N.04
Luglio/Agosto 2014

La forza liberatrice della Parola

Onde evitare di fare un discorso retoricamente e formalmente compito, ma pur sempre astratto, un po’ rasente lo slogan, vorrei mettere il tema in contesto e rapportare la Parola alla carne:
– il contesto del seminario e il suo scopo e, dunque, il rappor­to con la Parola nella formazione e nel discernimento vocazionale, laddove alcuni – per certi versi – si trovano a veicolare ad altri la Parola liberatrice;
– la scelta del contesto territoriale palermitano in relazione a don Puglisi.
La forza liberatrice della Parola, infatti, si vede-tocca-sperimen­ta, e si può raccontare o illustrare, veramente solo nella “carne”, nella concreta esistenza fisica e mortale delle persone. L’esperienza della Parola liberatrice è un concreto e della forza liberatrice del­la Parola è difficile parlare in astratto. Solo dai fatti, dagli eventi e dal loro racconto se ne possono riconoscere le tracce, ricavarne strutture e modalità costanti, batterne i sentieri: tanti sono i segni della forza liberatrice della Parola quante sono le storie dei singoli e delle comunità umane. Questo vale certamente per la Scrittura, rivelazione attestata e sacramento della Parola che racconta storie di liberazione.
Vorrei, perciò, prendere spunto per introdurne la lettura tema­tica dall’esperienza concreta di p. Puglisi e dal corpo visibile che egli ha dato alla forza liberatrice della Parola. Faccio riferimento, in particolare, al testo del 22/3/93 approntato per il II anno delle missioni popolari a Brancaccio e al modo – che mi è sembrato al­quanto originale – in cui egli sembra aver inteso e comunicato la forza liberatrice della Parola nel cammino vocazionale (inteso in senso ampio: “tutti chiamati, tutti mandati”1). Il primo incontro del secondo anno di missioni popolari – dedicato all’ampliamento del­le tematiche vocazionali e «all’analisi dell’insegnamento di Gesù come liberazione dei cuori dalle schiavitù terrene»2 – aveva come tema: “Gesù e se stesso: la cura che Gesù ha avuto di se stesso per la sua maturazione umana”. Lo scopo dell’incontro, secondo il pro­gramma, era «stimolare all’autoformazione permanente alla seque­la di Gesù; formazione alla libertà di discernimento per le scelte fondamentali della vita e le scelte quotidiane nella realizzazione del progetto e della missione che Dio ci affida»3. Il brano scelto da don Pino a conclusione di questo incontro, da lui aggiunto a penna al programma dattiloscritto, doveva essere Gv 8,31-32.
Il secondo giorno, il tema doveva essere il rapporto di Gesù col Padre; nel terzo giorno, il rapporto di Gesù con gli altri uomi­ni e, dunque, la condivisione della libertà sperimentata in se stes­si: «Toccato dall’amore di Gesù Cristo, il cristiano deve sentirsi chiamato, a sua volta, a realizzare il suo progetto di promozione e di liberazione di sé e degli altri uomini». Il riferimento biblico, in questo caso, era all’incontro tra Gesù e Zaccheo (Lc 19,1-10): «Gesù tocca il cuore di Zaccheo chiamandolo per nome, cioè lo conosce, interpreta fino in fondo la necessità e la miseria di lui; gli si avvicina con simpatia, con volontà di comprensione, lo scuote dal torpore, gli fa fare qualcosa, suscita l’attività, la speranza e il bisogno del nuovo, della salvezza». La traccia continuava: «La sua misericordia si esplicita in una tenerezza che è unita alla esigenza della conversione e diventa amicizia offerta a tutti (Gv 15,15) e condivisione della Parola e persino del dono della vita (15,1-3) e non solo nel momento supremo ma nel servizio costante di ogni momento (leggere Gv 13,1-17). Come lasciarci liberare e rinnovare dalla sua Parola che ci chiama, con dolcezza ma con fermezza, alla conversione del cuore e alla vera gioia?»4.
La libertà, dunque, come vocazione, essa stessa resa possibile dal rimanere nella Parola del Cristo!
Ancor più interessante: la libertà come frutto ed espressione di cura consapevole della propria maturazione umana (cosa valida an­che per Gesù) e di autoformazione permanente alla sequela di Gesù e in ascolto della sua voce di uomo, «l’uomo che ha realizzato in pieno il progetto di Dio» (relazione ai volontari, fatta l’8 gennaio 1992, in vista delle missioni popolari)!
E ancora altre tematiche sulla libertà intesa come libertà di discer­nimento per le scelte fondamentali e per la loro quotidiana attuazio­ne e come esperienza da condividere nella promozione e liberazione di sé e degli altri.
Sono tutti, questi, aspetti certamente fondamentali del racconto biblico della liberazione per mezzo della Parola su cui vorrei soffer­marmi percorrendo la testimonianza biblica, tenendo sempre sullo sfondo il “metodo Puglisi”, la carne da lui data alla forza liberatrice della Parola e il contesto dell’accompagnamento spirituale-vocazio­nale.

1. La storia della salvezza come storia di liberazione
Dalla Scrittura emerge con chiarezza la struttura esodica della rivelazione e l’identificazione tra l’azione salvifica e l’opera della liberazione: la liberazione e l’esodo pasquale restano l’evento e la figura tipo dell’opera divina della redenzione. La libertà, dunque, vi emerge come vocazione, dono, promessa garantita, futuro del popolo di Dio.

1.1 La liberazione nel libro della Sapienza
Ci è meno familiare, forse, la traduzione sapienziale che di que­sta dimensione cardine della storia salvifica hanno dato i saggi di Israele nel più recente libro dell’AT greco, il libro della Sapienza: per essi, infatti, l’opera della liberazione è opera proprio di “sapienza”. È, anzi, l’opera propria della Sapienza di Dio, figura della mediazio­ne tra Dio e il mondo, l’esperienza compiuta, illuminata.
Attribuire l’opera della liberazione alla Sapienza e, dunque, far­ne un’opera e una questione di “sapienza” mi pare particolarmente significativo per il nostro contesto di riflessione, dove è questione della lettura sapiente dell’esperienza nostra e altrui. Vorrei, dun­que, rileggere Sap 10,1-11,1 – pericope ponte tra la seconda e la terza parte del libro, rilettura midrashica dell’esodo dall’Egitto – an­corandola ai versi finali del cap. 9 che chiudono la grande preghiera di Salomone per ricevere il dono della Sapienza.

Nella rilettura tardiva della storia come storia di salvezza, il libro della Sapienza mostra chiaramente la consapevolezza-coscienza dei saggi di Israele in diaspora nell’antica terra di schiavitù (cf Sap 9,13- 18; 10,1-11,1):
a) la storia di Adamo e della sua discendenza (in Noè, Abramo, Lot Giacobbe, Giuseppe, Mosè: valenza universale e particolare insieme) è la storia di una progressiva e costante esperienza di liberazione/ riscatto da cadute personali e collettive, da minacce, oppressioni, in­sidie di dominatori arroganti e pene di ogni genere. Il complesso e articolato spettro delle dimensioni diverse dell’opera della liberazio­ne è ben rappresentato: la sapienza salva, riscatta, custodisce e pro­tegge, guida e conduce attraverso, conosce e fa conoscere rivelando, dona fecondità e vittoria, è presenza costante a fianco dell’uomo e sua capacità di resistenza al male, pronuncia un giudizio favorevole per chi combatte con fedeltà, dona regalità. Ciò, a fronte di ingiusti­zia fratricida, malvagità, incredulità, noncuranza verso la sapienza, errori non gestiti, avidità, peccato, oppressione, accusa ostile, tiran­nia, pene e fatiche e – non da ultimo – incapacità di parola!
L’ultimo accento del testo, non a caso, è sulla dimensione pro­fetica dell’azione liberatrice della Sapienza: essa dà ai bambini di articolare una parola chiara e conduce il suo popolo adeguatamente per mezzo dei profeti.
b) La storia di Dio, per come è riconoscibile dall’agire della Pa­rola-Sapienza, è la storia di un re-combattente che lotta perché chi lo riconosce e lo serve possa conseguire la sua stessa libertà e sovra­nità sul mondo, anche resistendo in lotta contro l’empietà. Questa sovranità-libertà regale è, anzi, ciò che la Sapienza garantisce e pro­mette ai giusti-servi di Dio.

La storia di Dio, come anche la storia del popolo di Dio, è dunque tutta intera una storia di combattimento per e mediante la Sapienza (cf Sap 5,14-20):
per la liberazione dall’ignoranza e dalle sue conseguenze (stol­tezza). Per la piena consapevolezza dell’uomo rispetto a se stesso e alla realtà che vive: è liberazione dall’incapacità di apprendere dall’esperienza e sostegno per esercitare forza e sovranità attraverso anche l’esperienza della caduta;
per la liberazione dell’uomo dallo spadroneggiare di dominato­ri arroganti di ogni tipo (poteri empi). Per la sua piena sovranità/ potere, inscindibile dalla pienezza di giustizia, anche nell’esperienza della violenza nemica e nella resistenza e opposizione ad essa.

È una storia di sapienza, esperienza, pietà intelligente e combattiva.

1.2 La liberazione nell’Apocalisse
L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, che rilegge tutta intera la storia della salvezza alla luce del mistero pasquale, non ha altra tra­ma che questa: la storia di Dio con gli uomini – consumata e rivelata in pienezza della visione dell’Agnello ritto in piedi come immolato – è tutta intera la storia di un combattimento vittorioso per il Regno che abilita gli uomini – liberati o svincolati dal peccato/iniquità – a regnare “sulla terra” incarnando, sin dal loro presente storico, il regnare di Dio e del suo Cristo in una resistenza profetica contro ogni forma di potere idolatrico e opprimente, di qualunque colore esso sia: sia quello del serpente antico, drago e satana, «accusatore che accusa davanti a Dio giorno e notte» (Ap 12,10), sia quello della bestia imperiale e dei suoi cultori (Ap 13)! Buona parte dei cantici dell’Apocalisse, non a caso, sono cantici di vittoria5.

1.3 Il ministero di Gesù come evento di liberazione
Nella stessa narrazione evangelica (e, particolarmente, in quella lucana) il ministero di Gesù è condotto all’insegna dell’annunzio giubilare della salvezza intesa come remissione dei peccati e libera­zione da ogni forma di schiavitù: giubilare era la struttura relazio­nale e sociale prescritta al popolo di Dio nella Legge (cf Lv 25,8-55), continuamente richiamata dai profeti (cf Ger 34,8.15.17; Is 61,1); giubilare è la struttura del ministero di Gesù (cf Lc 4,18), come giu­bilare è la sua fine stessa: la morte di Gesù coincide con la liberazio­ne di Barabba dalla condanna e dalla morte e con l’associazione alla propria “vita” dei malfattori da cui Egli, il giusto, non si distingue in nulla quanto al destino di giudizio e fallimento. Il Re si rivela liberando: sciogliendo i debiti, rimettendo in libertà i prigionieri, proclamando la remissione dei peccati.
La liberazione, in ultima analisi, è qualcosa che passa dall’inter­no della storia degli uomini, che accade dall’interno della vita stessa di Dio/del Cristo con gli uomini.

1.4 La libertà nella visione paolina
La condizione di “libertà”, poi, è talmente espressiva della di­gnità dell’uomo che l’apostolo Paolo, rivolgendosi ai credenti della Galazia, può farne addirittura la cifra riassuntiva della opera reden­trice6 e della vocazione in Cristo7. La libertà è la loro destinazione, è la strada loro aperta nel progetto di Dio e, più ancora, è la nuova condizione esistenziale conferita da Cristo mediante la sua morte e resurrezione a tutti quelli che gli si affidano!
L’associazione, mediante il battesimo, al Cristo crocifisso – l’a­mante me e avente donato se stesso per me – è opera di liberazione, il compimento pieno della struttura esodica di tutta la rivelazione (cf Gal 3,26-29).
L’uomo, reso “figlio di Dio” in Cristo, è ormai un adulto, figlio di una “donna libera” (cf Gal 4,21-31): libero da criteri di giudizio e di condotta a lui esterni (la Legge), libero da tutori e da pedagoghi che interpretino, al suo posto e per lui, la volontà di Dio (l’evangelo stesso); libero grazie allo Spirito, può “correre” e non deve cadere daccapo nei lacci e lacciuoli della “carne” (cf Gal 3,1-5).

2. Il rischio: la Parola della libertà disincarnata come velo della menzogna religiosa o ideologica
La Parola non ha forza liberatrice in astratto: non, certo, indi­pendentemente dalla sapienza e dalla consapevolezza storico-espe­rienziale dell’uomo.
La libertà di Cristo (quella che Cristo ha vissuto nella sua vita di uomo e quella che, in tal modo, Cristo dona agli uomini)8 svela le strutture schiavizzanti e di prigionia che possono celarsi al cuo­re della appartenenza religiosa stessa e della formalità-estrinsecità della Legge sulla cui base l’appartenenza viene concepita e regolata.
I profeti già l’avevano insegnato: la stessa Parola guaritrice e vi­vificante di Dio, in mano agli uomini, può essere trasformata nel suo opposto da chi pretende di insegnarla e gestirla per altri e, inve­ce che comunicare energia di liberazione terapeutica, costituire un placebo che aggrava le ferite umane (cf Ger 8,8-11).
Analogamente anche la Parola della libertà, quale dono di re­lazione salubre e risanante, se incamerata senza consapevolez­za, senza “autoformazione”, senza relazione, senza la percezione dell’altro, può trasformarsi nella sua negazione o in una più infida e surrettizia forma di schiavitù: la Parola può essere trasformata in menzogna proprio da quelli che dovrebbero viverla e veicolarla quale parola di verità liberante!
L’originalità dell’applicazione fatta da p. Puglisi del testo di Gv 8,31-47 all’“autoformazione” di ogni uomo discepolo sull’esempio di Gesù appare, in questa luce, particolarmente evidente.
Il dialogo di Gv 8 non è altro che la rivelazione di una ignorata schiavitù a partire dalle brame più profonde che albergano nel cuo­re e si traducono nell’agire a dispetto delle convinzioni di dottrina.

2.1 Libertà come sfondo e processo
Il dialogo giovanneo si svolge tra Gesù e quei “giudei” che han­no creduto in lui in forza delle sue parole, nonostante egli ne abbia a più riprese denunciato il peccato (cf Gv 8,21-30). Attraverso un lungo confronto verbale, che diventa sempre più estenuante e vio­lento al punto da concludersi con il loro tentativo di lapidare Gesù (cf Gv 8,48-59), esso evidenzia bene le difficoltà del cammino verso la vera libertà. Infatti, appena raggiunti dalla parola di Gesù che li attrae, i “giudei” ne prendono subito le distanze, come se qualcosa li impedisse o li ostacolasse nel fare ad essa spazio di accoglienza pro­fondo e duraturo (cf Mc 4,2-7.14-20). Qualcosa li vincola, dunque, nel cammino che pure hanno intrapreso. E, non a caso, è proprio il discorso sulla libertà a far venire a galla i loro vincoli. Dalla durezza con cui reagiscono alla proposta di discepolato e di alleanza libe­rante che Gesù fa loro sembra che essi considerino la libertà come il loro supremo bene, marchio distintivo e inalienabile della propria identità di “figli di Abramo”: «Non siamo mai stati schiavi di nes­suno!» (Gv 8,33). Nel contempo, però, proprio la loro presunzione di libertà li vincola nell’aprirsi fino in fondo a colui dalla cui parola sono stati attratti. Il culto della propria libertà li tiene concretamen­te prigionieri, sospesi tra l’identità ricevuta di “figli di Abramo”, che essi rivendicano in quanto membri della nazione giudaica, ma che, con il proprio agire, dimostrano di non avere realmente assunto (cf Gv 8,39-7), e la ricerca che li anima interiormente e che li spinge a “credere” in Gesù facendosene potenziali discepoli.

2.2 Libertà come appartenenza
La libertà, nei versi iniziali di questo dialogo, è presentata non come un punto di partenza, ma come la meta di un cammino pos­sibile che conduce l’uomo a se stesso; un cammino che ha la libertà come via e come esito, che questi è invitato a fare e che nello stesso uomo Gesù gli è mostrato ed aperto. Liberi non si nasce, ma si di­venta. Il testo insiste chiaramente sui dinamismi che portano l’uo­mo a diventare e, poi, ad essere libero e quelli che glielo impediscono. Esso mostra bene come la libertà sia un processo che, per realizzarsi pienamente, esige un cammino di verità alla scoperta di sé, dei pro­pri vincoli e dei propri desideri attraverso una relazione sempre più profonda con “l’uomo” che annuncia l’identità paterna di Dio (cf Gv 19,5), scommettendo sulla propria identità filiale anche a costo di pagare con la vita la propria parola di verità.

2.3 Due concetti opposti di libertà
Si manifestano così due concetti opposti di libertà: una libertà disincarnata, astratta, intesa come proprietà ereditata e inalienabile, e una libertà concreta offerta come risposta ad una attesa e mediata da una relazione discepolare capace di restituire veramente l’uomo a se stesso. La libertà che i “giudei” rivendicano è granitica, statica, astorica, non ammette approfondimento né progresso9.
La libertà dimostrata dai “giudei” è fiera, ma dimostra una man­canza di contatto con la propria realtà o verità. Anzitutto quella storico-politica, perché al tempo di Gesù i “giudei” sono di fatto soggetti al dominio imperiale romano. Poi quella della storia salvi­fica di cui sono figli, perché nati da atti sempre nuovi di liberazio­ne o di riscatto compiuti dal Signore in loro favore sin dall’esodo dall’Egitto; il loro padre Abramo è egli stesso il primo beneficia­rio dell’azione di “riscatto” compiuta da Dio (cf Is 29,22). Infine, quella più spirituale e personale, perché essi «cercano di uccidere» Gesù (cf Gv 8,40) e dunque, pur rivendicando idealmente la pro­pria libertà, sono internamente pressati da qualcosa che li spinge alla violenza omicida contro colui che non possono accusare di peccato, dalla cui parola sono attirati, ma dalla quale sentono an­che minacciata la libertà che sostengono di possedere in forza della propria identità di figli di Abramo. La libertà che essi rivendicano come possesso inalienabile è dunque una libertà astratta, contrad­detta a diversi livelli di realtà, che li blocca nel cammino di relazio­ne cui si sentono attratti.
La libertà proposta da Gesù, invece, si compie progressivamen­te, nel tempo, come evento di liberazione; dipende essenzialmente dall’esperienza personale della “verità” e ha delle condizioni precise di attuazione. Esige anzitutto la disponibilità a mettere in crisi una pre­sunta identità e libertà. L’insistenza sul tema della paternità in tutto il dialogo mostra quanto la questione identitaria sia decisiva e come l’identità, determinata a partire dall’appartenenza ad un “padre” piuttosto che ad un altro, si riveli veramente a partire dai desideri profondi e dalle azioni che la traducono concretamente nella vita: «siete discendenza di Abramo… fate anche voi quello che avete udito presso il padre!… Se foste figli di Abramo fareste le opere di Abramo. Ora, invece, cercate di uccidere me, uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto!…Voi siete dal padre che è il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida dal principio…» (Gv 8,37-40.44).
Dipende poi dall’apertura sincera di sé alla parola di rivelazione che attrae e dalla capacità di perseverare o “rimanere” in essa. Attra­verso l’accoglienza di questa parola, fiorisce come relazione frontale e personale di appartenenza a colui che la reca10 e che apre così ai suoi la via di un’esperienza sempre più intima e piena della verità11. Questa, a sua volta, è il vero e ultimo soggetto attivo dell’opera di “liberazione”: la «verità vi libererà»!
Verità e libertà, come già nella testimonianza paolina (cf Gal 2,5.14; 5,7), sono inscindibili anche in quella giovannea e la libertà è frutto della verità. Quale verità? La “verità” liberante, per l’evan­gelista Giovanni, non è altro che Parola di Dio (cf Gv 17,17). Ma questa è una verità personale, perché coincide interamente con la persona stessa dell’uomo Gesù in quanto “Figlio”12 e con la relazio­ne di appartenenza vitale e costitutiva al Padre che lo rende tale e, dunque, libero: pienamente padrone di amare senza temere la mor­te (cf Gv 8,51-58; 13,1-5), abitante stabile e sovrano della “casa” in cui la relazione d’origine al Padre lo pone saldamente per diritto nativo senza rischio di esserne espulso, come può accadere, invece, allo schiavo (cf Gen 21,9-14).

2.4 La liberazione come processo permanente e struttura inalienabile dell’uomo interiore
Come per Paolo, così anche per l’evangelista Giovanni la diffe­renza tra schiavitù e libertà non è di tipo sociologico e non dipen­de dall’appartenenza fisica alla discendenza di Abramo, ma dalla partecipazione dell’uomo alla condizione filiale di Gesù. Più chia­ramente che in Paolo13, in Giovanni la partecipazione alla con­dizione filiale di Gesù significa liberazione dalla più profonda delle schiavitù umane, la paura, e, radice di tutte le altre, la paura di perdere se stessi e di morire (cf Eb 2,14-15). Secondo Giovanni, non a caso, Gesù viene consegnato alla morte proprio per la paura che i capi di Israele hanno di vedere distrutta dai romani la nazione giudaica a causa sua (cf Gv 11,49-53). La verità che può avviare e compie­re il cammino di liberazione è dunque, anzitutto, la sua parola libera, franca, priva di timore. La parola stessa con la quale egli si offre quale “Figlio” a coloro che lo vogliono uccidere, esponendosi anche alla morte e confidando solo sul Padre (cf Gv 8,29). È la parola di colui che non temendo da nessuno minacce alla propria identità, revoche della conseguente condizione di libertà, o spa­zi di ombra in essa14, può denunciare i meccanismi che tengono schiavi i suoi interlocutori, invitandoli a far spazio in sé al dono di vera libertà che solo dall’accoglienza della parola del “Figlio” sul “Padre” può scaturire. Una condizione di vera libertà che non può essere messa a rischio né conquistata o difesa dall’umana violen­za. La parola che dice relazione al Padre e invita ad abbandonarsi a essa lasciandosene liberare senza temere la morte tocca, quindi, al cuore la segreta schiavitù degli interlocutori che prendono le distanze da Gesù con sempre maggiore violenza. La loro pretesa di libertà si può ben intendere come un preoccupato grido di autodi­fesa: «Non siamo mai stati», né saremo, «schiavi di nessuno»! Una reazione di difesa che mostra quanto, nel profondo, essi sentano la loro presunta libertà come possesso effettivamente instabile e minacciato.
Una libertà che può essere sempre revocata e tolta, non è però tale “veramente”, costitutivamente, essenzialmente. È temporanea ed estrinseca. È la condizione precaria di uno schiavo incerto sul proprio destino, e non la stabilità sicura del figlio. È la libertà figlia e madre della violenza con cui gli uomini, rovesciata una signo­ria straniera e conquistato un territorio non proprio, ripropongono inevitabilmente in esso le logiche difensive e paurose del potere violento rifiutate nella signoria rovesciata. Una simile libertà, che non coincide veramente con l’essere personale di chi la rivendica ma dipende da condizioni precarie ed estrinseche, è smascherata dalla libertà di chi può parlare e agire senza temere rovesciamento di sorti. Provocazione a una libertà da ricevere storicamente in un dono di relazione sempre più vera e profonda, la parola che viene dalla libertà e genera libertà porta alla luce tutta la violenza che al­berga nel cuore (cf Gv 8,48.59). Scopre così i vincoli che legano gli interlocutori del “Figlio” e li rivela “schiavi” che ignorano di esserlo. Manifestando con la violenza la loro prigionia, essi dimostrano l’in­soddisfatto bisogno di libertà che li abita e li spinge alla soppressione di colui da cui la sentono minacciata.

2.5 Il processo di liberazione tra dottrina ed esperienza
Posto subito dopo il dialogo con i Giudei, il racconto della storia del cieco nato (Gv 9,1-34) – la cui esperienza concreta, con le sue implicazioni cristologiche, viene rifiutata in nome della dottrina e del modo in cui essa viene interpretata dai discepoli di Mosè – met­te in luce in modo mirabile le conseguenze pratiche di chi vive in schiavitù pretendendo di essere libero, ovvero di “vedere” pur es­sendo “cieco” di fronte all’esperienza (cf Gv 9,24-34): al ripetuto e granitico “noi sappiamo” dei “Giudei”, sul quale si basa il loro giu­dizio di condanna nei confronti di Gesù e della sua opera di libera­zione dalla cecità, si contrappone la sapienza libera, concreta, espe­rienziale del cieco guarito15: il capitolo 9 di Giovanni mette in scena il discepolo del Figlio dell’Uomo e i discepoli di Mosè. La parola del Figlio dell’Uomo, obbedita, porta i ciechi a vedere per esperienza e incontro diretto e personale.
Credere di credere e/o di vedere, senza aprirsi all’esperienza e alla novità dell’opera di Dio protesa al fine di piena salvezza e di nuova creazione, può essere pericolosa forma di insanabile schia­vitù.
Curare l’autoformazione, alla scuola di Gesù, significa invece puntare sulla consapevolezza costante dei propri bisogni e non sulla loro negazione, evaporazione, edulcorazione, spiritualizzazione… piuttosto, è necessario educare alla loro piena consapevolizzazione e gestione.

La contestazione fatta da Gesù, secondo Matteo, a «scribi e fari­sei ipocriti», «guide cieche» (cf Mt 23), si potrebbe intendere analo­gamente: a chi si risponde in verità? A se stessi? Alla glorificazione reciproca tra i propri simili? A un Dio divenuto idolo cui sacrificare la relazione con l’uomo fratello?
È necessario il coraggio di cambiare, di ricominciare se il corpo stona:
«Aspetto la storia di Irene… Le crederò.
Mia madre protestava: “non credi al creatore dell’universo e dai retta a chi ti racconta una storia”. E commentava il mio silenzio: “che accidenti è successo alle persone? Erano credenti di una fede, poi sono diventate credulone di oroscopi, indovini, lotterie”.
È così, le dicevo, però per credere a una storia devo pure credere alla voce, agli occhi che la pescano svariando nel ricordo, ai piedi che non possono mentire. Credo a una persona tutta intera mentre racconta, riferisce, dice. Se stona in qualche punto del corpo, me ne accorgo e smetto.
A Irene credo. Del creatore posso leggere nelle pagine sacre, nel­la sua prima lingua, ma non ne so la voce, il corpo che la dice»16.
Quello dell’Uomo – e solo quello – è il corpo che la dice e che ne rivela, in atto, la forza liberatrice. Discernerla e sperimentarla a partire dal concreto del proprio vissuto, corporalmente percepibile e manifesto, questo è per l’appunto coraggio di “rimanere/stare” nella Parola che libera e nella libertà della Parola (cf Gc 1,21-25).
Non si può essere promotori di libertà altrui se non si è consa­pevoli delle proprie schiavitù o, più immediatamente, dei segnali del corpo che esprimono vincoli, paure, violenza, schiavitù; delle brame intime che dicono pressioni (sempre e solo diaboliche!) di morte. Non si può alimentare la libertà altrui senza attenzione co­stante alla propria! Soprattutto, senza attenzione costante a non dare il nome di libertà a modalità di esistenza costrette e indotte dall’ideologia e da sistemi di potere, ancor più infide quando vestite religiosamente17.
La Parola del Re liberatore in ogni caso è profezia antisistema.

2.6 Il pericolo di una libertà mistificata quando mancano la relazione e il contesto
Anche nelle sezioni esortative delle lettere apostoliche si coglie bene il pericolo di una libertà mistificata:
1Pt 2,16-19: al cospetto del mondo e degli “altri” (pagani e non credenti), i cristiani sono chiamati a essere realmente liberi come servi di Dio, cioè legati a Dio nella loro coscienza e pienamente radi­cati nel mondo senza fuggirne le relazioni anche quando complesse e difficili da gestire; soprattutto, senza fuggirne le trame in nome di una malintesa “libertà”!
1Pt 2,12-17: la libertà potrebbe essere invocata per sfuggire alle regole del ben-vivere sociale e sottrarsi alle relazioni salubri e bene­fiche dentro la polis. Il credente libero, invece, non deve sottrarsi al mondo invocando la propria libertà a copertura menzognera di una profonda e nascosta malizia, ma starci con una condotta-operativa che, da sola, dimostra la libertà di chi serve Dio davanti all’ignoran­za degli stolti! E non ci sono parametri estrinseci validi una volta per tutte, a prescindere dall’esperienza concreta e dai diversi e partico­lari contesti relazionali dei singoli e delle comunità!
2Pt 2,19: «Ciò da cui qualcuno è vinto (soggiace, si lascia vince­re), di questo egli diventa schiavo», qualunque cosa esso sia, fosse anche il teologumeno della libertà!
Gal 5,13s.: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infat­ti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso».

Gli esempi si potrebbero moltiplicare ancora.
– Ciò che per Paolo è indice di libertà (ad es., il mangiare libera­mente le carni immolate nei templi pagani, perché Dio è uno solo e gli altri non sono dei, cf 1Cor 8,1ss.), per il Giovanni dell’Apoca­lisse può essere indice di tradimento e di schiavitù perché espone il credente ad una condizione di relazione promiscua nel contesto delle città dell’impero e compromessa con il suo sistema socio-eco­nomico e politico opprimente (cf Ap 2,14.20)! La libertà frutto della propria conoscenza – anche per Paolo, del resto – non è più tale se perde di vista la relazione con l’altro (1Cor 8,7-13).
– Analogamente Paolo dimostra che la libertà è anche capacità di poter rinunciare ad essa: gli altri apostoli possono pure guadagnare dal proprio ministero; egli, se ritiene, può rinunciare a farsi man­tenere. «Libero da tutti, di tutti mi sono fatto servo» (1Cor 9,19): la sua libertà è intima, radicata, intrinseca e non dipende da soluzioni esterne. Piuttosto, in esse, questa si manifesta in tutta la sua po­tenza e sovranità come libertà incarnata, incorporata, ormai fatta propria dall’uomo interiore.
Altro esempio: se per Paolo il non sposarsi era emblema del­la propria libertà, per i suoi discepoli, qualche decennio dopo, in un mutato contesto ecclesiale, esso poteva diventare il manifesto di uno strutturale squilibrio relazionale, personale e sociale, spacciato per volontà di Dio (1Tm 4,1-3).
Anche nel parlare della libertà cristiana e nel farla intendere ci può essere abuso se mancano la relazione e il contesto; se ci sono assoluti, di qualunque genere, che dominano sull’uomo esimendo­lo dalla sfida dello spazio e del tempo in cui vive le sue relazioni.
Caratteristica propria della forza liberatrice della Parola – ricono­scibile dalla Scrittura canonica, dalla vita di Gesù e dei suoi testimo­ni – è mantenere continuamente desta l’attenzione e la sensibilità per le relazioni e i loro contesti concreti di attuazione come pista sicura del discernimento e della costruzione di sé.
Il fine e il contenuto ultimo del “comandamento/consegna”, in­fatti, altro non sono che vita e amore18.

3. Libertà di appartenere: libertà di vivere e di amare
La libertà donata dalla Parola si può custodire fino alla sua pie­nezza rimanendo, processualmente, in essa e si può perdere tragi­camente nella menzogna e non-consapevolezza! L’unico criterio di discernimento restano la vita e l’amore, la possibilità di essere e di amare senza altro vincolo o limite che l’amare stesso e l’essere in pienezza.
Vera libertà non è quella che solo la violenza può difendere (cf Gv 8-9) o quella che per proteggere se stessa deve elevare barriere di separazione, di distanza dall’altro o – peggio ancora – di con­danna dell’altro (cf Gal), ma quella di accogliersi e riconoscersi in un rapporto che «offre la possibilità di essere una cosa sola con se stessi»19, stabiliti in una nuova e autenticamente propria, inalie­nabile, unità con se stessi dalla relazione con l’Altro, sorgente e principio di novità che libera non a qualcosa, ma alla libertà stessa: alla libertà dalla paura e da vincoli estrinseci, alla libertà di appar­tenere a un altro, di riceversi e darsi in dono in una relazione di reciproca fedeltà com’è quella tra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e i suoi fratelli.
Libertà di amare e di appartenere, libertà di servire con la propria vita di uomini liberi alla liberazione degli altri, questa libertà intro­duce l’alterità nell’identico, la relazione all’altro come costitutiva di se stessi e costruisce la persona in verità rompendo il meccanismo violento che rende l’“uomo” – singolo e comunità – irresolubilmen­te alieno a se stesso e nemico all’altro e a Dio. Una libertà così ri­cevuta e stabilita diventa essa stessa la “legge regale” nuova che governa intimamente la vita di uomini liberi come “re” (cf Gc 2,8): «Così parlate ed agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà» (Gc 2,12)! È la “parola di verità” che fa dell’uomo rigenerato una nuova creatura (cf Gc 1,18) e lo rende ca­pace di beatitudine: «Chi fissa lo sguardo sulla legge perfetta, quella della libertà, e vi permane non come ascoltatore che dimentica, ma come uno che la traduce in opere, questi sarà beato nel suo agire» (Gc 1,25).
La libertà donata dalla Parola è la libertà di scoprire la propria identità e di viverla concretamente in un’appartenenza liberante e capace di affrancare radicalmente l’uomo da ogni vincolo di schia­vitù umana o religiosa, personale o sociale (cf Gal 6,14-17). L’esi­stenza è ricondotta così al suo centro di riferimento vitale e al suo significato più autentico: “la croce del Signore” come segno dell’a­more liberante, la condivisione intima e concreta di questo stesso amore20: “la nuova creatura” che ne sorge. Ogni altro vincolo, fonte di confusione o d’inciampo, ne risulta salutarmente sciolto21.
Letta dal punto di vista antropologico, simile libertà ricevuta è un dono di relazione che non può sposarsi con la condizione su­bordinata dei “fanciulli” che stanno sotto la guida di amministratori o tutori, ma solo con quella di uomini responsabili, “signori”, resi adulti proprio dalla partecipazione al rapporto del Figlio con l’u­nico Padre, forti e consapevoli di sé nella propria appartenenza al solo che può renderli veramente liberi dal potere piccino ed egoista dell’uomo sull’uomo, soprattutto quello ammantato di zelo premu­roso (cf Gal 4,17) e di religiosità (cf Gal 4,8-11; Col 3,16-17.20-23).
La libertà che si raggiunge mediante un simile cammino di verità e scaturisce dal far spazio all’altro non considerandolo come mi­naccia della propria identità, ma come costitutivo di essa, non può essere equivocata, non può costituire un pretesto. Non ammette illusioni, ambiguità né mancanza di realismo. La vera libertà, che viene dall’esperienza liberante dell’amore e dell’appartenenza au­tentici, suscita amore vero e quindi capacità di servirsi nell’amore. Ricevuta dalla e nella relazione personale, la libertà non ricolloca le persone in una condizione di schiavitù a leggi che sono ad esse esterne, ma crea le condizioni per un autentico e reciproco servizio tra le persone in vista di una sempre più profonda liberazione dei singoli e della comunità. È quello che Paolo chiama adempiere la “legge di Cristo” (cf Gal 6,1-2).
La libertà, così accolta e vissuta, è quella che apre ogni possibilità di identità, appartenenza e servizio. È il marchio caratteristico dello Spirito del Signore (2Cor 3,17).
Non è un terreno neutro da cui muoversi in una direzione o in quella opposta, ma la scelta consapevole dell’appartenenza, la scelta responsabile tra due “padroni” (cf Gs 24,15; 1Ts 1,9; Rm 6,12- 23; 7,6). D’altronde, tutta la storia della liberazione del popolo di Israele dall’Egitto non è altro che il passaggio dalla “servitù” dell’u­mano potere al “servizio” regale dell’unico Signore che – proprio in quanto liberatore degli oppressi – «regna in eterno e per sempre» (Es 15,18; 19,3-6).
Questa libertà, in ultima analisi, è amore compiuto: libertà at­tuata e vittoriosa di appartenere senza temere la morte. A causa e in forza dell’amore, l’uomo è reso libero di disporre della propria vita quale pegno della Vita che amore testimonia al suo essere (cf Sal 63,4; Mt 10,39; Lc 17,33; Gv 12,25; Gv 15,13; Rm 8,10-11.16-17).
Più che libertà-per-amare, forse ancor prima e strutturalmente libertà-di-amare!

Conclusione
La forza liberatrice della Parola è quella che don Pino Puglisi ha incarnato nella concretezza della sua storia di vita e di relazione.

Nel primo anniversario della sua morte, il card. Pappalardo così si espresse:
«Cadde sotto il colpo assassino perché era stato deciso dai prepo­tenti e boss della zona che egli non dovesse più svolgere quell’attivi­tà educativa e formativa per cui tanti ragazzi, tanti giovani, un inte­ro Quartiere fossero sottratti alle conseguenze dell’ignoranza, della diseducazione familiare e sociale, alla cultura della violenza, che si esprime tanto come sopraffazione dei deboli, sia come passiva sot­tomissione di essi ai voleri dei prepotenti. In un contesto “mafioso” la dignità e la libertà umane vengono ignorate e calpestate, mentre don Puglisi, in nome del Vangelo e della missione educatrice da esso affidatagli, cercava di ottenere che ciascuno comprendesse la necessità di sottrarsi ad ogni pesante giogo e disporre della propria esistenza senza umilianti asservimenti, per diventare, da schiavi, uomini liberi».
Nelle motivazioni della sentenza della seconda sezione della Cor­te d’Assise di Palermo (presidente Vincenzo Oliveri, giudice a latere estensore Mirella Agliastro) si riassume così – tenendo conto del contributo di pm, testimoni e collaboratori – il movente del delitto e lo scenario di Brancaccio (documento depositato in cancelleria in data 19 giugno 1998): «Emerge la figura di un prete che infatica­bilmente operava sul territorio, fuori dall’ombra del campanile… L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel con­testo dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona, contro cui il prete mostrava di essere uno dei più tenaci e indomiti oppositori. Don Pino Puglisi aveva scelto non solo di “ricostruire” il sentimento religioso e spirituale dei suoi fe­deli, ma anche di schierarsi, concretamente, senza veli di ambiguità e complici silenzi, dalla parte di deboli ed emarginati, di appoggiare senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano alla radice l’ingiustizia della propria emarginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, accogliente e vivibile».
Liberatrice da cosa e per cosa, la Parola? In che modo forza? For­za che ci fa violenza? “Forza” contro la nostra “debolezza”? Forza riguardo a quello che dovremmo essere e non siamo? E cosa do­vremmo essere che non siamo?
Forza interiore, piuttosto, per essere quello che più profonda­mente desideriamo e siamo chiamati ad essere e/o a diventare.
Non padroni della fede – sono gli apostoli e formatori di comu­nità – ma collaboratori per la gioia (cf 2Cor 1,24). Servitori di un gregge che non è loro, di cui uno solo è il pastore, e che ha il suo fiuto, per parafrasare Papa Francesco. Per cui c’è da chiedersi se, quando si disperde o fugge, non è perché è fatto da pecore cattive, ma perché discerne il mercenario che non è pastore.
La Parola è forza di liberazione proprio dentro la nostra carne, a partire da essa, grazie ad essa, nella consapevolezza piena di essa.
La terra produce spontaneamente (cf Mc 4,28). Ha in sé la for­za del seme da accogliere e mediante il quale esprimere la propria energia.
«Nessun uomo è lontano dal Signore. Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore. Non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà», di­ceva una frase posta su uno dei cartelloni della mostra vocazionale allestita negli anni Ottanta.
«L’ho conosciuto 11 anni fa, ho fatto con lui otto campi-scuola, sono cresciuta con lui. Quando è morto mi sono sentita come se avessi perso mio padre. Eppure è incancellabile la gioia, la tran­quillità che ci ha lasciato. E mi sono domandata: come mai? Perché ci ha insegnato a crescere come uomini che possono esprimersi in libertà… Non plasmava, non condizionava, non imponeva nulla, non giudicava, attendeva i tempi di ognuno di noi. Anche se biso­gnava aspettare anni: io mi sono formata come persona, con lui, dopo 11 anni»22.
Non ricette, ma percorsi e processi…
Non un’ideale astratto e disincarnato, ma una strada da seguire in modo personalizzato… L’antropologia biblica – riconosceva don Pino – è il segreto del senso: «La risposta alla domanda di senso è nella Bibbia, è l’antropologia biblica. Certo, noi non andremo dalla gente a dire: la risposta alle vostre domande è l’antropologia biblica! Lo dico per intenderci tra di noi»23.
L’antropologia e la teologia che emerge dalla Scrittura e dalla sua traduzione umana, fuori dal libro, nella carne del Verbo Figlio dell’Uomo.

NOTE
1 P. Puglisi, Dall’animatrice vocazionale alla comunità vocazionale, in F. Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, Rizzoli, Milano 2013, p. 171: «Nel dopo-concilio il concetto è stato ampliato moltissimo e si lavorò per cancellare la logica del proselitismo, dell’intruppamento, che prima era accentuata. Il punto è che i preti non si possono limitare a “confezionare” altri preti. L’itinerario spirituale deve prevedere tantissime altre strade. Ecco allora che vocazione non è altro che la risposta alla chiamata, al progetto di Dio, nei più sva­riati campi, dalla vita sociale a quella professionale».
2 F. Deliziosi, op. cit., p. 204.
3 Ivi, p. 205.
4 Cf ivi, p. 206.
5 Cf il canto di Mosè servo di Dio e il canto dell’Agnello in Ap 15,3.
6 «Cristo ci ha liberato alla libertà» (Gal 5,1).
7 «Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13).
8 Cf i testi belli di p. Puglisi sulla libertà di Gesù: «Gesù non è un superuomo… è un essere umano che ha vissuto intensamente, un essere pieno di tenerezza e sensibilità, di intelligenza acuta e di solido buon senso. Tutte queste qualità spinte alla perfezione si sono espresse in una libertà totale nei confronti degli uomini e delle istituzioni, una libertà umile, tuttavia, di una sottomissione esemplare alla volontà divina». «Vediamo come Gesù si pone nei confronti di tutto quanto lo circonda come un uomo libero e liberante nello stesso tempo (Mc 3,1-6). Il sabato non si faceva nulla… Arriva invece Gesù che scavalca ogni convenzione sociale, ogni tradizione ed è perciò libero nei confronti di queste. Si pone con molta libertà nei confronti di tutto quello che era la legge». Egli segue la sua legge che è quella dell’amore: «Quando deve seguire la legge del suo Dio è libero da qualsiasi cosa, da qualsiasi persona che gli stia accanto, anche i discepoli… Sconvolge con la sua libertà il suo tempo», in F. Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, Rizzoli, Milano 2013, pp. 159-162.
9 «Noi siamo discendenza di Abramo… non siamo mai stati schiavi di nessuno» (Gv 8,33).
10 «Siete realmente miei discepoli» (Gv 8,31).
11 «Conoscerete la verità» (Gv 8,32).
12 «La verità vi libererà… Il Figlio vi libererà» (Gv 8,36; cf anche Gv 1,1.18; 14,6).
13 Cf Rm 8,15.
14 «Chi di voi può accusarmi di peccato?» (Gv 8,45).
16 E. De Luca, Storia di Irene, Feltrinelli Editore, Milano 2001, pp. 19-20.
17 Cf 2Cor 11,13-14.
18 Io so che il suo comandamento è vita eterna (Gv 12,50); «Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1Tm 1,5).
19 K. Berger, Psicologia storica del Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1994, p. 50.
20 «Porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17).
21 «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi» (Gal 6,17).
22 Testimonianza di Laura Mortellaro, in F. Deliziosi, Pino Puglisi, cit., p. 123.
23 Relazione ai volontari in preparazione alle Missioni, 8 gennaio 1992. Queste si tennero il 22-29 Marzo 1992 e il 22-25 marzo 1993.