N.05
Settembre/Ottobre 2014

Identità del prete e appartenenza ad un presbiterio

Tra i molteplici punti di partenza possibili per la presente riflessione, ho scelto di rifarmi allo schema della preziosa relazione di Mons. Luciano Monari alla 56a Assemblea CEI, che ha poi sostanziato la Lettera ai sacerdoti italiani del 19 maggio 20061. Il vescovo impostava il suo discorso su 4 aspetti: identità – umanità – discepolato – ministero del prete. Io cercherò di declinare al plurale gli stessi passaggi, chiedendomi come il seminario possa meglio introdurre alla identità del presbiterio, alla sua realtà umana ed esistenziale, alla condivisione della fede e del discepolato, al ministero come “opera collettiva”. Si tratta di un’operazione nient’affatto scontata: basterebbe scorrere – ad esempio – il dettagliatissimo indice di un volume importante sui presbiteri come quello di Agostino Favale2, per non incontrare mai la parola “presbiterio”. Il plurale “presbiteri” potrebbe nascondere proprio la situazione con cui ancora ci troviamo a fare i conti, sul piano teologico e pratico, nelle diocesi e nelle loro istituzioni formative: una miriade di monadi, un prisma dalle infinite facce, non sempre un medesimo organismo vivente.

1. Attingere all’identità del presbiterio
L’identità del presbitero è descritta da Giovanni Paolo II nella sua «connotazione essenzialmente relazionale» (PDV 12): alle fonti dell’amore del Padre, della grazia di Cristo e del dono dello Spirito, per vivere nella trama di comunione col Vescovo, con gli altri presbiteri, con il popolo di Dio, con tutti gli uomini.
In particolare, come già detto in Presbyterorum Ordinis 8, tutti i presbiteri appartengono ad una medesima fraternità sacerdotale, di natura e fondamento sacramentale, e vivono in un determinato presbiterio diocesano, per esercitare il loro ministero in «una radicale forma comunitaria» (PDV 17). Cercasi, innanzitutto, più robusta teologia del presbiterio, per la ripresa della quale siamo grati al saggio di Giovanni Frausini3, particolarmente al suo puntuale rimando alla lex orandi racchiusa nel Rito dell’ordinazione dei presbiteri. Al culmine della preghiera di ordinazione, si invoca da Dio sugli eletti il dono della presbyterii dignitatem, tradotto come “dignità del presbiterato”, e non come “dignità del presbiterio” che, al di là del risuonarci inusuale, rimarcherebbe l’ingresso in un collegio, con tutte le sue conseguenze sulla forma comunitaria e collettiva del dono ricevuto e del servizio da svolgere.
Oltre al fondamento sacramentale posto nella comune ordinazione presbiterale, la vita e il ministero dei presbiteri si radicano anche nell’istituto dell’incardinazione ad una Chiesa particolare, o nell’appartenenza ad una prelatura personale o ad un istituto di vita consacrata: vincoli giuridici dalle indubbie conseguenze in termini di identità, spiritualità, forma di vita4.
La nota del 1999 contenente Linee comuni per la vita dei nostri seminari (LC) dedicava tanta attenzione all’esigenza di dare spessore esistenziale e formativo alla figura teologica di presbitero per le nostre Chiese del terzo millennio, segnalando – tra l’altro – la necessità di una seria verifica lungo il curricolo seminaristico di come i candidati crescono nelle dimensioni della comunione e della missione: «Una insufficiente capacità relazionale e una carente passione apostolica costituiscono una seria contro-indicazione vocazionale. Non basta dunque una generica crescita nella fede, bensì occorre che nel candidato al futuro ministero siano motivate e mature l’attitudinealla comunione a partire dall’appartenenza a un presbiterio, e la decisione di dedicarsi alla comunicazione del Vangelo»5, alla carità pastorale, al vivere per il Regno.
L’attuale ratio per La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana (FP) concretizza tali affermazioni nell’esigenza di vivere «un tempo di vita comune per stare con Gesù e con i fratelli nella consapevolezza della comune chiamata… in un contesto di comunione fraterna, al modo degli apostoli» (58).
Elenco rapidamente alcuni possibili sentieri di lavoro:
– verificare il linguaggio della pastorale vocazionale e dell’accompagnamento spirituale, che talvolta si ripiega sulle esigenze della sola realizzazione personale, dimenticando la costitutiva «dimensione ecclesiale della vocazione» (PDV 35), specie di quella al ministero ordinato;
– curare l’interesse e le interazioni nelle Chiese locali intorno al progetto formativo del seminario, tenendo conto delle diverse situazioni in cui, ad esempio, diverse diocesi concorrono – non sempre corresponsabilmente – alla vita di seminari interdiocesani o regionali;
– proiettare la luce dell’identikit del seminario delineato da PDV 60 sulle dinamiche del presbiterio: quale condivisione tra preti nell’ascolto della Parola, nell’esperienza della Pasqua, nel vivere la missione in continua ricezione del dono dello Spirito?
– Rammentare che nei nostri presbiterii convivono e variamente collaborano sacerdoti formati in tempi e contesti assai diversi, con matrici teologiche e spirituali anche distanti, e considerare l’eterogeneità come risorsa prima che come problema;
– la narrazione di storie sacerdotali6 e, meglio ancora, di storie di presbiterio (formazione, amicizia, collaborazione, vita comune, momenti difficili, ecc.), introduce esperienzialmente ad una famiglia cui non può mancare capacità generativa e memoria;
– fare attenzione al linguaggio delle piccole cose, soprattutto nella liturgia, nelle ordinazioni, e in tutto ciò che le circonda, in modo da alimentare un immaginario corretto circa l’identità del prete e del presbiterio.

2. Introdurre all’umanità del presbiterio

Il disagio dei sacerdoti è evidente e diffuso, ovviamente correlato anche con un più vasto disagio sociale. La fotografia del “presbiterio Italia” registra la diminuzione numerica del clero (specie al centro-nord), un crescente invecchiamento (soprattutto al centro), la presenza di sempre più preti stranieri, il divario tra generazioni di sacerdoti abituate a permanere a lungo nella stessa realtà e altri, i più giovani, costretti a frequente ricambio e mobilità. E, ovviamente, un diffuso stress da iperattività e senso di inadeguatezza.
Scavando dietro simili rilevazioni sociali, notiamo che il prete – come tutti – è chiamato alla fatica di diventare autenticamente uomo, maturo, fecondo. Soprattutto la solitudine affatica la vita e il ministero di tanti sacerdoti, non tanto come un disagio di natura psicologica, quanto come «un reale bisogno di comunità, cioè di un’esperienza di vita in comune con altri sacerdoti per condividere scelte pastorali, per spartire responsabilità e sostenersi spiritualmente a vicenda»7.Perché la personalità umana del sacerdote sia «ponte e non ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù» (PDV 43), non spaventino ma attraggano le qualità umane acquisibili nella vita vissuta tutta come formazione. Per Giovanni Paolo II «di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri», l’essere cioè «affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore, prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente e di suscitare in tutti rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare».
In termini ancora più basilari, Mons. Monari ha indicato alcuni compiti di formazione permanente8 che bene possono ispirare anche la formazione di base:

  • essere aperti alla realtà, disposti a conoscerla e ad accettarla per quello che è e non secondo facili pregiudizi;
  • imparare a conoscere, riconoscere e gestire sentimenti ed emozioni, per crescere nell’empatia piuttosto che nel narcisismo;
  • imparare ad accostare tutte le persone, ad ascoltare e parlare, dialogare e confrontarsi con tutti;
  • riuscire anche a stare soli con se stessi, nel silenzio, senza isolarsi;
  • confrontarsi apertamente e liberamente con la dominante concezione consumistica ed individualistica della vita, incompatibile con l’oblatività insita nella vocazione del prete;
  • non censurare l’esperienza del limite e sapersi affidare a maestri di umanità e guide autentiche.

Non si tratta soltanto di un’impresa ascetica individuale affidata alla pur necessaria regola di vita, quanto dell’alfabeto proprio di ogni forma di vita ecclesiale, tra cui debbono spiccare l’amicizia e lo scambio fraterno con gli altri presbiteri. La vita comunitaria in seminario è, perciò, chiamata in causa, come fase distinta ma propedeutica alla successiva vita nel presbiterio, necessaria per generare convinzioni, imparare metodi, purificare aspettative, acquisire atteggiamenti. FP 74 sottolinea, oltre alla centralità dell’Eucaristia e della vita liturgica, «gli incontri comunitari di formazione, condivisione, programmazione e verifica, la trama delle relazioni interpersonali improntate alla carità e alla verità, una comunicazione autentica, l’attenzione a chi è nel bisogno, il dialogo educativo e l’obbedienza rispettosa, attiva e responsabile verso gli educatori, la capacità di affrontare i conflitti con maturità, la correzione fraterna fatta con delicatezza e sincerità, la qualità evangelica della vita in comune, il senso di responsabilità reciproca e l’umile impegno nel servizio… in particolare il clima che vi si respira… familiare, laborioso e propositivo». Ce n’è in abbondanza per rivedere poi “che fine fanno” queste buone pratiche nel ben diverso contesto quotidiano della vita nel presbiterio.
Il benessere profondo dei sacerdoti dipende in gran parte dall’integrazione cordiale di queste opportunità di crescita umana, o piuttosto dal degradare silenziosamente verso forme di chiusura, acidità, depressione, cinismo. Anche attraverso il crogiuolo pasquale dei momenti difficili, ci si può sperimentare capaci di rimettersi in cordata, di cooperare e non solo di competere, arricchiti e non misurati dalle diversità. Questi sono laboratori di formazione permanente9 che non possono essere ulteriormente rinviati o evitati. Nelle diocesi che hanno investito su una formazione continua del clero più interdisciplinare, relazionale e narrativa, preparando figure idonee per l’ascolto e l’accompagnamento, i guadagni possono essere già registrati10.
Ovviamente, non va taciuta l’esigenza di una relazione vitale e non formale con il proprio Vescovo, definita da alcuni come «abitare, conversare col Vescovo», per imparare da lui e con lui a «stare e dimorare nel presbiterio»11, faccia a faccia con i volti e le storie che ne fanno un dato non solo teologico. L’esperienza suggerisce però un’avvertenza, soprattutto per le piccole diocesi e a fronte del calo delle vocazioni: accompagnare alla giusta distanza, nel rispetto del ruolo dei formatori, per non “coccolare” e così pregiudicare un successivo e maturo rapporto adulto tra il Vescovo e i suoi preti.
La storia del clero in Italia è anche la storia dei suoi seminari e del diverso impatto che man mano riuscivano a preparare con una società in cambiamento e una Chiesa in cammino12. A maggior ragione oggi, in un tempo in cui il mondo entra in ogni spazio-tempo dei giovani e raggiunge in ogni istante mente e cuore anche dei candidati al sacerdozio, diventare preti significa imparare le “connessioni” prioritarie, sperimentandone costi e benefici. Mettersi in rete con Cristo, attraverso i concreti volti di Chiesa che contribuiranno giorno dopo giorno ad intessere la trama del Regno. Essere, in maniera antica e sempre nuova, esperti di umanità, non a titolo privato, ma per il comune accesso al tesoro del Vangelo.

3. Appassionare al DISCEPOLATO nel presbiterio
La carità pastorale è chiaramente la categoria chiave della spiritualità e della vita del presbitero, ma anche il principale punto di coagulo di ogni presbiterio, il motivo più profondo dell’impegnativa comunione tra ministri ordinati appartenenti alla medesima Chiesa particolare. PDV 21-23 ne parla ampiamente, come frutto della consacrazione all’essere segno di Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa. È dono dello Spirito, e anche compito cui dedicare la vita, nella concretezza dei tratti che risplendono nel Pastore bello del Nuovo Testamento, fino al «totale dono di sé alla Chiesa» (PDV 23) universale e particolare. Alimentata all’Eucaristia, questa realtà si attua nel vincolo della comunione al Vescovo e col presbiterio (PO 14). Opportunamente, la Ratio del 2006 rileva che la carità pastorale accomuna alla base le diverse forme di ministero che i presbiteri possono svolgere: per doni naturali e soprannaturali diversi, per i diversi volti e situazioni delle Chiese locali, per le multiformi situazioni pastorali (FP 10).
Formare in questa prospettiva significa molte cose, a noi ben note:

  • la profonda saldatura esistenziale tra formazione umana e formazione spirituale, tra l’essere e il fare (PDV 45), tra l’identità e l’esperienza, tra configurazione a Cristo e appartenenza alla Chiesa: polarità mai del tutto correlate nella nostra vita;
  • la relazione vitale con Cristo nella sfumatura dell’amicizia, nell’impegno della continua ricerca, nell’avventura della fede attinta all’ascolto della Parola e alla grazia dei sacramenti (PDV 46-48): sempre «chiamati per stare con Lui» (Mc 3,14);
  • la maturazione affettiva fino agli orizzonti della carità, del dono di sé, del celibato per il Regno (PDV 49-50). «Al discepolato – precisa Monari – vanno collegate strettamente le scelte di povertà e di verginità come modi concreti in cui il discepolo vive e afferma ”l’unicità” di Gesù»13;
  • il valore specifico dell’obbedienza, caratterizzata in PDV 28 come apostolica, comunitaria (tesa all’unità del presbiterio) e pastorale.

Costa aggiunge che «l’ubbidienza sacerdotale sarà di fatto tanto più facilitata, quanto più l’esercizio del governo si attuerà in maniera spirituale»14, ossia fatto di costante discernimento interiore ed esterno, di vigilanza appassionata e feconda. Un sacerdozio che non separa, ma piuttosto integra nella comunità: questa è la carità pastorale, che va dall’annuncio alla celebrazione, dalla promozione umana alla condivisione. Alla vita del presbitero è data l’opportunità di realizzarsi pienamente come discepolo di Cristo, esercitando la presidenza come pro-esistenza, come “uomo della comunione”, dedito alla faticosa costruzione del tessuto connettivo della comunità cristiana.
Per tradurre tutto ciò in concrete indicazioni per la formazione iniziale, l’esperienza di presbiterio suggerisce di:

  • mostrare ai seminaristi che la vera formazione è quella permanente, nella vita e nel ministero15, e che la formazione iniziale deve portare al gusto del discepolato e della conversione costanti: non a caso Giovanni Paolo II parlava di vocazione «al e nel sacerdozio» (PDV 70);
  • educare alla centralità della liturgia come fonte e culmine del culto spirituale che si irradia nelle diverse dimensioni della vita e della pastorale, tra sistole e diastole dell’azione e della contemplazione, del percorso individuale e dell’esperienza comunitaria;
  • conoscere e attingere al patrimonio spirituale di ogni Chiesa diocesana, come luogo di comunione delle diverse specificità, di ieri e di oggi, sapendo risalire dalle tradizioni religiose alla trasmissione della fede;
  • vivere concretamente tempi di condivisione con la vita spirituale dei presbiteri, non solo nei momenti di maggiore attività, ma anche nella ferialità, nei tempi in cui imparare a recuperare insieme ragioni e stili della missione pastorale.

4. Preparare al MINISTERO nel presbiterio
Abbiamo già citato spesso la chiamata all’unico ministero, alla medesima opera, alla stessa causa (PO 8), sullo sfondo della missione universale della Chiesa e dei suoi ministri. PDV 18 aggiunge che «oggi, in particolare, il prioritario compito pastorale della nuova evangelizzazione, che investe tutto il Popolo di Dio e postula un nuovo ardore, nuovi metodi e una nuova espressione per l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, esige dei sacerdoti radicalmente integralmente immersi nel mistero di Cristo e capaci di realizzare un nuovo stile di vita pastorale, segnato dalla profonda comunione con il Papa, i Vescovi e tra di loro, e da una feconda collaborazione con i fedeli laici, nel rispetto e nella promozione dei diversi ruoli, carismi e ministeri all’interno della comunità ecclesiale».
I successivi documenti della Chiesa italiana in materia di formazione sacerdotale vanno più avanti, nel non facile compito di darci questi “nuovi preti”. Linee comuni dedica l’intero cap. VI all’esigenza di preparare l’approdo alle dirette responsabilità di ministero, attraverso un percorso formativo in cui si riconosca «il disegno di una consegna progressiva di sé alla vita del presbiterio diocesano» (LC 60). In questa luce vanno proposti e vissuti: ammissione tra i candidati all’ordine sacro, ministeri, incardinazione, ordinazioni, affinché la personalità dei futuri presbiteri si plasmi «secondo un modello di vita che è quello della comunione presbiterale». FP 85-86 spiega come la carità pastorale comporti amore alla Chiesa, «sentire Ecclesiam, sentire cum Ecclesia, sentire in Ecclesia», con libertà e gioia oblativa da imparare a ritrovare sempre, assumendo il servizio alla propria Chiesa particolare «come interesse principale e criterio fondamentale della propria vita spirituale e dell’impegno ecclesiale». Si intuisce quanto simili categorie abbiano da essere comprese e gustate anche mediante lo studio della teologia. Il tirocinio pastorale va proposto e vissuto così, come occasione di conoscenza diretta del presbiterio e introduzione graduale alle sue dinamiche. L’acquisizione di abilità pastorali individuali viene dopo la necessità di apprendere lo stile di discernimento con cui i pastori debbono servire e guidare le comunità. Sono più importanti i tempi e i modi in cui condividere la vita dei presbiteri, che non i ruoli da assumere in questo o quel settore di azione. FP 105-106 affida ai parroci una vera corresponsabilità formativa e spiega anche il valore di esperienze pastorali comunitarie, per «esercitarsi nella corresponsabilità pastorale, allenandosi a lavorare insieme, sia nella fase progettuale sia in quella della realizzazione e verifica del progetto».
Soprattutto il VI anno va progettato con cura, proprio intorno al tema generatore del presbiterio, della sua vita e della sua spiritualità, verificando costantemente il maggiore inserimento dei diaconi nella vita pastorale e nella trama di relazioni che la incarnano.
La questione principale resta quella delle forme di discernimento comunitario16 effettivamente praticate oggi nella Chiesa, ai vari livelli. Monari ne parla con franchezza: Vescovo e presbiteri sono una cosa sola e il loro rapporto deve attuarsi non come dipendenza, ma come comunione nella corresponsabilità della cura pastorale nella Chiesa locale. Ciò comporta l’attenzione alle persone e alle relazioni, auspicate forme di vita comune e anche il rinnovamento nel governo della diocesi, appunto nello stile del discernimento comunitario.
La sinodalità diviene stile autentico ed efficace quando si invera anche in organismi e luoghi di ascolto, partecipazione, ideazione e verifica del cammino comune. A cominciare dal Consiglio presbiterale e dai Consigli pastorali (diocesano e parrocchiali).
Prende nuovo valore, così, anche l’esigenza del progetto pastorale, innanzitutto a livello diocesano e via via assunto come metodo di lavoro anche nelle piccole realtà locali. Per camminare insieme nel rispetto dell’esperienza e della sensibilità di tutti e, soprattutto, per riconoscere la volontà di Dio e l’azione del suo Spirito nelle circostanze della storia17. Per fare comunione intorno agli orizzonti del Regno di Dio, in maniera tanto seria e concreta che «neppure l’affetto più istintivo può sostituire l’accoglienza sincera del progetto pastorale»18. Ne guadagna una cultura delle consegne, del rispetto delle comunità, della fiducia pastorale e non dell’individualismo paternalista e possessivo. Non è difficile ramificare questo criterio in tutti gli ambiti concreti dell’azione ecclesiale, immaginando forme di esercizio più condiviso del servizio della Parola, della prassi liturgica e sacramentale, della carità e della vita comunitaria. 

NOTE
1 Cf L. Monari, La vita e il ministero del presbitero per una comunità missionaria in un mondo che cambia: nodi problematici e prospettive, in «Nuovo Giornale», supplemento al n. 22 del 9 giugno 2006.
2 A. Favale, I presbiteri, LDC, Leumann (TO) 1999.16 Giovenale, Sat., IV, 91.
3 G. Frausini, Il presbiterio. Non è bene che il vescovo sia solo, Cittadella, Assisi 2007.
4 Cf PDV 31 e gli approfondimenti sviluppati da M. Costa, Tra identità e formazione. La spiritualità sacerdotale, Edizioni ADP, Roma 1999. L’incardinazione, e non solo la vita religiosa, può dare radicamento al radicalismo cristiano del presbitero: cf D. Coletti, Vivere da prete, Piemme, Casale Monferrato 19952. «L’incardinazione potrebbe dunque e dovrebbe apparire non tanto una differenziazione giuridica, ma un vero e proprio valore “vocazionale”, e come tale qualificante un modo di essere presbiteri nella Chiesa» (G. Moioli, Scritti sul prete, Glossa, Milano 1990, p. 188).
5 CEI, Linee comuni per la vita dei nostri seminari, nota della Commissione episcopale per il clero, 25 aprile 1999, 46, in ECEI/6, 1940.
6 Una piccola diocesi ci offre un esempio concreto di ascolto della prassi come luogo teologico, con due raccolte di storie sacerdotali e anche di lettere dei giovani sul prete: cf P.L. Paloni, I campanili raccontano, Halley, Matelica (MC) 2009; Id. (a cura di), Chi è il prete? Come lo vorresti?, Itaca, Castel Bolognese (RA) 2011.
7 F. Garelli (a cura di), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bologna 2003, p. 302.
8 Cf L. Monari, La vita e il ministero del presbitero per una comunità missionaria in un mondo che cambia: nodi problematici e prospettive, cit.
9 Cf G. Gillini – M.T. Zattoni, Ben-essere per la missione, Queriniana, Brescia 2003.
10 Ricordiamo, ad esempio, l’esperienza milanese dell’Istituto Sacerdotale Maria Immacolata e del Vicariato per la formazione permanente, conoscibile attraverso i numerosi volumi pubblicati dall’Ed. Ancora.
11 Cf I. Schinella, Formare alla spiritualità diocesana i candidati al ministero ordinato, in UAC, La spiritualità diocesana (a cura di E. Castellucci), LDC-Velar, Roma 2004, pp. 142-144.
12 Cf M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’ottocento ad oggi, Laterza, Bari 1997.
13 L. Monari, cit.
14 M. Costa, Tra identità e formazione. La spiritualità sacerdotale, Edizioni ADP, Roma 1999, p. 144.
15 Cf in tal senso l’articolata proposta di A. Cencini, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002; Id., L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005; Id., La verità della vita. Formazione continua della mente credente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007.
16 Istanza richiamata sistematicamente dai Vescovi italiani: cf CEI, Con il dono della carità dentro la storia, 1996, 21, in ECEI/6, 146; CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2001, 50, in ECEI/7, 218-219; CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 2010, 7, in ECEI/8, pp. 3714-3715.
17 Cf C. Valenziano, Vegliando sul gregge, Qiqajon, Magnano (VC) 1994.
18 G. Frausini, Il presbiterio. Non è bene che il vescovo sia solo, Cittadella, Assisi 2007, p. 265.