N.03
Maggio/Giugno 2014

Io… vengo per abitare con te

Nell’arco della mia vita ho incontrato battezzati che si poneva­no seriamente delle domande sul perché Gesù fosse venuto e rimasto tra noi (cf Gv 1,14; Mt 28, 20); ma è molto cresciuto il numero di persone apparentemente indifferenti e attirate da tante altre questioni.
Negli ultimi cinquant’anni ho visto la gente del nostro paese che ha smarrito la percezione della presenza di Dio e si è abituata, in modo progressivo, a vivere come se la “questione” non fosse rile­vante, anzi, decisiva. Tutto ciò è iniziato senza clamore – per questo solo alcuni se ne accorsero –, ma negli ultimi decenni la situazione è divenuta sempre più evidente. I mezzi di comunicazione vi han­no contribuito dando enorme spazio alla “cronaca nera”, senza che il diritto-dovere della cronaca prestasse sufficiente attenzione alla dimensione educativa o al rispetto dovuto a persone e istituzioni. Il “negativo”, diffuso a dosi massicce e in modo pervasivo, ha dato notevole impulso all’industria dell’evasione e ridotto, in molti, la sensazione che valga la pena impegnarsi e sacrificarsi per un futuro diverso e migliore. E in questo processo, nel bene e nel male, siamo inseriti tutti noi battezzati, ministri ordinati compresi. Anche per questo, nelle nostre comunità troviamo una situazione molto arti­colata; sono presenti sia alcuni che hanno dimenticato la paternità di Dio e la sua azione provvidente, sia altri che vi credono ferma­mente; chi frequenta in modo molto saltuario e chi invece vive con ardore e fedeltà la sua adesione alla Chiesa; chi ha riscoperto la vita del Vangelo, di ieri, di oggi e di sempre, e chi, incuriosito da Papa Francesco, si sta avvicinando con attenzione.
Mi sembra di rintracciarvi una situazione simile a quella della comunità di Gerusalemme nei giorni della passione, morte e risur­rezione di Gesù. Anche lì c’era chi credeva; chi stava vacillando, ma rimaneva con gli altri e chi aveva deciso di tornarsene a casa. Ma poi la Pasqua e l’incontro di molti con il Vivente tornato dai morti proseguì quanto era cominciato in attesa di Pentecoste!

1. Che interessante il metodo del Maestro!
I discepoli che stavano andando ad Emmaus (cf Lc 24,13-35) avevano creduto in Gesù, l’avevano seguito, ma ad un certo punto avevano vacillato nella fede. Ciò che avevano imparato non era sufficiente perché la risurrezione illuminasse la croce; non avevano più motivi per rimanere con gli altri.
Il Signore però si affiancò loro, facendo rinascere la speranza e l’amore. E così tornarono a “casa”, dove «trovarono riuniti gli Undi­ci e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”» (Lc 24,34).
Si fa accanto e cammina con loro, pone domande che sanno aprire il dialogo, offre un’esegesi che scalda il cuore in profondità; «entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29) ma poi, in modo inatteso, dopo che si era fatto riconoscere allo spezzare del pane, «sparì dalla loro vista». La presenza reale di Gesù e la sua assenza (ai sensi della vista e del tatto) aprono uno spazio di novità che li fa decidere di tornare a Gerusalemme, sui loro passi.
Gesù aveva cercato di preparare i discepoli allo scandalo della croce e, secondo i Vangeli sinottici, per tre volte aveva annunciato passio­ne e risurrezione (cf Mt 16,21-23; 17,22s.; 20,17-19). Ora il Maestro approfitta dell’occasione per rafforzare le “basi” che aveva posto; continua a dare forma ai suoi in attesa del dono dello Spirito Santo, che porterà a compimento le sue parole e i suoi gesti, rendendo per sempre presente la Pasqua. Significativo è quanto disse il metropo­lita ortodosso Ignazios Hazim al Convegno del Consiglio Ecumeni­co delle Chiese, a Uppsala (luglio 1968): «L’avvenimento pasquale, avvenuto una volta per sempre, come diventa nostro oggi? Preci­samente mediante Colui che ne è l’artefice fin dall’origine e nella pienezza del tempo: lo Spirito Santo. Egli è personalmente la Novità operante nel mondo […]. Dipende da noi che l’Avvenimento della Novità sia seppellito e resti insignificante, o che invece deifichi l’uo­mo e trasfiguri il mondo. Questo è il significato della nostra respon­sabilità nel rinnovamento attuale»1.
Gesù insegna ai discepoli non solo a imparare da lui, ma a guar­dare suo Padre (cf Mt 5,48) e a confidare nella potenza dello Spirito Santo (cf At 1,8)!

2. Il Verbo incarnato, vero Dio e vero uomo
Secondo quanto afferma il simbolo niceno-costantinopolitano, il Verbo di Dio si è incarnato per noi e per la nostra salvezza, senza la­sciare la gloria del Padre2 e quindi rimanendo pienamente uno della Trinità. Questa affermazione richiama la dottrina della Trinità indivi­sa. I Padri della Chiesa d’Oriente sottolineano che la Trinità di Dio, pur essendosi incarnato il Verbo, è rimasta assolutamente perfetta. Nella seconda lettura dell’Ufficio della solennità di Maria Madre di Dio (1° gennaio), leggiamo un brano di Sant’Atanasio: «Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione […]. Benché il Verbo abbia preso un corpo mortale da Maria, la Trinità è rimasta in se stessa qual era, senza sorta di aggiunte o sottrazioni. È rimasta assoluta perfezione: Trinità e unica divinità. E così nella Chiesa si proclama un solo Dio nel Padre e nel Verbo»3.
Potremmo dire che come il Figlio di Dio venendo sulla terra non ha abbandonato il Cielo, così, tornandovi, non ha lasciato la terra. Ecco perché nel Concilio Vaticano II si può parlare delle diverse presenze di Gesù4. E se qualcuno per caso dubitasse di questa possi­bilità di essere contemporaneamente in più luoghi (ubiquità), basta che legga la vita di San Pio da Pietralcina per verificarne la reale possibilità.

3. Il Verbo è venuto ad abitare con noi
Nel Vangelo troviamo varie frasi che esprimono i motivi della de­cisione di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10b); o a Pilato che gli chiede se è re, risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono ve­nuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37); o agli Apostoli dice che «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Ci sono anche altre espressioni che lasciano intravedere ulteriori motivi: «Ed ecco nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi sei tu: il santo di Dio”. E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”. E lo spiri­to impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,23-25) oppure: «Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io quando sarò innalzato da terra, atti­rerò tutti a me» (Gv 12,31s.).
Il Verbo si è incarnato come segno (eloquente e visibile) dell’a­more del Padre (cf Gv 3,16) verso ogni sua creatura; e ha voluto che la sua Vita giungesse in modo sovrabbondante a tutte le creature, in ogni epoca, fino alla fine del tempo.

4. Il Verbo di Dio dona la Vita
Massimo il confessore per spiegare l’Incarnazione del Verbo di Dio dice: «Poiché dunque l’uomo, creato all’inizio da Dio e posto nel paradiso, avendo trasgredito il comandamento, soggiacque alla corruzione ed alla morte, di conseguenza, pur governato dalla varia provvidenza di Dio per ogni successiva generazione, continuava a rimanere decaduto nello stato peggiore, spinto dalle diverse pas­sioni della carne alla disperazione della vita. Per questo l’unigenito Figlio di Dio, il Verbo anteriore al tempo procedente da Dio Padre, la fonte della vita e dell’immortalità, apparve a noi che giacevamo nell’o­scurità e nell’ombra della morte; incarnatosi dallo Spirito Santo e dalla Santa Vergine, ci indicò il modo di una vita divina […]. Questo fu lo scopo per cui il Signore divenne uomo, a dirla in breve»5.

Quando la luce del Vangelo raggiunge una o più creature me­diante l’Annuncio e la grazia del Battesimo avviene una trasfigura­zione dei singoli che sono pienamente inseriti nel Corpo di Cristo per l’azione dello Spirito Santo. E la Chiesa dona questa Vita, per­ché, continuamente, la chiede, l’attende e la riceve dal suo unico Signore. La Chiesa perciò si mostra presenza visibile del Signore, quando vitalmente ne mette in pratica la Parola e, in particolare, il Comandamento nuovo, la sua “forma di vita meravigliosa”. «I cri­stiani – afferma la Lettera a Diogneto – non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e per indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano. Abitano in città sia greche sia barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel re­sto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile»6.
Nella Chiesa possiamo sperimentare il “come in cielo così in ter­ra” non perché ne facciano parte persone perfette. I battezzati sanno che il vero amore è umile e perciò sanno ravvedersi degli errori e dei peccati, hanno il coraggio di rialzarsi chiedendo scusa, a Dio e agli altri. Sanno confidare nella misericordia di Dio più che nelle proprie capacità; fanno di tutto per vivere e custodire uno stile di famiglia7.
Preziose le espressioni dell’Evangelii Gaudium del Papa: «Uscia­mo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. […] preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le stra­de, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoc­cupata di essere il centro e finisce rinchiusa in un groviglio di os­sessioni e procedimenti. […] Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici impla­cabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)»8.

5. Alla scuola di Gesù
Mi sembra che lo Spirito anche attraverso i segni dei tempi chie­da di dare il giusto posto al mistero di Dio Uno e Trinità, e a una maggiore attenzione alla relazionalità e alla dimensione comunita­ria. Senza dimenticare la peculiare singolarità delle divine Persone, altrimenti non ci sarebbe l’ortodossia della dottrina. Diventa urgen­te allora rivedere, in questa prospettiva, qualità e modalità della formazione in vista della Chiesa, mistero di comunione e missione.
E Dio che nel suo disegno provvidente si serve di tutto, anche dei nostri peccati, ci invita a guardare alla prima semina del Van­gelo, quando era evidente che si viveva e si agiva come popolo di Dio, nella diversità di ministeri e di carismi. E pur ritenendo vero che «oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati»9, vorrei citare quanto dis­se Paolo VI durante i lavori del Concilio Vaticano II, anche perché profondamente in linea con quanto detto: «Noi siamo un Popolo, il Popolo di Dio. Noi siamo la Chiesa cattolica. Siamo una società sin­golare, visibile e spirituale insieme. Il Concilio ci fa più chiaramente avvertire che la nostra Chiesa è società fondata sull’unità della fede e sull’universalità dell’amore… questo Concilio lo dice: la Chiesa è una società fondata sull’amore e dall’amore governata! La Chiesa, in questo mondo, non è fine a se stessa: essa è al servizio di tutti gli uomini; essa deve rendere Cristo presente a tutti, individui e popoli, quanto più largamente, quanto più generosamente possibile; que­sta è la sua missione. Essa è portatrice dell’amore, è fautrice di vera pace, e ripete con Cristo: Ignem veni mittere in terram, sono venuta a portare fuoco sulla terra (Lc 12,49). E anche di questa consapevo­lezza, di questa dichiarazione aveva bisogno la Chiesa; e il Concilio gliene ha offerta occasione»10.
In Italia da decenni si è consapevoli che non possiamo più proporre iniziative decorative perché prive di una sincera verifica, come anche non possiamo promuovere una pastorale che non sappia coinvolgere e rendere corresponsabili il maggior numero di battezzati. E, per questo, nel Convegno Ecclesiale di Palermo (e di nuovo nel 2006 in quello di Verona), i Vescovi suggerirono il “discernimento comunitario”: «Oggi in Italia l’evangelizzazione ri­chiede una conversione pastorale. La Chiesa, ha affermato il papa a Palermo, “sta prendendo più chiara coscienza che il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della mis­sione”. Non ci si può limitare alle celebrazioni rituali e devozionali e all’ordinaria amministrazione: bisogna passare a una pastorale di missione permanente»11. Un processo proseguito, anche per una maggiore incidenza della proposta formativa, nel ripensare il modello pastorale secondo lo stile della iniziazione cristiana12 e ora proseguito col gli Orientamenti Educare alla vita buona del Vangelo.
Una ulteriore indicazione viene da quanto Benedetto XVI, il 21 gennaio 2008, ha scritto alla diocesi e alla città di Roma: «Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande do­manda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. […] L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sem­pre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione».
Pensare di riuscire in questa “impresa”, chiede che si rimanga alla scuola di Gesù – «uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8) –, il quale scelse di non agire da solo, ma di vivere in una “nuova” famiglia (cf Mc 3,31-35), rendendo gloria al Padre e compiendone l’opera (cf Gv 3,34; 12,27-28). In conseguenza di ciò, la nostra formazione, pur nella distinzione delle vocazioni e dei carismi, non può che essere un sostegno alla conversione per­manente13, nella quale comprendere chi è Dio e chi siamo noi; di cosa è capace di fare Dio e di cosa siamo capaci di fare noi se non rimaniamo nel suo amore. A queste condizioni, la Chiesa ha la gra­zia di far vedere che sta proseguendo la missione di Gesù, il quale decise di abitare tra noi per portare l’Amore trinitario e dare la vita per amore di tutti.

6. Chiesa di veri fratelli e sorelle
L’invito iniziale di Gesù a convertirsi e a credere nel Vangelo come segno della vicinanza del Regno di Dio (cf Mc 1,15) si potreb­be tradurre con scommettere sulla carità, secondo il deciso invito di Giovanni Paolo II all’inizio del terzo millennio: «Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universa­le, proiettandoci nell’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmen­te decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. […] Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero fo­restiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo»14.
Mai nella Chiesa è stato sufficiente amare Dio senza amare il prossimo, ma ancora di più oggi e, come singoli e comunità, siamo sollecitati a riconoscere Gesù in ognuno e viverne gli insegnamenti sino a diventare Lui, a farne sentire la presenza, sino a farlo vede­re15. E, nella formazione, questo significa imparare a coinvolgersi con e per gli altri e fare in modo che quanto si propone incida nel­la fede e nella ragione, nell’annuncio e nel dialogo, nella verità e nell’amore. Interessante il quadro che ci offre Tertulliano della co­munità cristiana. Ci si sente così parte del Corpo di Cristo da vivere la comunione dei beni spirituali e, nella libertà, anche la comunio­ne di quelli materiali. E questa testimonianza, insieme al martirio, toccava e convertiva: «Noi siamo un corpo, per la coscienza della religione, l’unità della disciplina e il vincolo della speranza. […] E se anche c’è una specie di cassa sociale, essa non raccoglie elargizioni onorarie, quasi si trattasse d’una religione messa all’incanto; ma ciascuno versa un modesto contributo una volta al mese o quando meglio crede, e se lo crede e se lo può. Nessuno è costretto, e l’offer­ta è spontanea. […] Ma è appunto l’esercizio soprattutto di questa carità che agli occhi di certuni ci imprime un marchio d’infamia. Vedi dicono come s’amano tra di loro! Essi invece tra di loro si odiano. Vedi, come son pronti a morire l’uno per l’altro!» 16.
Vivere questa mistica17 rende più incisivo l’annuncio del Vangelo e pone le basi affinché chi ascolta possa comprendere l’unità e la trinità di Dio o la Chiesa, inizio e germe del Regno di Dio!
Vorrei offrire alcuni suggerimenti per far sì che i vincoli di fede diventino più forti di quelli della “carne e del sangue” (cf Gv 1,13). Acquisirli chiede un vero e proprio allenamento, necessario per sra­dicare nelle comunità la cultura individualista.
Bisogna esercitarsi a mettere in luce ciò che di bello, di buono e di vero esiste in ognuno, vincendo la cattiva abitudine di sottolineare principalmente, o unicamente, i difetti, le imperfezioni degli altri (che pure ci sono, ma non dovrebbero emergere come primo e de­terminante elemento).
Occorre far maturare l’amore fraterno sino alla correzione. Una capacità da vivere con grande attenzione nell’evitare dei gravi peri­coli, come quelli dell’autoritarismo o della sottomissione passiva e senza amore. Tutti siamo invitati ad entrare in questa realtà; infatti: «Operai della vigna del Signore sono tutti i membri del popolo di Dio: i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i fedeli laici, tutti ad un tempo oggetto e soggetto della comunione della Chiesa e della par­tecipazione alla sua missione. Tutti e ciascuno lavoriamo nell’unica e comune vigna del Signore con carismi e con ministeri diversi e complementari»18. Bisogna educarsi ad accogliere con amore di­sponibile le correzioni e imparare a correggere con amore umile, perché i modi non sono secondari. Papa Benedetto ha ricordato la necessità di «aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cf Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi»19.
Per valorizzare le capacità di ciascuno occorre tanto ascolto del­lo Spirito Santo. Costituisce un programma quello che viene detto dell’atteggiamento del vescovo Hemmerle, di cui lo scorso 23 gen­naio abbiamo ricordato i 20 anni del dies natalis: «Era pronto ad incontrare e a parlare con chiunque. Ogni ragionamento che gli veniva proposto aveva il diritto di essere accolto, ma soprattutto ogni persona aveva il diritto di essere ascoltata fino in fondo e presa sul serio. Klaus Hemmerle cercava di calarsi nel pensiero dell’altro e cercava di comprendere l’altro mettendosi a pensare con lui. […] Faceva questo con l’atteggiamento di chi offre un dono, non di chi vuole prevaricare. Stava attento all’impatto che il suo pensiero po­teva creare nell’altro e, allo stesso tempo, aveva il coraggio di pro­porre con chiarezza e in tutta libertà il suo pensiero e il suo modo di vedere le cose»20.
Prendere sul serio ciò comporta credere all’importanza della pre­ghiera liturgica con il popolo e all’impegno per la giustizia.

7. Come Maria, crediamo alla potenza della Pasqua
Cercare di vivere così significa sperimentare la gioia della Pa­squa, come il Papa ha scritto all’inizio dell’Evangelii Gaudium: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù». E la gioia del Vangelo è la gioia pasquale che la Chiesa annuncia sempre, in particolare, nelle persecuzioni e nelle difficoltà.
«Chiunque ha incontrato Gesù Cristo – scrive Aleksandr Men’ – sa che l’uomo non è un viandante solitario che nessuno può chia­mare nel deserto nero del cosmo, ma un figlio di Dio, che partecipa con lui a realizzare i suoi disegni eterni. […] Nella persona di Gesù di Nazareth, il Creatore sacro e ineffabile si è avvicinato a noi, e ciò riempie la vita di gioia, di bellezza, di senso. Il “silenzio terribile del nulla” non esiste più: in tutto è la luce di Cristo, l’amore del Padre. […] Ecco perché ogni volta che il cristianesimo è stato reputato già morto e sepolto, esso si è sempre rialzato dalla tomba, come Cristo crocifisso e risorto, mostrando a tutti quanto era vera la promessa: “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia chiesa, e le forze degli inferi non riusciranno a distruggerla”» 21.
Guardando e imitando Maria, come singoli e insieme, cammi­niamo rapidamente alla scuola di Gesù, vivendo non per la nostra gloria e accettando (e amando) quello che Dio permette per noi: «Per­ché a risorgere – mentre ancora si vive e quando, seppur ancora in vita, si è già morti – si impara. E si impara per contagio: l’appren­dimento muove dall’osservazione. […] il dolore esiste affinché sia apprendimento, non stagnazione»22.
Maria, «che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza»23, ci mostra cosa accade se si crede allo Spirito Santo e alla sua onnipo­tenza. 

 

NOTE
1 I. Hazim- J.-J. vonAllmen, La risurrezione e l’uomo d’oggi, AVE, Roma 1969, pp. 24. 30.
2 Cf la Lettera a Flaviano di San Leone Magno, che leggiamo nella seconda lettura dell’Ufficio della solennità dell’Annunciazione del Signore (25 marzo).
3 Cf Sant’Atanasio, Lettere. A Epitteto, 5-9.
4 Cf Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 7.
5 Massimo il confessore, Discorso ascetico 1, in Umanità e divinità di Cristo (Traduzione, introdu­zione e note a cura di A. Ceresa-Gastaldo), Città Nuova, Roma 1979, p. 23s.
6 Lettera a Diogneto, c. 5.
7 Cf E. Rocchi, Pensare e agire da vera famiglia, in «Presbyteri» 47 (2013) 8, pp. 604-610; Id., Il protagonismo della Famiglia nell’Anno della Fede, in «Firmana» 22 (2013) 1, pp. 63-89.
8 Francesco, Evangelii Gaudium, n. 49.
9 Ibidem, n. 25.
10 Paolo VI, Discorso di apertura del 4° periodo (14 settembre 1965), in EV 1, 337*. 338*. 343*.
11 Cf Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia (26 maggio 1996). Nota pastorale dopo il Convegno ecclesiale di Palermo, n. 23.
12 Cf Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (29 giugno 2001). Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000, n. 59.
13 Per quanto riguarda la formazione permanente: cf Commissione Episcopale per il clero e la vita consacrata della CEI, Fare i preti. Esperienze e prospettive per la formazione permanente (a cura di Mons. F. Lambiasi), EDB, Bologna 2014; E. Rocchi, O formazione o frustrazione permanente. Seminario di studio sulla formazione permanente, in «Settimana» (26 maggio 2013) n. 21, p. 10.
14 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 49.
15 Cf E. Rocchi, È possibile (far) vedere Gesù?, in «Firmana» 21 (2012) 1, pp. 235-258.
16 Tertulliano, L’apologetico 39, Città Nuova, Roma 1967, pp. 136-138.
17 Cf Francesco, Evangelii Gaudium, nn. 92, 272.
18 Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 55.
19 Cf Benedetto XVI, «Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb 10,24). Messaggio per la Quaresima 2012, n. 1.
20 W. Hagemann, Klaus Hemmerle, innamorato della Parola di Dio, Città Nuova, Roma 2013, pp. 56-57.
21 A. Men’, Gesù maestro di Nazaret. La storia che sfida il tempo, Città Nuova, Roma 1996, pp. 371-372.
22 A.M. Scardicchio, Madri… voglio vederti danzare, Agenzia NFC, Rimini 2013, pp. 14-15.
23 Cf Francesco, Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), n. 286.