N.05
Settembre/Ottobre 2014

Essere preti e non… fare i preti

C’è una domanda di fondo che, come “fil rouge”, sottende tutto questo numero della rivista «Vocazioni», dedicato al tema della formazione e della vita dei presbiteri, in occasione della Assemblea straordinaria della CEI ad Assisi, dal 10 al 13 novembre 2014.
È una domanda che vale per i preti, ma che si estende ad ogni persona consacrata e ad ogni battezzato: come essere persone che vivono con gli uomini e le donne del nostro tempo, con loro e per loro. Che cosa può salvare tutti noi dall’essere uomini (o donne) solo di parole e non della Parola; dall’essere uomini (o donne) di comunione e non solo di giudizio, spesso tranchant e inappellabile sugli altri; dall’essere uomini (o donne) capaci di fare dono di una moneta che non si svaluta, di un abito bianco che copra la nudità dell’uomo proprio fratello, di un collirio che curi gli occhi e aiuti a vedere con nitidezza la vita? (cf Ap 3,18).
Nel recente discorso rivolto ai membri consultori nella Assemblea plenaria della Congregazione del Clero (3 ottobre 2014), Papa Francesco così si esprime: «Riprendendo l’immagine del Vangelo di Matteo, mi piace paragonare la vocazione al ministero ordinato al tesoro nascosto in un campo (13,44)». E continua: «Le Vocazioni sono un diamante grezzo, da lavorare con cura, con rispetto della coscienza delle persone e con pazienza, perché brillino in mezzo al popolo di Dio. La formazione, perciò, non è un atto unilaterale, con il quale qualcuno trasmette nozioni, teologiche o spirituali. Gesù non ha detto a quanti chiamava: “vieni, ti spiego“, “seguimi, ti istruisco“: no!; la formazione offerta da Cristo ai suoi discepoli è invece avvenuta tramite un “vieni e seguimi“, “fai come faccio io“, e questo è il metodo che anche oggi la Chiesa vuole adottare per i suoi ministri».
Questo mi riporta alla memoria del cuore le parole del Beato Papa Paolo VI, riprese nella Pastores dabo vobis (52): «Cristo si è fatto contemporaneo ad alcuni uomini e ha parlato nel loro linguaggio. La fedeltà a lui chiede che questa contemporaneità continui».
Noi diventiamo credibili quando osiamo essere uomini e donne capaci di “calarsi giù” dalla propria torre di avorio, di impastarsi nella realtà degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Il Beato Paolo VI continua: «Da questa maturazione umana deriva la capacità di adattarsi alla condizione degli uomini ai quali si vuole servire, rinunciando ai privilegi e alle distanze che sono di ostacolo all’annunzio del vangelo stesso». Tutto questo ci indica la via concreta per far crescere la propria umanità e la volontà di dialogo e di relazione rispetto ad un “ruolo” lontano dal cuore e dalla vita della gente, perché assunto e vissuto nella ricerca di una autorealizzazione personale.
È ancora Papa Francesco a darci un orientamento preciso: «Si tratta di “essere preti“, non limitandosi a “fare i preti“, liberi da ogni mondanità spirituale, consci che è la loro vita ad evangelizzare prima ancora delle loro opere. Quanto è bello vedere sacerdoti gioiosi nella loro vocazione, con una serenità di fondo, che li sostiene anche nei momenti di fatica e di dolore!».
Eppure le difficoltà a vivere la dimensione della “relazionalità“ non sono poche nell’ambito della vita sacerdotale. Si possono trovare alibi e scusanti di tutti i tipi: il carattere, i momenti di disagio e di frustrazione personale, la grande mole di impegni e di lavoro, le pressioni e le attenzioni richieste a chi opera nella pastorale, oggi.
Tutto ciò potrebbe legarsi anche al condizionamento pesante di una pigrizia personale, dalla quale non ci si vuole scomodare, o del rischio di una condivisione come coinvolgimento personale, che si fatica ad assumere, perché richiede di mettere in gioco tutto se stessi.
Henry J.M. Nouwen afferma: «A volte immagino che il mio cuore sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente?».
È essenziale creare una “zona franca” in noi stessi, per poter invitare altri ad entrarvi, a riposare, a curarsi e a guarire. La vera compassione richiede un’autocritica minuziosa che conduca ad una dolcezza intima. È una interiorità dolce, un cuore di carne e non di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi.
Thomas Merton, nel suo Diario di un testimone colpevole, scrive di aver appreso che la capacità di vivere la solitudine non approfondisce soltanto il nostro affetto per gli altri, ma è anche luogo dove diviene possibile una reale esperienza di relazione e di comunità.
«Chi impara a spartire la propria solitudine senza timore, considera ogni suolo “sacro“».