N.06
Novembre/Dicembre 2014

Crescere in autorevolezza

1. Fate largo ai Millennials
Forse saranno proprio i Millennials, ossia i ragazzi nati fra il 1980 e il 2000 a cambiare il mondo: ottimisti, tecnologici, salutisti, empatici, etici… Cresciuti col trauma dell’11 settembre e della crisi economica, credono importante fare gruppo e lanciare delle start-up creative. Meglio che accontentarsi di fare shopping. Lo stereotipo li vuole narcisisti: non è vero. Hanno il gusto preferito di trovare soluzioni inedite e di instaurare relazioni di “comunitarietà”, poggiando sull’empatia e sulla voglia di condividere con gli altri ciò che forma i propri desideri più profondi. Al di là, forse, di una certa idealizzazione troppo ottimistica della realtà giovanile c’è da chiedersi il perché e cercare le ragioni di questa rinascita giovanile, che, silenziosamente, sta prendendo piede sulla scena del mondo.
Una vera rivoluzione rispetto alla silent generation immediatamente precedente a questa, una generazione oggi appassita, quella dei Baby- boomer e Gen X, quella che oggi sta occupando le postazioni della mezza età; una generazione per lo più ripiegata e ricurva nel narcisismo di un interesse verso se stessi coltivato fino ad estremi tragicomici di certi profili Facebook e di una valanga di selfie. Quella invece che sta venendo alla ribalta ha vissuto grossi traumi: gli attacchi dell’11 settembre e del clima fanatico degli attentati terroristici in varie parti del mondo, dei cataclismi dell’ambiente, del clima impazzito e della grande recessione economica. Episodi vissuti e rivissuti, visti e rivisti in televisione e sugli schermi del personal computer, trama di un mondo drammatico con grandi enigmi di futuro e per di più con riferimenti a persone adulte (genitori, educatori, insegnanti, preti, gestori della cosa pubblica…), che dovrebbero sentirsi responsabili e segnare il cammino dell’umanità e appaiono invece sovente sopraffatti, inadeguati, incoscienti. Per questo i Millennials si dimostrano scettici riguardo alle varie istituzioni tanto politiche, scolastiche, sociali che religiose. 

2. Urge l’antropologia dell’autorevolezza
“Chi è l’uomo?” e “Chi sono io?”. La nostra epoca sta passando alla storia come la stagione del postumanesimo o transumanesimo.
La prospettiva del prossimo Convegno Ecclesiale di Firenze (In Cristo un nuovo umanesimo 2015) è che possa produrre una vera e propria conversione culturale ed esistenziale, tale che possa dare il via ad un vero nuovo umanesimo in grado di superare il fondamentalismo teocentrico di un certo medioevo e l’assolutismo antropocentrico della modernità, che ha prodotto e sta producendo per lo più frantumi di umanità. Il rischio, come per altre assise, è che alla fine risulti come un bell’albero lussureggiante nei vari interventi e nello svolgimento del programma previsto, ma sia senza frutti. Con le derive del postmoderno la persona si è intisichita, mettendo al posto di Dio la propria coscienza robotizzata per mezzo di un semplice software. Bisogna urgentemente rompere il guscio di questa autoreferenzialità impazzita. Si tratta di una sfida grande in particolare per la Chiesa. Essa deve continuare ad essere, ma in maniera più vigorosa che nel passato, esperta di umanità, non tanto o solo attraverso ulteriori documenti, bensì attraverso la sua presenza nel mondo, attraverso la sua vita, il suo agire, la sua testimonianza autorevole.
La generazione dei Millennials che abbiamo appena zoomato si presenta all’appuntamento di una nuova umanità con una riserva di risorse eccezionali, però il suo dramma è che, nell’insieme, vive una perenne insoddisfazione, un senso di inadeguatezza, che parte dalla sfera più intima di se stessi e si allarga a macchia d’olio fino a coinvolgere ogni relazione e ogni esperienza di vita: nella ricerca quotidiana, molto faticosa, di una realizzazione compiuta di tante aspettative più che giuste e di una serenità interiore costantemente inseguita e mai pienamente afferrabile e di risposte convincenti alle proprie domande di senso, che martellano nel loro cuore e nella loro testa in maniera assordante. Un’insoddisfazione che, alla fine, può bruciare l’esistenza e diventare il “male di vivere”. Oppure può trasformarsi in un vero motore di cambiamento. Ma per questo ci vogliono assolutamente guide autorevoli, molto più numerose e molto più preparate che nel passato. È vero, ci sono anche leaders politici o semplici arruffapopoli, che tentano magari di calamitare i giovani, con adesioni entusiaste attraverso il proprio carisma e con proposte di cambiamenti di ricerca dell’estremo, quando addirittura non vanno ad incappare nella violenza. Ma la storia insegna a sufficienza che la strada intrapresa da costoro non va molto lontano e produce per lo più veri disastri. Ci serve un altro tipo di guida: uomini e donne che hanno aperto nuove strade con la testimonianza della loro vita e con il loro impegno intellettuale, spirituale e operativo.
Abbiamo già alcuni riferimenti recenti più che autorevoli, per dire che la pista è questa: Gandhi, Martin Luther King, abbé Pierre, Oscar Romero, madre Teresa, frère Roger, Papa Giovanni, Carlo M. Martini, Giovanni Paolo II… e ora Papa Francesco. Ecco. Servono proprio guide profetiche di questa stoffa.

3. Guide autorevoli, dunque! Ma, come?
Una guida autorevole è la cosa più urgente e necessaria per il futuro dell’umanità. Il punto che ci vogliano delle guide è da sempre, ma oggi è condicio sine qua non che sia autorevole. Diversamente non serve, anzi, intralcia o peggiora la situazione. Tuttavia l’autorevolezza non si improvvisa. Non si ottiene semplicemente perché uno impersona un ruolo all’interno della società: genitore, educatore, prete, suora, docente, responsabile pastorale in vari settori e a vari livelli… Ogni vocazione, in qualsiasi stato di vita, contiene fondamentalmente il compito di essere una guida. Ma è essenziale il credere fino in fondo alla chiamata che si è ricevuta in una determinata vocazione e viverla con tutta la passione possibile. Perché essere una guida autorevole significa essere generativi, dare vita e far prosperare la vita, la nostra e quella di coloro che ci vengono affidati, delineando sempre più chiaramente una direzione di senso, cioè la realizzazione dell’esistenza all’interno di un progetto di vita, qualunque esso sia. Se manca questa impostazione, prevale sia nella propria esistenza che in quella degli altri l’indistinto, che porta nel vortice dell’anonimato, che è una delle derive principali del postumanesimo attuale.
Quale potrebbe essere la scuola di questa guida autorevole? Tenterò di prospettare un percorso pedagogico di alcuni atteggiamenti progressivi da coltivare, che si potrebbe titolare “la via del rafting vocazionale”. Sappiamo che il rafting è uno sport esigente, perché con la propria canoa bisogna districarsi abilmente nelle rapide di un fiume o di un torrente impetuoso, lasciandosi portare dalla corrente, ma insieme governando il movimento e imprimendo una direzione precisa senza farsi travolgere. Questo mi pare paradigmatico per questa “scuola guida” nel fiume della vita e nell’umanità liquida di onde vorticose del mondo contemporaneo. La vita va navigata con saggezza, senza scappare da essa e con tutta la forza possibile, ma in vista di un obiettivo e di una direzione di senso. Ciò è fondamentale per se stessi e per i giovani Millennials.
Ecco, dunque, sette atteggiamenti da coltivare per questo percorso della guida autorevole. 

3.1 Non accontentarsi
Tra noi adulti, bene educati dalla società del “tutto e subito”, fa molta presa l’accontentarsi facilmente del presente, anche se non ci sono prospettive. È una specie di adattamento di compensazione, perché è piuttosto comodo e non crea problemi. Tuttavia questo non è generativo. Serve invece un movimento continuo di sfida e di ricerca che non demorde, a prova di delusione, che persegue sempre un desiderio di vita ulteriore e la disponibilità a un salto di qualità, per dare una forma più chiara e sostanziosa a ciò che si vive personalmente e che vivono i nostri giovani. Nella Pastorale Vocazionale richiede di credere fermamente nella possibilità dei giovani di oggi di potere e dover fare delle scelte vocazionali, anche di speciale consacrazione. Troppi animatori vocazionali ed operatori pastorali hanno di fatto “tirato i remi in barca” e si sono abbassati al rango di rinunciatari, all’infuori di diffondere la pastorale dei lamenti sulla tristezza dei tempi, nella quale sono veri campioni. 

3.2 Essere intraprendenti
Intraprendere è l’atto personale e concreto del dare inizio. È assunzione di responsabilità personale, addossandosene anche i rischi. E richiede immediatamente di attivare la cultura dei mezzi, perché c’è un fine alto da raggiungere, che necessita della valutazione dei mezzi appropriati per raggiungerlo. Richiede al contempo di essere competenti e non solo manovali. Nella Pastorale Vocazionale richiede di darsi da fare nell’ambiente in cui ci si trova, per studiare bene la cultura giovanile presente, in maniera tale da adattare gli interventi giusti. Richiede anche di prepararsi continuamente studiando e riflettendo per questo. 

3.3 Saper valorizzare le risorse
Se abbiamo imparato a smetterla di accodarci ai piagnistei dei profeti di sventura e dei trombettieri della fine del mondo e ci siamo messi sulla linea della intraprendenza, il passo ulteriore è l’allenamento all’occhio vigile e profondo, che sa scorgere i germogli di una nuova umanità, che di fatto sta già spuntando soprattutto nel cuore dei giovani. E così farli evidenziare ed emergere in loro, mettendoli a frutto in tutte le esperienze di autostima e di servizio che la fantasia della carità ci sprona ad attivare. In tal modo si inizierà a sgretolare la scorza dell’insoddisfazione dei giovani. Anzi, scopriremo che i giovani stessi, sentendosi valorizzati, ci aiuteranno a scoprire queste risorse e a metterle a frutto. Nella Pastorale Vocazionale questo è e rimane strategico. 

3.4 Personalizzare
La generatività non può essere mai generica. È ricchezza del nostro essere unico e irripetibile, rifuggendo da ogni forma di standardizzazione. È finito il tempo dell’educazione e della formazione di massa, anche se è ancora assai diffusa. La persona viene sempre prima e dopo; tutto quello che è organizzativo e istituzionale va posto a servizio di essa e non il contrario. Personalizzare significa creare spazio per il riconoscimento di uno stile, di una differenza, di un contributo, che solo la libertà, la capacità di iniziativa e la coscienza personale possono consentire. Quindi la nostra attenzione è chiamata a non sovrastare le persone, annullandole o omologandole in sistemi impersonali, ma a valorizzarle al massimo, partendo dalla loro unicità. I giovani sono particolarmente sensibili a questo e, per tante esperienze negative già subite, sono sempre sospettosi di essere ingabbiati in strutture e istituzioni che li spersonalizzano. Nella Pastorale Vocazionale è sommamente importante far prendere coscienza che la vocazione, qualunque essa sia, non è mai spersonalizzante, ma si tratta della promozione più grande che esiste della propria unicità. 

3.5 Fare alleanza
Essere autorevoli e generativi significa essere contagiosi e questo a un doppio livello. Se viviamo gli atteggiamenti fin qui descritti, faremo l’esperienza che tutto il contesto circostante, soprattutto giovanile, si sta lentamente ma progressivamente coinvolgendo con un dinamismo che arriva a smuovere e a far convergere tante risorse nascoste. In tal modo si crea fiducia, si suscita speranza, si attiva un movimento di vita buona e virtuosa, che diventa calamitante. A un secondo livello si sentirà la necessità di creare una rete di cooperazione con tutte le forze e i settori pastorali presenti sul territorio, dando la testimonianza di una vera Chiesa comunionale nel coltivare l’unica vigna del Signore. E questo convincerà e rafforzerà ancora di più il primo livello. Nella Pastorale Vocazionale tutto questo si chiama impiantare sul serio cultura vocazionale. 

3.6 Avere resilienza
Essere autorevoli e generativi significa anche avere un buona dose di flessibilità e di resistenza. Imparare a non abbattersi facilmente e a saper sopportare fatica e solitudine, tirando dritto e affrontando le pressioni esterne senza crollare. Tutto questo perché si hanno in sé radici profonde che aiutano a non essere trascinati via alla prima tempesta e si è capaci di un’attesa serena di un futuro che ancora non c’è, ma arriverà. Non può vivere questo chi si gongola per un facile successo di un momento o cerca anche nella pastorale la soddisfazione immediata o l’uscita a effetto. Per questo non ci si può sottrarre al sacrificio, che non è solo rinuncia, ma soprattutto capacità di “rendere sacro” ciò in cui si crede e si sta facendo, non in nome di se stessi, bensì come operai della vigna del Signore. Quindi non ci si può impegnare nella Pastorale Vocazionale di questa stagione storica senza un sufficiente sviluppo di questo atteggiamento. 

3.7 Essere personalità spirituali forti
Tutti i punti precedenti devono alla fine convergere in questo, che li riassume e li rilancia alla grande. Per una buona Pastorale Vocazionale occorre essere personalità spirituali forti, che sappiano vivere e presentare la pedagogia del modello, anche perché i luoghi pedagogici tradizionali (gruppo, famiglia, comunità, parrocchia, scuola, oratorio…) oggi sono piuttosto deboli. Di fronte alla diffusa orfananza delle nuove generazioni il problema educativo generale e particolare – anche per quanto riguarda la vocazione – si fa estremamente importante. Occorre soprattutto contagiare con la propria testimonianza di fede e di intenso rapporto con Cristo, che favorisce la scoperta e la maturazione delle scelte vocazionali, perché è solo attraverso il contatto diretto con le persone che si apprende che cosa è una vera vocazione, in particolare quella di speciale consacrazione. I giovani, guardando a noi, devono convincersi senza tante parole che per essere felici non bisogna conformarsi con qualcosa che sia meno della verità e dell’amore e con qualcuno che sia meno di Cristo. Così aveva rilanciato il Papa Benedetto nella GMG di Madrid, durante quella fantastica serata di veglia con i giovani. Ma per questo ci vuole la fede, la quale non si oppone ai grandi ideali dell’esistenza, ma li eleva e li perfeziona. Fede nel Dio vivente, un Dio pienamente coinvolto nella carne umana fino al punto di assumerla per entrare nella nostra storia; una fede dunque molto esperienziale, fatta di conoscenza viva, attiva e penetrante, che si costruisce a poco a poco, facendo strada con Lui. Un radicamento in Dio che è attaccamento, legame solido, affidamento, fondamento sicuro. Entrando così negli stessi sentimenti del Signore Gesù, che fa emergere la fede autentica dai detriti di tutti i surrogati di essa, per poter vivere in intima relazione con Lui1. 

NOTE
1 Riferimenti biblici: S. Tenenhaus, La generazione gentile, in «La Repubblica» (25 agosto 2014), pp. 24s.; M. Magatti – C. Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 2014.