N.03
Maggio/Giugno 2014

La tenerezza della sua presenza

La solitudine: uno dei drammi più diffusi e pervasivi del nostro tempo; essa è una delle ferite più profonde che molte persone, oggi, vivono e portano con sé.
Nel nostro impegno di educatori, di accompagnatrici e accompagna­tori vocazionali, siamo chiamati spesso a curare le ferite di coloro che ci affidano la loro vita e il loro cuore; ma non possiamo fare questo, se Qualcuno non ha curato le ferite che ciascuno di noi porta dentro di sé.
Quali sono le nostre ferite? Le potremmo chiamare con molti nomi: alienazione, separazione, perdita, isolamento, solitudine; ecco, credo che la parola “solitudine” esprima, meglio di altre, quello che cia­scuno di noi può vivere e ciò di cui siamo chiamati a farci carico, nel cammino con gli altri.
Tuttavia, la solitudine è una ferita che può diventare una fonte inesauribile di auto comprensione; ma è necessario guardarsi con molta attenzione da coloro che promettono soddisfazione immediata e rapido sollievo.
La solitudine ci ripropone il nostro mondo di separazione e di incompletezza, di fragilità e creaturalità. Se si creano false aspettative e fatue illusioni, si impedisce a se stessi di rivendica­re la propria solitudine come fonte di profonda comprensione umana.
Per tutti noi, nel proprio ruolo di educatori o genitori, di ac­compagnatori o anche di semplici compagni di strada, la grande sfida è quella di toccare, in profondità, il nucleo della vita umana; ma, talvolta, scopriamo con sorpresa e con sofferto stupore di es­sere alla periferia dell’esistenza che scorre accanto a noi.
Ciò significa sperimentare la propria solitudine.
La piaga della solitudine è profonda; spesso lo dimentichiamo, presi come siamo dalle tante cose da fare e da tante opportunità di distrazione.
Solo una profonda comprensione della propria ferita di solitudine può portarci ad essere i “guaritori feriti”, che possono cambiare la debolezza in forza e presentare la propria esperienza come fonte di guarigione per coloro che sono smarriti, confusi e angosciati nelle tenebre del loro dolore marginalizzato e incompreso.
Nella storia di amore e di tenerezza che Dio vive con noi, risuonano costanti le parole dei profeti, da Isaia ad Osea: «Io non vi abbandonerò mai». È Lui il garante del superamento di ogni angoscia e solitudine; è Lui il custode della nostra vita e della nostra gioia; è Lui il Dio della Speranza… una speranza intrisa di tenerezza.
In questo nostro tempo si acuiscono le preoccupazioni, i conflit­ti, le paure; abbiamo tutti bisogno di essere rassicurati, soprattutto i giovani, che vivono momenti e spazi di incertezza, di inquietudine, di precarietà. Per rassicurarci siamo indotti a crearci degli effimeri punti di riferimento o ad acquisire, in maniera acritica e superficiale, ciò che una omologazione consumistica ci propone.
È un altro il nostro punto-luce di riferimento, storico e concreto: Cristo, morto e risorto per tutti noi. «Io sarò con voi sempre, sino alla fine dei secoli»: questo suo messaggio di congedo si è dimostrato l’u­nica vera certezza e verità. La storia ha fatto il suo corso, sono passati uomini e avvenimenti, gloriosi o ingloriosi. Ma Lui, il Cristo, è rimasto: ieri, oggi, sempre.
Forse potremo sentirci abbandonati a noi stessi, confusi ed incerti, ma Lui non ci abbandona. Tutti abbiamo sperimentato la sensazione di un abbandono totale; ma subito abbiamo anche ricevuto la grazia di ritrovarci accanto Gesù. Del resto, anche Cristo sulla croce ha vissuto una profonda crisi di abbandono e ha gridato angosciato: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». Per questo ci può veramente capire…
Uno dei compiti essenziali dell’accompagnamento vocazionale, oggi, è questo: aiutare le persone, ed in particolare i giovani, a non soffrire per dei motivi sbagliati. Molti, infatti, soffrono per una sup­posizione errata su cui hanno fondato la loro esistenza: l’impossibile convinzione che non dovremmo mai sperimentare né timore, né soli­tudine, né confusione, né dubbio.
Quando un dolore viene condiviso, esso non è più paralizzante, ma diviene mobilitante; le nostre prigionie si rompono, quando si creano reali e vivibili alternative di vita.

«Io faccio la via con te… vengo a cercarti… mi prendo cura di te…
e ti dono la vita in abbondanza. Il Signore sta per arrivare,
non domani, ma oggi, non quando il dolore sarà spento,
ma in mezzo al dolore, non altrove, ma qui, dove siamo noi».