N.06
Novembre/Dicembre 2014

Noi… compositori credibili e creativi

«Ogni vocazione, pur nella pluralità delle strade, richiede sempre un esodo da se stessi per centrare la propria esistenza su Cristo e sul suo Vangelo»1. È questa l’espressione che Papa Francesco usa nel richiamare un nuovo slancio e una rinnovata consapevolezza all’impegno vocazionale che la Chiesa è chiamata ad assumere. Dunque, non una pastorale che nasca dall’esterno della propria esperienza di fede, ma dal di dentro. Si tratta di uno stile che la Chiesa è chiamata a fare proprio nella prospettiva di un rinnovamento che la renda credibile e creativa nel farsi portatrice della ricchezza del dono ricevuto.
Talora avvertiamo il rischio di confondere la “creatività” con la stranezza o la estemporaneità di proposte, se non addirittura con forme di ingegneria pastorale che, mentre stordiscono chi le incontra, poco hanno a che fare con la logica semplice del Vangelo.
Niente di tutto questo. Non si tratta di inventare cose nuove, ma di “apprendere l’arte del compositore”, di colui che con pazienza sa intessere ritmi nuovi. Viene spontaneo pensare che la creatività abbia a che fare con il dinamismo proprio dell’agire di Dio, quello di chiamare alla vita e in esso di dare forma all’esistenza perché corrisponda all’originale della sua vocazione.
Proprio in questo servizio, che trasforma la propria vita rendendola spazio accogliente della vocazione prima dell’uomo, quella di essere “figlio” di un Dio che è Padre, individuiamo tre di queste relazioni fondamentali nelle quali la proposta vocazionale si fa appello a una “composizione” armonica dell’essere discepoli: si tratta della relazione con il proprio vissuto umano, con Gesù Cristo, e con il servizio di annuncio nella e con la comunità che da questa esperienza di incontro scaturisce. Si tratta di tre elementi in cui è possibile accompagnare l’esperienza umana e credente di ogni persona, affinché si colga e maturi nella identità che le appartiene.

1. Compositori di un armonico vissuto umano
Una prima e forte modalità di “comporre” una corretta pastorale vocazionale è segnalata in una sana formazione umana, che sta alla base dell’intera formazione della persona. La cura per l’autenticità della propria umanità è riconosciuta come fondamentale in rapporto ad ogni risposta al cammino di crescita e di riuscita della propria esistenza. Si avverte come indispensabile che la persona plasmi la propria umanità, in modo da renderla sempre più capace di lasciar trasparire l’incontro con Cristo. È necessario coltivare una serie di qualità umane utili alla costituzione di personalità equilibrate, forti e libere, capaci di portare il peso delle responsabilità, prime fra tutte la capacità relazionale e quella di lavorare insieme. Alcune attenzioni alla propria persona e al proprio esprimersi potrebbero garantire un sentirsi al posto giusto nella vita, star bene con se stessi e, per conseguenza, star bene tra la gente.
Ci si accorge che qualunque sia l’ambito di vita e di servizio a cui una persona è chiamata, questo non si può esaurire nei compiti istituzionali. Le è richiesta una cura singolare per la propria umanità quale “luogo” dell’incontro con la Parola che si è fatta “storia”, carne: la cura della trasparenza della propria vita e del proprio agire per Cristo e per il suo Vangelo.

2. Compositori di una vita qualificata dalla relazione con Gesù Cristo e con la sua Parola
Se è fondamentale prendersi cura e accompagnare un percorso di “umanità”, per attuare uno spessore autentico della propria vita, è proprio di una pastorale vocazionale anche quello di educare a quella umanità bella e buona che scaturisce dall’incontro con il Signore Gesù e dalla relazione con la sua persona e con la sua Parola. Si tratta di intendere il proprio cammino di vita contrassegnato dallo stile di Gesù stesso, così intenso e radicale da diventare punto di riferimento per l’obbedienza di tutti i credenti in lui2. È proprio in questa esperienza di fede che si fonda e si esprime la piena credibilità e creatività dell’azione educativa vocazionale. 

2.1 I volti della credibilità
È lo stesso Gesù che consegna gli atteggiamenti del vero discepolato, particolarmente nel momento in cui, istruendo i suoi discepoli sul significato della parabola del seminatore ed esplicitando i destinatari del «seme caduto sulla terra buona», afferma che questi «sono coloro che dopo aver ascoltato la Parola con cuore bello e buono, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15): dunque, sono coloro che vivono la libertà del cuore, la libertà da quelle realtà che impediscono di pulsare all’interiorità del cuore, di rendersi disponibili alla grazia e alle radicali esigenze che la parola di Dio propone.
– Il primo di questi spazi in cui dare credibilità, e che in parte abbiamo richiamato precedentemente, è rinvenibile nell’avere un «cuore bello e buono» (Lc 8,15a), una espressione che indica al contempo un cuore libero, un cuore disponibile, aperto, ma anche una umanità ricca e armoniosa: sono i presupposti perché la parola di Dio possa veramente attecchire. La capacità di sperimentare il positivo di tutti gli aspetti della nostra umanità permette alla parola di Dio di arricchirsi di “nuovi” significati e di “nuove” prospettive. Quanto più siamo ricchi dal punto di vista umano, sappiamo cioè che cosa significa essere umani nell’amore, nell’amicizia, nella sofferenza, nelle realtà che sono autenticamente umane, tanto più la parola di Dio risuona, mostra tutti i riflessi della sua ricchezza, trova un cuore non solo disponibile, ma anche capace di far rifrangere la Parola su tutti gli aspetti della vita, della nostra umanità. Questa è la condizione preliminare perché la Parola stessa possa essere realmente accolta.
Così il credente non deve coltivare solo un cuore disponibile, ma anche tutti gli aspetti della ricchezza della propria umanità. A questa condizione la Parola può essere custodita, trattenuta nel cuore. Non basta ascoltare la Parola, apprezzarla, intuirne la grazia e le esigenze, bisogna saperla trattenere nel cuore, perché la parola di Dio accolta e interiorizzata diventi il cuore, il centro dei nostri giudizi, dei nostri discernimenti, dei nostri orientamenti.
Perché la parola di Dio diventi il permanente criterio di giudizio sulla vita, sulle situazioni della storia di oggi, occorre trattenerla nel cuore; in questo modo la Parola diventa luogo di discernimento profetico della realtà.
– Solo così la Parola comincia a portare frutto, comincia a immettere nella nostra vita la perseveranza (Lc 8,15b), cioè il rimanere affidati e legati a questa Parola, al discernimento nuovo e profetico che essa produce continuamente nella nostra vita, anche quando le situazioni sono avverse. La perseveranza è proprio la capacità di restare fedeli nei momenti della prova. La prova sono le fatiche quotidiane, sono gli insuccessi, l’apparente infecondità in alcuni momenti, sono la fatica di restare dentro un mondo complesso e difficile. Queste sono le fatiche in cui occorre essere perseveranti, in cui occorre non perdere la fiducia nella forza e nella grazia della Parola. In questa perseveranza, lentamente, la parola di Dio produce frutto e trasforma la vita del credente, rendendola pienamente espressiva della sua identità filiale.
La testimonianza è la capacità di lasciar trasparire e quindi di rendere visibile nella propria vita la Parola accolta, trattenuta, conservata con fiducia anche nei momenti della prova. La testimonianza non è qualcosa di straordinario, è il presentarsi in pubblico, all’esterno, attraverso lo stile della nostra persona e della nostra azione, in modo tale da rendere visibile che la Parola è stata accolta e interiorizzata (Lc 8,16). Tutto ciò che una persona fa conta meno rispetto allo stile di vita che manifesta con la sua persona, con i suoi atteggiamenti, con l’apertura vitale. C’è uno stile di vita che rende credibile tutto il resto dell’azione. Questo stile di vita è la testimonianza. L’evangelista Luca, continuando proprio questo testo che riguarda la spiegazione della parabola del seminatore, riporta l’immagine della lampada che non va coperta, ma deve dare luce, affinché coloro che entrano nella casa vedano la luce. Si tratta, cioè, della Parola che, trasformando la vita, dà origine alla testimonianza. È quella luce che non può restare nascosta e che permette a ognuno che entra nella casa, che viene in contatto con la vita del discepolo, di poter vedere. È questo stile testimoniale che rende efficace tutta la vita del cristiano, che la rende credibile come esistenza illuminata dalla Parola. Il testimone è colui che dice delle cose e le attesta perché in queste cose è implicata la sua esistenza, perché sulla Parola ha giocato la sua vita. 

2.2 I luoghi della creatività
Gli Atti degli Apostoli ci permettono di comprendere come il servizio all’accoglienza della Parola e delle forme di vita che da questa scaturiscono, può essere offerto in forme molteplici assumendo la creatività che è propria dell’azione creatrice dello Spirito. Significativo è il momento in cui l’apostolo Paolo nel suo discorso agli anziani di Efeso, paragona il suo servizio di annuncio a una «corsa» (At 20,24). È nella natura della parola di Dio correre, così come corre chi ha incontrato la Parola e ne è stato afferrato, come un atleta nello stadio (1Cor 9,24), senza distrazioni e appesantimenti.
Leggerezza e concentrazione sono i presupposti affinché anche oggi la Parola corra e non sia appesantita: la sorreggono e la snelliscono anche le forme oggi istituzionalizzate dell’annuncio3, dell’omelia o della catechesi e molte modalità di servizio della Parola, che mantengono tutta la loro attualità e che il libro degli Atti così segnala:
– il Kerigma. Sappiamo come il primo annuncio costituisca oggi uno dei problemi fondamentali della pastorale. Poter riportare chi si è allontanato, chi è “sulla soglia”, chi non ha ancora accostato l’evento cristiano, saperlo portare al cuore, all’essenziale dell’esperienza cristiana non è certo un compito facile. Oggi si parla di primo annuncio, di ricomincianti. È importante cogliere che cosa è essenziale e farlo soprattutto percepire come rilevante, come decisivo per l’esistenza.
– L’insegnamento, quello che oggi definiremmo in modo più generale “catechesi”. È l’impegno e la responsabilità a tracciare dei percorsi, degli itinerari che siano in grado di aiutare le persone a compiere un approfondimento progressivo del mistero di Cristo e delle esigenze di vita nuova che esso comporta. Questo richiede da parte dell’operatore pastorale una grande saggezza, perché egli deve saper commisurare il progressivo approfondimento del mistero di Cristo, delle esigenze di vita nuove che esso pone, alle situazioni culturali e religiose dei suoi destinatari, differenziando le proprie proposte di cammino.
– L’esortazione, cioè la capacità di stimolare la fede e la pratica della vita cristiana in coloro che lentamente rischiano di allontanarsi da essa. Saper toccare le corde giuste per riattivare l’interesse e anche mostrare la bellezza della vita cristiana a coloro che sono in difficoltà. Paolo, rivolgendosi agli anziani di Efeso, parla anche del suo servizio al Signore «nelle lacrime» (At 20,19.31). Le “lacrime” manifestano la passione spirituale di Paolo per coloro che si stanno allontanando. È nei dialoghi personali (At 20,31: «ciascuno di voi») che occorre toccare le corde giuste per chi ha perso il senso della fede, in modo da riattivare l’interesse, mostrare la preziosità dell’incontro con la Parola che salva.
– Ancora, negli Atti degli Apostoli, si parla di rafforzare, confermare nella fede. Si tratta di saper dire la parola di Dio adeguata nei momenti di difficoltà, di prova, di dolore, di oscurità nella vita delle persone. Saper dire la Parola che mantiene viva la fede anche quando la fede è messa alla prova, quando sembra essere esposta alla smentita dei fatti e alle esperienze negative e fallimentari. Un cristiano deve essere capace di rendersi presente in queste situazioni, trovando la parola adeguata, che aiuta la fede a mantenersi salda.
– La narrazione, ovvero la capacità di narrare la vita, interpretandola in chiave di storia della salvezza. Essa si esprime nel saper guardare la storia leggendovi l’agire salvifico di Dio. Di fronte alla vita che le persone raccontano, saperla rinarrare, raccontare nuovamente in chiave storico-salvifica, cioè facendo percepire come dentro quella trama di situazioni, di esperienze, di percorsi, l’azione di Dio non è assente e gli appelli di Dio non mancano. È un’operazione delicata, ma quando si riesce a rinarrare, a reinterpretare le esperienze vissute, mostrando che non è assente la grazia di Dio, le persone tornano a riorientarsi, riscoprono i percorsi piccoli, grandi, nuovi che la parola di Dio è sempre in grado di offrire alla loro vita. In stretto rapporto con questi ambiti di servizio e di accompagnamento, emerge anche una dimensione comunitaria che va coltivata e che implica:
– l’ascolto della parola di Dio non solo personalmente, ma anche comunitariamente. E sulla base della parola di Dio ascoltata insieme nascerà una qualità di relazioni nuove tra le persone, una comunità di credenti, la famiglia di Gesù (Lc 8,21: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»). Proprio nell’ascolto comunitario la Parola cresce, si arricchisce di senso (At 12,24: «la parola di Dio cresceva») e amplifica la sua ricchezza di significati. E nel contempo, mentre insieme si ascolta e si scambiano significati della Parola, si alimentano relazioni qualitativamente nuove.
– Il discernimento comunitario: si tratta di un ascolto della Parola che diventa anche un discernimento sulla realtà. La Parola, riconosciuta come dono, appello e progetto per la vita dei credenti, è riconosciuta come capace di interpretare correttamente e aiutare a evolvere e crescere in pienezza e autenticità la loro stessa presenza e il loro impegno nella storia. Sullo sfondo di un orizzonte nuovo, di un giudizio nuovo creati dall’ascolto condiviso della Parola, la comunità traccia la sua adesione libera e responsabile alla storia, riconoscendola e vivendola quale luogo di salvezza di Dio, luogo di annuncio e di purificazione.
– Il suscitare ministerialità, cioè la disponibilità a far sì che la Parola susciti in altre persone il gusto non solo di accogliere, ma anche di mettersi al servizio di questa Parola nelle diverse forme ministeriali di cui una comunità ha bisogno per la sua crescita.

3. Compositori della comunione nella comunità
Un aspetto importante per il servizio proprio della espressione matura di un cammino vocazionale rimane certamente lo stile “sinodale”, sinfonico, familiare, di un modo di stare nella comunità dei credenti in Cristo e, più ampiamente, nella comunità delle donne e degli uomini del proprio tempo, riconoscendoci parte dell’unico abbraccio di un Dio che è Padre di tutti.
È chiaro che non si può essere servi della comunione nella comunità cristiana senza esercitarsi continuamente in quest’arte della sororità e della fraternità all’interno della propria comunità, in quello stile con il quale Sant’Ignazio di Antiochia richiamava il ministero dei presbiteri: «Armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra»4. Soprattutto oggi, acquisita la consapevolezza dell’ecclesiologia di comunione, non si può vivere la Chiesa senza intensificare, rinnovare, rendere trasparente e visibile la comunione tra le persone. E questo va manifestato soprattutto tramite una logica di sinodalità, camminando insieme (syn-odos) nella storia, verso il Regno. Vivere la sinodalità: questa è la sfida già richiamata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte quando afferma che la Chiesa deve risplendere come «casa e scuola di comunione» (NMI 43). Non è possibile comprendersi nel servizio della comunità se i nostri ruoli non assumono lo stile e la modalità della comunione ecclesiale, di quel «gareggiare nello stimarci a vicenda» che l’apostolo richiama.
L’esigenza evangelica più marcata per l’attuazione di questo stile è la capacità di essere persone di relazione; la stessa affermazione del valore della corresponsabilità non può trovare sbocco se non si coltiva in questa attitudine. Di qui una spiritualità e un’etica del dialogo e della comunicazione che comportano stima dell’altro e fiducia in lui, rispetto del suo percorso e del suo punto di vista, disponibilità all’ascolto, capacità di confronto, sincerità nel dire, apprezzamento e rispetto della diversità senza contrapposizione o esclusione.
Non si tratta, infatti, soltanto di vivere in comunione a livello di amicizia e di rispetto reciproco, ma anche, e soprattutto, di lavorare in comunione. Questo comporta altresì un’attenzione e un’apertura all’ambiente in cui operiamo, assumendo la storia, le vicende, i desideri e le ansietà nella fede e nella speranza, interpretandoli e orientandoli.

4. In prospettiva: l’autorevolezza dell’autentico
Perché tutto ciò che è stato detto sopra possa realizzarsi è indispensabile che l’operatore pastorale, chiunque esso sia, si coltivi attraverso alcune condizioni che possano dare credibilità, creatività e affidabilità al suo essere guida sul cammino della fede: la pazienza e la solidarietà nell’accompagnamento, il rispetto per la libertà e per i tempi di maturazione, il reale coinvolgimento con gli interrogativi dell’altro, la competenza testimoniale che permette di annunciare ciò che è anche frutto di esperienza, l’intelligenza e la preparazione per ridire la fede dentro un mutato contesto culturale e in rapporto alla storia e al vissuto delle persone. Verosimilmente è un insieme di qualità umane e relazionali, di maturità di fede e di adeguata formazione a ripensare la fede che dischiudono il cuore di chi cerca di accettarci come compagni di viaggio e di attribuirci la funzione di guide nel percorso della riscoperta della fede.
Ciò va nella linea di una disponibilità alla logica dell’“ incarnazione”, all’ascolto e a lasciarsi interpellare e modificare, con il discernimento che viene dall’ascolto della vita e della Parola.
Occorre aiutarci insieme a superare la mentalità funzionale e istituzionale del “ruolo” che le circostanze quotidiane e, talora, anche le attese della gente sembrano imporci, per arrivare invece ad una attenzione più vera alle persone, ritrovando il linguaggio più corretto per parlare alla gente.
Avere cura per la propria autenticità è la premessa indispensabile per ogni servizio alla maturità della fede, così come per una corretta testimonianza. Sappiamo bene per esperienza che oggi non si fa più affidamento sulla funzione, ma sulla persona. L’autorevolezza, infatti, nasce da una persona autentica. Soprattutto la qualità della testimonianza tocca direttamente la qualità delle relazioni. L’efficacia della Parola è indubbiamente più alta rispetto all’efficacia delle nostre parole, ma passa necessariamente attraverso la qualità delle nostre parole, del nostro vissuto. «La fede è da vivere oggi come capacità di consegnare alla potenza del Vangelo la propria vita»5.
Sta alla cura, alla sensibilità e alla capacità dell’evangelizzatore cogliere, al di là delle forme, l’orientamento profondo che la persona in ricerca tenta di manifestare. Forse la prima finezza di un educatore, come di un testimone, si rivela proprio nel cogliere i desideri che le persone esprimono con le modalità più diverse, nel saper leggere i vissuti narrati dove si nasconde la domanda di senso, nel saper apprezzare la radicalità dell’impegno per valori considerati assoluti: verosimilmente è dietro queste realtà che si può intravedere un cuore aperto alla ricerca e al bisogno di salvezza.
Rendere visibile ed efficace per gli uomini di oggi lo stile della carità di Cristo, attraverso un’identificazione sempre più profonda con il suo dono incondizionato di sé per amore del Padre e dei fratelli, è veramente il profilo di una vita matura e caratterizzata dall’incontro con il Vangelo. 

NOTE
1 Messaggio del Santo Padre per la 51a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, in «L’Osservatore Romano», 11 maggio 2014.
2 Su questo tema rimando a un mio contributo: La parola di Dio. Contenuto e forma della trasmissione della fede, in E. Falavegna e D. Vivian (a cura di), La trasmissione della fede oggi. Iniziare alla vita cristiana, dono e compito, (= Sophia/Práxis 6), Messaggero – Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2011, pp. 37-59.
3 Una delle forme più espressive e incisive rimane certamente la lectio divina, ovvero quella forma di lettura della Scrittura che si fa ascolto di una parola attuale e contemplazione di una presenza. Tale significatività è stata più volte indicata in modo autorevole. Alcune citazioni esemplificative possono dare ragione a tale impegno: «Come è possibile ascoltare la voce di Dio? La risposta è semplice: ascoltiamo Dio ascoltando la sua parola dataci nella Sacra Scrittura. Sono convinto che la lectio divina sia l’elemento fondamentale nella formazione del senso della fede» (Benedetto XVI, Discorso al consiglio delle Conferenze episcopali europee, 2005). «È necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» (Giovanni Paolo II, Novo millennio Ineunte 39, in EV 20/77).
4 Ignazio di Antiochia, Agli efesini, 4,1.
5 C.M. Martini, Collaboratori nel ministero, Centro Ambrosiano, Milano 1997, p. 18.