battaglia prossima a compiersi contro il nemico. Agamennone, padre della ragazza, la fa chiamare con la scusa di darla in sposa ad Achille, ma poi le svela il suo destino. Ifigenia, lamentevole, intona una supplica: «Padre, se avessi la voce di Orfeo, se sapessi persuadere con il mio canto le pietre a seguirmi, se sapessi ammaliare chi voglio con le mie parole, percorrerei questa strada. Ma userò invece l’unica arte che possiedo, le lacrime: sono capace di piangere. Stringo alle tue ginocchia, come un supplice ramo di olivo, il mio corpo»13.
Come emerge chiaramente dal senso metaforico del testo, qui Ifigenia e la sua supplica sono una sola cosa, è tutto il suo corpo a costituire il ramoscello di olivo, che si stringe intorno al padre nella speranza di essere esaudita.
Per quel che concerne il secondo riferimento, prendiamo spunto da un antico testo accadico14. Il contesto è quello di un uomo gra­vemente malato per il quale intercede un amico presso la divinità, supplicando di porre fine alle sue sofferenze proprio in virtù della sua misericordia. Ecco l’incipit del brano: «L’uomo, per il suo amico, implora il suo dio: egli così ha presentato la sua supplica, così parlò per venire in suo aiuto: “Il suo cuore è un fuoco, è malato della sua pena. I suoi sensi sono smarriti, è preso da vertigini, barcolla, cade in ginocchio, crolla a terra. Poi, alzandosi un po’, ecco che la sua pena lo porta alle lacrime“».
Al termine della supplica dell’amico per il giusto, che qui assu­me un po’ i panni di un avvocato che proclama un’arringa davanti al giudice, ecco l’oracolo della divinità che accoglie la supplica e accorda la grazia della guarigione: «Il tuo gesto è degno di un uomo! Il tuo cuore è innocente! Gli anni sono compiuti, i giorni hanno riscattato la pena! Se tu non fossi stato chiamato a vivere, come saresti potuto andare fino alla fine di questa grave malattia? Ti è spianato il cammino, la grazia ti è accordata».
Nei due testi di approfondimento appena proposti gli elementi della supplica sono costituiti dalle stesse persone che, oltre la pre­ghiera accorata, mostrano la loro condizione attraverso le loro la­crime e la loro prostrazione. I sostantivi e le espressioni utilizzate diventano metonimia per indicare anche tutte le azioni, talvolta ri­tuali e cultuali, proprie di colui che è in atto supplice.

3. Tre tipi di preghiera: supplica, grida e lacrime
Un’antica fonte rabbinica insegnava: «Esistono tre tipi di preghiera, ciascuna maggiore della precedente: supplica, grida e lacrime. La supplica si fa in silenzio, il grido a voce alta, ma le lacrime superano tutto»15. Queste parole, sintetiche ed efficaci, preziosa eredità della tradizione ebrai­ca, ci guidano in maniera appropriata verso la conclusione di questi spunti di riflessione a partire dalle parole dell’apostolo Paolo: «Vi supplichiamo: lasciatevi riconciliare con Dio!». Abbiamo cercato di attraversare l’accorata esortazione dell’apostolo a partire dalla pa­rola della riconciliazione che per Dio, in Gesù Cristo, ha significato lacrime e sangue.
Dio ama così tanto il mondo da dare veramente il suo Figlio Unigenito. Questa consegna è un vero e proprio parto: doloroso, travagliato. Attraverso il profeta Geremia abbiamo intravisto luoghi segreti in cui l’Eterno si ritira per versare lacrime quando vede il rifiuto, potremmo parafrasare, della riconciliazione operata attra­verso Gesù suo Figlio.
L’effusione delle lacrime del Padre si mescola insieme all’effu­sione del sangue del Figlio per la salvezza del mondo: è l’esodo e l’uscita reale e concreta che fa Dio per raggiungerci e salvarci. La preghiera di e da supplice che Gesù vive «nei giorni – letteralmente – della sua carne» si mescola con le lacrime e le suppliche di tutti gli uomini sulla terra: è il ritorno di Dio nel suo stesso seno insieme ai “figli nel Figlio” riscattati e redenti.
Questo connubio è riconciliazione fruttifica e fruttifera!

NOTE
1 Nel v. 19, al posto di lògon, P46 porta to euaggéllion, “il vangelo della riconciliazione”, e i Codici D* F G hanno euaggelìou tòn lògon, “la parola del vangelo della riconciliazione”.
2 Un commento di S. Giovanni Crisostomo è illuminante a proposito della vergogna e del vanto: «Non solo siamo stati salvati, ma anche ci vantiamo di ciò per cui qualcuno pensa che noi dovremmo vergognarci. Infatti, l’essere stati salvati pur vivendo in tanta malvagità, è massimo segno che siamo stati molto amati da colui che ci ha salvati; d’altronde non mediante angeli o arcangeli ci salvò, ma mediante lo stesso Unigenito. Perciò il fatto di averci salvati, e di aver salvato gente di questo genere, e di averlo fatto tramite l’Unigenito, e non genericamente attraverso di lui ma mediante il suo sangue, tutto ciò intreccia per noi mille corone di vanto» (PG 60,471).
3 R. Penna, Lettera ai Romani. I. Rm 1-5. Introduzione, versione, commento di Romano Penna, EDB, Bologna 2004, p. 440.
4 C. Chalier, Trattato delle lacrime. Fragilità di Dio, fragilità dell’anima, Queriniana, Brescia 2004, p. 89.
5 Ivi, p. 91.
6 Cf per esempio Mt 14,13; Mc 1,35; 1,45; 6,32; Lc 4,42; 5,16; 6,12; Gv 11,54.
7 Per una lista degli autori che sono su questa linea, cf il dettagliato studio di Carlo Zesati Estrada: C. Zesati Estrada,
ebreos 5,7-8. Estudio històrico-exegético, (Analecta Biblica 113), Edi­trice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990, p. 3.
8 Cf ivi, p. 23.
9 Verbo e sostantivi sono costruiti a partire da μ¢n, “grazia, favore”, e hanno come destinatari gli uomini, ma più spesso Dio; cf D.R. Ap-Thomas, «Some Aspects of the root HNN in the Old Testa­ment», in JSS 2 (1957), pp. 135-137.
10 Eccetto per Gen 49,2 e Gb 9,15, dove il riferimento è ad uomini, in Dt 3,23; 1Re 8,33.47.59; 2Re 1,13; Os 12,5; Sl 30,9; 142,2; Gb 8,5 la supplica ha come destinatario Dio.
11 L’endiadi “supplica/misericordia” ritorna in Sl 86,15; 103,8; 11,4;112,4; 116,5; 145,8; Gl 2,13; Gn 4,2. L’epiteto che descrive Dio come «disposto a fare grazia» si ritrova ancora in Es 22,26 («io sono pietoso»); Ne 9,17.31; 2Cr 30,9.
12 Una sigla che nel mondo degli approfondimenti storico-biblici fa riferimento a tutte quelle popolazioni e culture precedenti e/o interconnesse al mondo semitico, dal cui confronto si maturano e si acquisiscono fonti di rilievo per la comprensione e la genesi dei testi biblici.
13 Euripide, Oreste. Ifigenia in Aulide, Grazanti, Milano 1995, p. 181.
14 Il testo è riportato in una tavoletta cuneiforme (siglata AO 4462), attribuibile all’epoca di Ammiditana, terzo successore di Hammurabi sul trono di Babilonia (sec. XVI a.C.).
15 Synopsis Zohar, 33, 2 così citato in Chr. Schöttgen, Horae hebraicae et talmudica in universum Novum Testamentum, Dresdae-Lipsiae 1731, pp. 949-950.