N.02
Marzo/Aprile 2015

VIA PULCHRITUDINIS e cammini vocazionali

Vorrei dedicare questa riflessione sulla bellezza a Papa Francesco, questo grande interprete della bellezza e autore ogni giorno di gesti belli, che ci ripropongono la bellezza dell’evangelo; gesti apprezzati da tutti o quasi tutti. Rivolgo allora a nome di tutti voi un pensiero affettuoso a Papa Francesco, in questo momento in cui la sua persona è oggetto di attacchi dentro e fuori della Chiesa.

È davvero molto bello che l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni abbia organizzato questo Convegno vocazionale sul tema della Bellezza. È un invito impegnativo e rivolto non indiscriminatamente a tutti, ma solo ad alcune persone, a quei chiamati che si sono sentiti “toccati dalla bellezza”. Così toccati da voler offrire ad altri la medesima possibilità. Ed è bello, ovviamente, che in tanti abbiano risposto a questo invito, nella speranza di fare una esperienza di bellezza in questi giorni.
Bello sarebbe ancor più che a parlare qui, al posto mio, vi fosse una persona davvero bella, che sa parlare della bellezza perché lo è la sua vita, un mistico o un contemplativo o un artista. Invece vi dovrete accontentare di molto meno, di un semplice manovale. Un manovale che, comunque, apprezza la bellezza, ne sente il fascino, e che cerca soprattutto d’imparare a leggerla e a scriverla, se ci riesce.
Tento di approfondire il tema che mi è stato assegnato suddividendolo in tre parti. Nella prima vorrei riflettere sul significato della bellezza intesa, più che in se stessa, come via, via pulchritudinis, appunto, che conduce o dovrebbe condurre in una certa direzione.
Mentre nella seconda vorrei affrontare la questione più pedagogica, ma ancora generica, della pedagogia della bellezza; infine, nella terza, della pedagogia specifica vocazionale della bellezza.

1. “Via pulchritudinis”
Nessuno pensi che interrogarsi sulla bellezza sia questione solo teorica, inutilmente astratta, o che poco abbia a che vedere con la dinamica vocazionale. Oppure pensare che parlare di bellezza voglia dire entrare inevitabilmente in un ambito molto soggettivo, in cui a ognuno è lecito esprimere gusti molto singolari, e a volte addirittura eccentrici, senza alcun codice di riferimento. Oppure identificare banalmente bellezza con gradevolezza o piacevolezza. Non è così assolutamente.
Quando si parla di bellezza si deve tener conto di una certa, almeno apparente, contraddizione: la sensazione della bellezza, di solito, è immediata e irriflessa, ma il concetto è ricco e complesso, mentre ciò che dà origine a quella sensazione è di vario genere.
Tale sensazione è semplice e assieme complessa; la può percepire anche un bambino, ma solo il contemplativo la riconosce ovunque e la gusta pienamente, e nessuno in ogni caso la può definire compiutamente.
Accontentiamoci di dire, dal punto di vista cristiano, che il bello è esperienza, più che concetto, come una eco sovrabbondante del mistero, o consapevolezza di una Presenza. Il bello rappresenta la trama eccedente dell’esperienza umana, come una dimensione ulteriore, in più, eppure strettamente legata al vivere d’ogni giorno, eco o nostalgia felice del nostro stesso essere al mondo1.

1.1 Grammatica della bellezza
In ogni caso, la bellezza ha una sua fisionomia, le sue leggi, una sorta di grammatica, il suo modo di essere e di presentarsi, come caratteristiche precise oggettive. Vediamone alcune.

1.2 Legame con la verità (e la bontà)
«Il bello è lo splendore del vero»2, dice Platone con una definizione assolutamente insuperabile. È un modo di essere o il modo di essere della verità. Ciò che è vero è anche bello, senza un fondamento nella verità nessuna cosa può dirsi bella, o lo è solo per un istante o per quanto dura una moda o un interesse. Per questo «la bellezza offre all’uomo un orientamento nel suo agire e nel suo operare e deve entrare nella vita dell’uomo come ciò che conferisce senso e valore»3.
Anzi, oggi, con la crisi del pensiero e della sua capacità probante (cf il pensiero debole), venendo meno la stima e la fiducia nelle capacità intellettuali umane e nella possibilità di attingere la verità, è sempre più il linguaggio della bellezza ad essere caricato d’importanza per far emergere la verità e la sua conoscibilità. E questo è molto importante per il nostro tema.

1.3 Legame con la dimensione spirituale
Dice quel teologo grande amante della bellezza che è Von Balthasar: «La bellezza non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore ineffabile, il duplice astro del vero e del bene, e del loro indissolubile rapporto»4. E ancora: «La bellezza esige (come oggi è dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà; la bellezza non si lascia ostracizzare da queste sue due sorelle, senza trascinarle con sé per una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra giudicandola come un ninnolo di un passato borghese, di costui si può esser sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare»5.
È molto interessante questo collegamento: la preghiera è un’esperienza di bellezza, gratuita anche se a volte drammatica. Ovviamente di una bellezza che si percepisce solo con esercizio paziente e che non s’identifica con una banale gradevolezza.

1.4 Legame con il mistero
In realtà la bellezza è sempre misteriosa, ovvero è perennemente in contatto col significato più o meno recondito della vita, dell’essere, delle cose, di noi stessi… Siamo attratti dalla bellezza perché lì dentro scopriamo o intuiamo il senso della vita e di noi stessi. Il mistero, come sappiamo, è qualcosa che non possiamo penetrare perché è troppo luminoso, è l’eccesso di luce che lo rende inaccessibile. Ma, al tempo stesso, il mistero vuole farsi conoscere e non si lascia per questo toccare, sentire, vedere, almeno in parte, ma ci invia continuamente messaggi, segnali, indicazioni e provocazioni… Potremmo quasi dire che la bellezza è proprio un modo di dirsi del mistero. E che una realtà qualsiasi ci attrae, fondamentalmente, perché in essa ci sembra di intuire il senso della nostra esistenza, del nostro essere. Da un lato, come dice il poeta Gibran, «viviamo solo per scoprire la bellezza. Tutto il resto è attesa», dall’altro siamo immediatamente attratti da ciò che possa orientarci verso la verità di noi stessi. Anche se non avvertiamo chiaramente il motivo per cui una cosa, una realtà, un’idea, una prospettiva di vita… ci appare bella.
Proprio per questo articolato e triplice legame, con la verità, con la dimensione spirituale, col mistero, la bellezza è segretamente o apertamente espressione di Dio, è Dio, è lo Spirito santo, spirito della Bellezza divina.

1.5 Alcune caratteristiche della bellezza
Forse vale la pena interrogarci sulla manifestazione o sulle diverse manifestazioni della bellezza. Soprattutto oggi, con lo spaventoso scadimento del gusto estetico della (pseudo)cultura odierna, in cui ciò che è bello viene confuso con ciò che alletta e stimola immediatamente e si consuma o brucia in un attimo, spesso troppo ridotto a una banale cosmesi o ad un culto ebete della bellezza del corpo o a quel bisogno artificioso e stravagante di aggiungergli qualcosa (tatuaggi, piercing…) che finisce per abbrutirlo o nascondere quel nocciolo di verità che la bellezza reca in sé, per non dire di chi non vuole accettare il proprio corpo e presume di modificarlo e di imporgli la propria idea di bellezza, perdendo entrambe. È triste e pericoloso che il “pulchrum” sia sganciato dal “verum” e dal “bonum” e dunque non poche volte svilito e negato, reso ambiguo e deforme. È grande impoverimento che l’estetico si trasformi in anestetico.
Ricordando quanto diceva il grande Gregorio di Nazianzo: «Il bello non è più bello, quando non si riproduce in maniera bella», sottolineiamo alcune caratteristiche di questa ”riproduzione della bellezza“.

a. Misteriosamente luminosa
Il bello è anzitutto vero e dunque luminoso, di quella luce singolare ed eccessiva di cui dicevamo dinanzi, segno del mistero e di quell’eccesso di luce che pervade il mistero, che vuol dire che rimanda al mistero, e dunque da un lato è indicibile e intraducibile e nessuno può pretendere di coglierla e dirla tutta («non riesco a trovare le parole per dirti quant’è bella quella cosa…»), dall’altro si lascia in qualche modo capire o almeno intuire, tradurre in linguaggio comprensibile da tutti, anche dai semplici e dai poveri… L’opera cosiddetta d’arte che risulta assolutamente incomprensibile o che può esser intesa solo dall’esperto sarà forse artistica per certi versi, ma non è bella, proprio perché è tenebrosa e oscura. Il bello non è aristocratico, ma popolare (cf Mt 11,25-30).

b. Proporzionata e simmetrica
Il bello è proporzionato e simmetrico, nel senso che rispetta una certa armonia delle parti, rispetta la misura, poiché converge al centro, ha come unico punto di riferimento la verità e dunque pone tutte le proprie componenti espressive al servizio di essa, perché chi la osserva finisca per contemplare la verità e non la singola forma bella in se stessa6.

c. Umile e nascosta
Il bello non ha bisogno necessariamente di fare colpo, di impressionare, di cercare visibilità, né ama eccessi e stravaganze, ma si manifesta anche o forse soprattutto nel dettaglio, nel piccolo, nella misura discreta e magari nascosta che nessuno vede (la stella alpina è straordinariamente bella anche se nessuno mai la potrà vedere, arrampicata com’è su una roccia impervia); il bello è umile, potremmo dire, e questo perché – ancora una volta – rimanda oltre se stesso. D’altro canto la bellezza è qualcosa che può essere profuso e trasmesso in ogni gesto, parola, atteggiamento anche fisico, pure nel corpo… anche quando non rientra in certi canoni della bellezza fisica o materiale. Potremmo chiederci: dove c’è più verità e bellezza, nel corpo anziano e affaticato e pieno di rughe della beata Teresa di Calcutta o nella modella che ancheggia seriosa e mezza anoressica durante una sfilata di alta moda? O dice più il senso vero della vita, e ancora la sua bellezza, il volto pacato e lo sguardo dolcissimo di uno Charles de Foucauld ormai anziano e vicino al momento di versare il sangue, o il fisico prestante dell’atleta che, magari con qualche aiutino chimico, vince i 100 metri alle Olimpiadi o il giro di Francia per sei volte? Il corpo non è mai così bello come quando esiste nella forma del dono7. Mistero grande!

d. Fantasiosa e originale
La bellezza è fantasiosa e originale, viene da un cuore innamorato della verità e dunque creativo, capace di trovare mille forme per dire quella verità, mai ripetitivo. Ma è pure appassionata ed entusiasta, e l’entusiasmo – potremmo dire – è quella scintilla di bellezza che uno riesce a mettere in ogni parola o gesto o relazione (senza enfatizzare nulla, forse Benigni col suo commento televisivo dei 10 comandamenti ha compiuto proprio tale tipo di operazione)8.

e. Da dire e condividere
La bellezza chiede di esser detta e condivisa, non può restare chiusa e divenire proprietà privata di qualcuno, tende per natura sua ad essere partecipata e dunque espressa in modo semplice e tale che tutti la possano intendere, sperimentare e restarne affascinati (ecco perché uno fa l’animatore vocazionale o l’annunciatore della “bella” notizia). Di fatto, quando è detta e nella misura in cui è condivisa, la bellezza crea relazione o dà qualità alla comunione.

f. Inedita e pensosa
Ciò che è bello non è mai banale e superficiale o puramente formale e prevedibile, ma inedito e pensoso, o capace di far pensare, perché viene dal profondo e rimanda al mistero, per questo il bello non necessariamente appare subito né cattura a prima vista (magari per poi sparire), spesso viene fuori alla distanza, ossia uno lo scopre solo un po’ alla volta, ma poi ne è conquistato per sempre (è la bellezza di cui dice Agostino: «Et ecce intus eras et ego foris / et ibi Te quaerebam…»)9.

g. Inutile e gratuita
La bellezza… non serve a niente, non è funzionale a qualcosa, non serve per determinati interessi, non fa fare carriera né dà potere, non ti attira consensi né applausi, è inutile e gratuita, è bella e basta, trova in sé, e nella propria connessione con la verità e la bontà, la propria ragion d’essere. Ma solo il bello poi libera e scatena lo splendore del vero e rende simpatico il volto del bene (e di chi lo compie). E ti dà una forza incredibile. Di fare qualcosa che in fondo “ti piace” e perché ti piace… e ti rende felice, proprio perché è bella.

h. Umana e umanizzante
La bellezza è umana, profondamente umana, anzi umanizzante, nel senso che promuove l’umano, la sua dignità e i suoi valori, la sua verità più profonda. Per questo non si identifica di solito con l’immediatamente dolce e gradevole, ma può essere percepita e vissuta in un gesto costoso, esigente, per niente scontato… ma che consente di valorizzare la propria umanità e di chi eventualmente mi è di fronte. Così, ad esempio, il gesto di lavare i piedi a un povero è bello perché esprime la dignità del povero stesso e la dignità di chi trova connaturale e… bello piegarsi di fronte all’altro per compiere questo gesto10.

i. Drammatica e provocante
La bellezza è drammatica, non è mai innocua, qualcosa che si risolve semplicemente in una sensazione, o impressione, o gratificazione mentale, e poi non cambia niente della e nella tua vita. Al contrario è un’esperienza piena, perché ti impone di prendere posizione, di fare una scelta a partire da essa, e una scelta non delegabile ad altri; o perché ti accompagna e ti dà forza in una situazione di oppressione o di sofferenza. Forse anche per questo Agostino trova bello, misteriosamente bello, Gesù in croce, in cui umanamente non c’è alcuna bellezza11! O forse anche per questo il card. Nguyen Van Thuan racconta che le messe notturne, celebrate di nascosto nei suoi terribili 13 anni di prigionia, “celebrate” in condizioni (liturgiche, ambientali, igieniche, estetiche…) impossibili, sono state «le messe più belle della mia vita»12.
Mi sembra, al contrario, un po’ banale e potenzialmente fuorviante, al di là delle intenzioni degli autori, un certo modo di fare animazione vocazionale che sottolinea gli aspetti positivi e gradevoli della vocazione stessa, come quel depliant che invita a partecipare all’incontro vocazionale dal titolo: “Chiamati a essere beati”: quel “beati” forse ignora la dimensione drammatica della vocazione! Così come mi sembra ancora banale giudicare incontri di preghiera o momenti vari liturgici come belli o meno belli a partire da criteri puramente esteriori e superficiali, teatrali e a effetto… che molto poco hanno a che vedere col mistero.

j. Mistica e ascetica
La bellezza è mistica, ma anche ascetica, è esaltante, ma pure faticosa. Da un lato è un dono che viene dall’alto, dalla bellezza di Dio, per il credente, dall’altro non è qualcosa di automatico o che si percepisce in modo spontaneo, ma suppone un cammino di purificazione e persino rinuncia ad altre bellezze inferiori a quella divina, per raggiungere quella capacità e sensibilità umana di percepirla e gustarla13.

2. Pedagogia della bellezza (ed evangelizzazione dei sensi)
Se questa è la “via pulchritudinis” ci interessa ora sapere come percorrerla, o almeno individuare anche qui alcune caratteristiche di un cammino che voglia arrivare da quelle parti. Per poi capire come proporre un cammino vocazionale bello e che consenta di arrivare alla scelta di qualcosa di bello.
Se la grammatica della bellezza riguarda l’aspetto oggettivo della bellezza stessa, quanto vorremmo ora comprendere è non solo oggettivo, ma pure soggettivo, si riferisce immediatamente al cammino di crescita psicologica e spirituale della persona, e forse ad aspetti che i nostri programmi formativi non sempre considerano con sufficiente attenzione.
Intendo dire la formazione dei sensi e poi della sensibilità14. Vediamo in estrema sintesi.

2.1 Sensi e bellezza
Partiamo da un presupposto che probabilmente non è così evidente per tanti nostri contemporanei: i nostri sensi, i 5 sensi, sono “tarati” sulla bellezza, come sulla verità e bontà. In altre parole, i sensi ci sono stati dati per entrare in rapporto con la realtà, sono come il ponte tra noi e la realtà stessa, le sponde del cuore, attraverso i sensi noi comunichiamo con la realtà circostante, per ricevere e per dare. Ma non in modo qualsiasi o con una realtà qualsiasi, o come una potenzialità neutra e indifferente al tipo di realtà, bensì con una particolare sintonia con ciò che è vero, bello e buono. E questo perché l’uomo, in quanto tale, è naturalmente attratto da verità, bellezza e bontà, forse non lo sa o non ci dà peso, ma in realtà ogni essere umano è un pellegrino di queste tre realtà, sempre, per tutta la vita. Magari si sbaglierà nell’identificarle, ma non può negare dentro di sé questa istintiva attrazione.
Ma possiamo aggiungere un’altra osservazione. Se i sensi sono “tarati” sulla bellezza e ad essa originariamente indirizzati, è pure vero che la bellezza, per manifestarsi ed esser colta, ha bisogno dei sensi. Non solo perché materialmente per vedere, sentire, toccare… la bellezza abbiamo bisogno di occhi, orecchie, mani…, ma perché la bellezza non si rivela automaticamente e scontatamente, per tutti e in modo irresistibile. Chissà quanta bellezza c’è nel mondo, di vario genere, in noi e attorno a noi che non è mai stata rilevata e scoperta! Come fosse andata perduta, come un tesoro preziosissimo che nessuno ha saputo riconoscere per il suo valore. Un frutto saporitissimo che nessuno ha colto, ed è andato a male. Viviamo immersi nella bellezza, ma chi se n’è accorto? È vero che essa resta in quanto tale, abbiamo specificato più sopra, ma rimane il fatto che non la percepiamo, non la valorizziamo, non l’accogliamo nella nostra vita, non ce ne rivestiamo. E siamo brutti e brutta diventa anche la nostra vita, quel che facciamo e diciamo.
Ovvero, i nostri sensi non sono in grado di percepirla, poiché…

2.2 Stiamo perdendo i sensi
Un tempo me lo ponevo come interrogativo, oggi mi pare che la domanda sia diventata una constatazione indubitabile a riguardo sempre dei nostri sensi. I quali oggi sono supernutriti: viviamo infatti in una cultura in cui si arriva ovunque, a vedere tutto, a sentire tutto, a toccare tutto, ad annusare tutto, sperimentare tutto, in tempo reale, con abbondanza d’informazioni e contatti. Mai come oggi i sensi umani, da un certo punto di vista, hanno dominato e stanno dominando la realtà, nel senso che tutto o quasi tutto cade o può cadere sotto la percezione sensoriale, alimentando un singolare senso di onnipotenza, l’onnipotenza dei sensi, celebrati mai come oggi in una sorta di delirio dei sensi, o di abbuffata sensoriale…
E che succede spesso in questi casi di bulimia incontrollata con obesità conseguente (dei sensi)? Succede una cosa strana, anche se del tutto consequenziale: i sensi perdono l’attrazione delle origini, smarriscono la vocazione iniziale, super alimentati in modo indiscriminato
e senz’alcuna attenzione per la qualità del nutrimento perdono poco per volta il sapore della verità, bellezza, bontà. E quando i sensi perdono questa sensibilità, è come se noi perdessimo i sensi. È la realtà di oggi, di tanta gioventù così difficile da animare, da emozionare e commuovere, da spingere verso ideali di vita… perché?
Perché sono cattivi o egoisti o increduli o ingrati? Magari, il problema è molto più grave: perché stanno perdendo i sensi. E se stanno perdendo i sensi è chiaro che soffrirà anche la bellezza e la capacità di percepirla e sceglierla e di farne la ragione della propria scelta vocazionale.
Cosa fare?

2.3 Evangelizzazione dei sensi (e nuova evangelizzazione)
Occorre mettersi in testa anzitutto che i sensi vanno educati.
Non è tanto intelligente l’educatore che provvede subito a riempire di contenuti la testa di chi l’ascolta e non s’interroga prima: ma questo giovane è capace di ascoltare, è in grado di vedere, è libero di stabilire un contatto con la realtà, sa toccare e lasciarsi toccare da essa, ha imparato a gustare ciò che è vero, bello e buono? Come faceva Gesù, per altro, che così tanto spazio e importanza ha dato alla guarigione proprio dei sensi (dei muti, dei sordi, di chi aveva la mano inaridita, del paralitico…).
Insomma, non basta dare attenzione ai contenuti da trasmettere e continuare a trasmetterli, occorre prima e assieme dare attenzione alle condizioni ricettive di chi ascolta. Non è forse anche questo “nuova evangelizzazione”?
Cerchiamo anche qui di dare alcune indicazioni pedagogiche.

a. Responsabilità personale
Anzitutto il giovane deve lui per primo capire che è responsabile della formazione dei propri sensi e che non può abbandonarli a se stessi, alla loro attrazione impulsivo-istintiva. È utile, al riguardo, la distinzione tra sensi esterni e sensi interni. Se, a esempio, gli occhi si nutrono di un certo tipo di nutrimento, è realistico attendersi un corrispondente tipo di immaginazione e fantasia; per esempio se i tuoi occhi si concedono qualsiasi tipo di gratificazione visiva (magari nell’ambito sessuale la sera prima di andare a letto) non puoi pretendere di svegliarti il mattino con l’ansia di vedere il volto di Dio e il desiderio struggente della sua Parola! Fin troppo logico (e responsabilizzante). Eppure così sottovalutata questa logica educativa.

b. Vigilanza intelligente
Dunque è importante vigilare sui propri sensi, prestare attenzione al loro esercizio, ad abitudini e automatismi sensoriali, ai gusti e sapori che ne derivano, senza atteggiamenti né rigoristi né permissivi, né lasciando i sensi a se stessi, poiché ognuno è responsabile della formazione dei suoi propri sensi. Nessuno, dunque, può autogiustificarsi col banale “io sono fatto così” per assolvere ogni condotta. Così come nessuno può pretendere, in nome della sua libertà, di vedere tutto, sentire tutto, toccare tutto, sperimentare tutto…, né subire il condizionamento delle stimolazioni sensoriali di massa che pilotano i sensi sottraendo all’uomo la libertà di vedere, sentire, toccare… quel che lui realmente vuole. Non si può confondere la quantità dell’alimentazione dei sensi con la sua qualità: il bombardamento sensoriale dei giorni nostri non necessariamente è una buona alimentazione, anzi, potrebbe portare – e sta di fatto portando – a un’ipertrofia e poi ad uno smarrimento dei sensi, oltreché ad una perdita della capacità di attenzione.

c. Dare senso ai sensi
Più in positivo si tratta di promuovere una vera e propria evangelizzazione dei sensi, come un processo psicologico e spirituale articolato in due direzioni.
Anzitutto quella di dare senso ai sensi. Per impedire che i sensi vadano a vanvera, dove un’attrazione impulsiva li conduce, occorre ricondurre l’esercizio dei sensi alla finalità originaria, quella del rapporto con la realtà e ciò che le dà senso, ovvero con ciò che è vero e bello e buono. È come un’ascesi che abbraccia tutta la vita poiché i nostri sensi sono sempre in azione e proprio per questo è molto efficace. Soprattutto quando di fatto il senso è cercato non da un solo senso, ma da tutti i sensi, idealmente. La totalità dell’esercizio sensoriale, o il coinvolgimento di tutti i sensi nella tensione verso lo stesso obiettivo o la stessa verità o bellezza, è ciò che consente di acquisire quel senso, di appropriarsene, di viverlo in pienezza, di sceglierlo eventualmente come ideale di vita.

È un po’ il significato del cammino di fede come ci è raccontato da Giovanni nella prima sua lettera: «Quello che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto coi nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita…, noi lo annunciamo a voi» (1Gv 1,1-3). Stupendo, è lo stesso cammino della fede che esige questo rispetto del principio della totalità e proprio grazie a questo la fede appare non più solo come qualcosa di vero da credere con la testa, ma come qualcosa di bello da gustare, vedere, sentire, annunciare… E questa è già evangelizzazione dei sensi.

d. Dare sensi al senso
Non è un gioco di parole. Si tratta, come secondo dinamismo, di tradurre il senso, o ciò che dà significato e valore alla vita, in operazioni sensoriali. L’obiettivo è sempre lo stesso, ma il punto di partenza qui non sono i sensi, ma il senso, la verità, da declinare nella sua bellezza. È una bella sfida per il credente, per l’evangelizzatore, per l’animatore vocazionale…: tradurre il senso della vita, il senso pasquale della vita cristiana in parole da dire, in visioni e parabole da raccontare, in piedi che camminano per annunciarlo, in mani che si stringono in nome suo, in stile di ascolto dell’altro, in gusto e sapienza di vita, persino in capacità di percepire l’odore della vita, di distinguere certi sapori genuini, di assumere l’odore delle pecore… E nello stesso modo promuovere nell’altro, nel giovane, la scoperta della propria vocazione, attraverso un percorso multisensoriale e pluriattitudinale, esperienziale e poliedrico, e che di nuovo abbraccia tutta la vita e tutto l’umano, e proprio per questo è efficace e consente di cogliere la bellezza.

Ne deriva anche, giusto per esemplificare, un modo di vivere quell’esperienza tipicamente credente e cristiana che è la liturgia, che spesso, ahimé, non tiene conto di questo rapporto tra sensi e senso. Quale è, infatti, la differenza tra una discoteca e una chiesa in cui si celebra una messa domenicale? Nella prima, e nella sua “liturgia” laica, notturna, fragorosa, a volte trasgressiva, piena di luci artificiali, interminabile… ci sono i sensi, anzi, c’è una esplosione di sensi, sovente incontrollati, ma senza senso, a volte totalmente insensati, privati di senso. Nella messa della domenica noi celebriamo il senso per eccellenza, la pasqua di Gesù, ciò che dà senso proprio a tutto, ma molte volte in una situazione di sostanziale assenza dei sensi, pochissimo coinvolti in una celebrazione troppo anestetica e muta, fredda e monotona, senza festa né gioia (a volte anche per colpa di chi “celebra”, lui stesso coi suoi sensi assente, più solenne e ridondante che in dialogo col Mistero, coi sensi di Dio e coi sensi di chi partecipa al rito): qui c’è il senso, ma non ci sono i sensi.
Ma in comune, se così stanno le cose, discoteca e messa hanno qualcosa: che in nessuno dei due luoghi c’è bellezza, né festa, poi ché bellezza è laddove i sensi incontrano il senso, e festa è ove questo incontro è celebrato assieme, da un gruppo.
Sembra eccessivo, ma non può non farci pensare questo singolare e inedito accostamento tra due ambienti così diversi tra loro!
Come possiamo parlare di nuova evangelizzazione se non partiamo da una fondamentale evangelizzazione dei sensi (spesso assente nelle nostre Ratio formationis)?

3. Pedagogia vocazionale della bellezza (ed evangelizzazione della sensibilità)
Veniamo in modo ancor più specifico alla nostra tematica, a quella che sta più a cuore ad un animatore vocazionale: come concepire una pedagogia vocazionale della bellezza? O un cammino vocazionale capace di presentare la vocazione cristiana come qualcosa di bello, non solo come voluto da Dio o buono, benemerito ed eroico, ma come qualcosa che la persona sceglie semplicemente perché bello, perché gli piace.
Qui non basta più educare-formare i sensi, occorre evangelizzare la sensibilità.

3.1 Sensibilità
La sensibilità è quell’orientamento emotivo che ci attrae in una particolare direzione, in diversi ambiti esistenziali (ad esempio sensibilità relazionale, morale, intellettuale, estetica, spirituale…) e che si è formato (e si forma) lentamente in noi, attraverso esperienze, abitudini, provocazioni, scelte varie di vita.
È la sensibilità all’origine di simpatie o antipatie, ad esempio, o che ci fa preferire una cosa a un’altra o che ci rende più o meno attenti all’altro e a un certo altro o che ci fa sentire una cosa o un comportamento come buono o no. La sensibilità è una forza emotiva capace di orientare il comportamento di una persona in modo stabile. Normalmente noi avvertiamo la sensibilità proprio come una emozione di attrazione (o repulsione), ce la ritroviamo in noi come forza che spinge in una precisa direzione e pensiamo spesso che sia qualcosa che ci precede, che va accettato così com’è.
In realtà ognuno di noi, praticamente fin dal primo giorno di vita, si forma la propria sensibilità, come? Attraverso le scelte che fa. Non esiste in tal senso scelta innocua o che non lasci il segno; ogni decisione orienta energia in una direzione o in un’altra e proprio l’accumularsi di energia forma la sensibilità nei vari ambiti di vita.
Nessuno dunque può usare la sensibilità come alibi, come fosse una forza impulsiva che s’impone su di lui e su cui non può farci nulla. No, ognuno è responsabile della propria sensibilità, o ha la sensibilità che si merita o che si è costruita.

3.2 Sensibilità estetica e vocazionale
Tra i vari tipi di sensibilità c’è anche quella estetica, che corrisponde esattamente alla capacità/libertà 1) di ammirare la bellezza, di riconoscerla, di commuoversi di fronte ad essa, anche quando è presente… in dose minima (come «sussurro di brezza leggera», 1Re 19,9-13)15 o è mischiata-confusa col suo contrario; ma è sensibilità estetica pure la capacità/libertà 2) di produrre bellezza, non necessariamente perché uno è artista, ma perché ha imparato a mettere o seminare bellezza in quel che fa, anche senza far nulla di straordinario o che attiri clamore o apprezzamento da parte di altri.
Ed è ancora sensibilità estetica la capacità conseguente 3) di fare scelte in forza della bellezza di ciò che si sceglie.
Anzi, tale capacità sarebbe la prova della forza intrinseca della bellezza, che può spingere a fare scelte e a prendere decisioni importanti nella vita e, al tempo stesso, sarebbe ciò che consente alla persona, a chi sceglie, di gustare fino in fondo la bellezza che ha ispirato la scelta, 4) di appropriarsene proprio nel momento in cui si compie la scelta, quasi riconoscendo in quella bellezza la propria identità.
Ma questo è legato inevitabilmente a un’altra sensibilità, quella vocazionale, oggi senz’altro meno nota e invece al centro della nostra attenzione. È infatti tale sensibilità il vero nodo della crisi vocazionale, il suo punto debole: se non c’è sensibilità vocazionale è inevitabile la contrazione numerica delle vocazioni. Ma è anche il punto fondamentale su cui lavorare.
Cos’è la sensibilità vocazionale (cristiana)?
a) Nasce dalla concezione della vita come risposta a una chiamata, e dunque a un dono che respons-abilizza il chiamato dinanzi al Chiamante, che lo ha reso capace di risposta;
b) cresce nella misura in cui il soggetto impara a desiderare, attendere e riconoscere la voce che lo chiama (o lo chi-ama);
c) si rinforza quanto più il chiamato segue tale voce e riconosce nella chiamata la propria identità, ciò che le dà verità, bellezza e bontà;
d) è matura e orienta sempre più la vita della persona nella misura in cui è costantemente confermata con scelte coerenti con cui il chiamato riconosce e accetta la propria responsabilità nei confronti degli altri: la vocazione cristiana, infatti, non riguarda solo la persona interessata, ma chiama regolarmente a farsi carico degli altri;
e) è davvero sensibilità vocazionale cristiana se il chiamato vive tutto ciò come una cosa bella, in se stessa bella, per se stesso bella, al punto di divenire chiamante a sua volta.
È evidente dunque il contatto tra le due sensibilità, la estetica e la vocazionale. Il denominatore comune tra le due è esattamente la bellezza. In 3 direzioni: 1) la bellezza della vocazione in sé, 2) la bellezza dell’essere chiamato e 3) la bellezza dell’essere chiamante, poiché questo è il compimento più alto della vocazione, quando uno vive così tanto la responsabilità per l’altro da farsi mediatore dell’Unico Chiamante.

3.3 Investire sulla bellezza
Se da un lato è evidente il contatto tra i due tipi di sensibilità, dall’altro è pure evidente la poca attenzione che noi diamo in ambito educativo alla formazione della sensibilità in generale e di queste due sensibilità in particolare, nelle tre direzioni ora viste. Perdendo, di conseguenza, un elemento che potrebbe essere potente alleato nella animazione vocazionale, autentico bene su cui investire.
Come concepire, allora, un cammino vocazionale bello, che risponda alle caratteristiche della bellezza in sé, della sensibilità estetica del giovane, della bellezza della vita quando è concepita in prospettiva vocazionale, della bellezza di un Dio-che-chi-ama e che rende il chiamato chiamante e della bellezza insuperabile della vocazione cristiana?

a. Ambivalenza giovanile: basso quoziente emotivo e bisogno di bellezza (la bellezza dell’essere chiamato)
Anzitutto c’è una constatazione da fare. I giovani d’oggi, secondo un’interessante analisi di un sociologo tedesco, Falko Blask, avrebbero un basso quoziente emotivo. È un concetto relativamente nuovo (di solito si parla di quoziente intellettuale), ma che sta a dire due cose terribili in uno che si appresta a giocare il proprio ruolo nella vita: mancanza di responsabilità e indifferenza egocentrica. Per questo Blask chiama la presente generazione giovanile “la generazione Q”, ove Q sta singolarmente per “Qaos”16, coi suoi “allegati”: confusione, disordine, assenza di valori, incapacità di scelte impegnative, paralisi emotiva, incapacità di commuoversi e provare com-passione, superficialità relazionale…
D’altro canto, però, aggiungiamo noi, uno sguardo più attento vede nei giovani un grande bisogno di bellezza, come una nostalgia, una sete inappagata e che non si vede come appagare, non basta certo un selfie mandato a mezzo mondo per illudersi di essere belli, anche se è fatto a fianco di un personaggio famoso (fosse anche il Papa).
La vocazione non è forse ben più che un’immagine, ma segno di una dignità e di una positività incancellabili e dunque di una bellezza creata e custodita dall’Eterno? Essere chiamati è in realtà essere chi-amati, ovvero se Dio mi chiama vuol dire che io sono importante per Dio, che mi rivolge il suo sguardo e la sua parola, mi svela un pensiero, il pensiero che ha su di me, che mi affida un posto nella vita, un progetto di salvezza che lui vuole realizzare attraverso di me e che io solo posso realizzare in un certo modo…
Il dramma del giovane d’oggi (oggi in particolare, e non solo per la congiuntura economica che stiamo attraversando) è che nessuno lo chiama ed è drammatico non sentirsi chiamare da nessuno, significa la perdita della propria dignità e dunque della stima di sé.
Mentre proprio questa è vocazione cristiana: promessa di bellezza per ogni chiamato, bellezza di cui Dio è artefice e che si manifesterà in una scelta precisa di vita.

b. Un “bell’animatore vocazionale“ (la bellezza dell’essere chiamante)
La vocazione può nascere solo dall’incontro con un credente che vive una chiamata bella in una vita bella, che può testimoniare che ne è valsa la pena fare una certa scelta, che vive una bella amicizia con Gesù e trasparenti relazioni con gli altri, al punto di farsi carico dell’altro e della sua salvezza, della sua chiamata e del suo cammino di ricerca vocazionale, e che dunque è contento del suo sacerdozio o della sua consacrazione e non perché le cose gli vadano bene e lui ha successo, ma perché la sua vita è ricca di senso e questo senso è bello, indipendentemente dai risultati che ottiene, ed è più forte del non senso esistenziale che può colpire a volte anche la vita del sacerdote e del consacrato.

c. Seminatore vocazionale
Vale la pena forse riflettere sulla natura dell’animazione vocazionale che possiede una sua bellezza particolare e che va ben identificata. Tale bellezza consiste – io credo – più nella preparazione del terreno e nella sua semina, che non nella pretesa di raccogliere subito un certo frutto. Attenzione, perché questa pretesa mette dentro l’angoscia, l’angoscia vocazionale (che, come sappiamo, produce ulteriore angoscia, non vocazioni), e l’angoscia è brutta e rende insopportabile l’animatore vocazionale e quel che dice. L’animatore vocazionale intelligente è uno che prepara la strada, è uno che semina e semina e semina, è uno che cerca di formare la vera sensibilità vocazionale cristiana, non uno che brucia subito stupidamente la proposta in termini espliciti e magari anche riduttivi (= ridotti a una sola vocazione)17. Al contrario, egli sa che la Parola seminata ha una sua forza e potenza e farà il suo corso; di notte o di giorno, proprio come dice il Vangelo, lui non sa come né potrà controllare il processo, ma essa crescerà. Lo deve credere e per questo avere il coraggio di seminare dappertutto e in ogni momento e con ogni persona. In modo intelligente e discreto, ma guai al chiamato che non semina, che non diventa chiamante, che non è fecondo.
Per questo è consolante vedere l’impegno che è profuso nella Chiesa italiana nell’animazione vocazionale. Il vero problema della crisi vocazionale non è la contrazione numerica quantitativa vocazionale (dato scontato, specie se visto in confronto con un certo passato che non tornerà), ma la diminuzione dell’impegno dell’animazione vocazionale. Questo sarebbe drammatico. Ma finché c’è impegno vocazionale non c’è crisi vocazionale!
Forse sarebbe addirittura cosa buona cambiare l’espressione “animatore vocazionale” in quest’altra: “seminatore vocazionale”. Il distacco dalla pretesa del risultato contribuisce a dare efficacia alla proposta, a renderla più accettabile e – in ultima analisi – bella. E non solo, ma anche a non considerare nessun ambiente, contesto, persona, realtà… come non interessante o impermeabile (sordomuto) dal punto di vista vocazionale, che renderebbe la proposta impossibile e inutile. Ma chi sei tu, tra l’altro, a decidere in partenza e in anticipo che la chiamata del Signore non riguarda qualcuno e che non vale la pena farla in certi ambienti? Tu pensa a seminare ovunque, comunque e in chiunque, e a seminare bellezza in questa operazione. Il resto lo fa lo Spirito di Dio.

d. Totalità soggettiva
Ma se si vuole formare davvero alla sensibilità vocazionale cristiana non si può presumere di lavorare solo su di essa (ammesso che sia possibile), bensì si deve lavorare contemporaneamente sui vari tipi di sensibilità, ad esempio su quella morale (la coscienza), su quella relazionale (la responsabilità per l’altro), sulla sensibilità spirituale (capacità di entrare in contatto con Dio), su quella estetica, intellettuale, spirituale… E cercando altresì di indicare la bellezza come una sorta di denominatore comune di questi cammini evolutivi.
Insomma, è solo da un lavoro globale sulla totalità delle diverse sensibilità soggettive alla luce della bellezza che si può poi sperare di far nascere una vera e propria sensibilità vocazionale cristiana. Se non nasce una certa sensibilità morale, ad esempio, è parecchio difficile che uno possa intendere quella responsabilità che lo lega all’altro e la serietà e la bellezza di una vita che si fa carico dell’altro; così pure una sensibilità spirituale o orante è fondamentale per affinare l’udito e sentire quel Dio che parla e chiama senza voce e con cui è bello stare.

e. Totalità oggettiva
Ma c’è anche una totalità oggettiva su cui è importante lavorare se vogliamo che nasca una sensibilità estetica vocazionale: la bellezza della vocazione e della vocazione cristiana emerge solo se essa è presentata nella sua totalità, in tutto il suo significato. Ad esempio, non solo come modo di realizzare se stessi, o come discernimento soggettivo sulle proprie tendenze e doti, e nemmeno come qualcosa in funzione della propria salvezza e santità o delle necessità pastorali della diocesi, ma come qualcosa che implica l’attenzione agli altri, il farsi carico della redenzione altrui, e per questo chiede il massimo al chiamato. La vocazione cristianamente intesa va sempre oltre i confini della singola persona e solo quando è concepita così, cioè nella sua totalità, lascia sprigionare tutta la sua capacità di attrazione e il chiamato la sente bella, qualcosa che realmente rende bella la propria vita e si dispone a seguirla.
In forma di principio psicopedagogico potremmo allora dire così: solo la totalità oggettiva può provocare-attrarre e mettere in movimento la totalità soggettiva. Anche se questo – tale tensione – può complicare la vita del chiamato e chiedergli un impegno notevole. È bello ciò che gli chiede il massimo, è avvertito come bello solo ciò per cui vale la pena dare la propria vita. La mediocrità, che è una cosa brutta, non attirerà mai l’essere umano, anche quando sembra uno stile di vita comodo e gradevole (ed è di fatto lo stile di tante persone). Semmai la mediocrità potrà essere l’esito tristissimo esistenziale di chi non ha percepito un appello vocazionale o non c’ha creduto o non l’ha colto nella sua bellezza. Ma certamente l’uomo non è fatto per la mediocrità; piuttosto è una condanna o una pena, anche quando il giovane sembra preferirla e starci bene dentro. In realtà non sarà contento.
Attenzione, dunque, a tutti quei modi di presentare la vocazione che non rispettino questo principio della totalità, magari con l’illusione che chiedendo di meno rendiamo la vocazione più attraente e accessibile.

f. Catechesi e via pulchritudinis
Tutta la proposta cristiana, non solo chi lavora nella pastorale vocazionale, deve essere orientata in tale direzione, verso una conce zione globale e organica del cristianesimo come ciò che propone e promuove la bellezza tipicamente umana.
Così la catechesi, ad esempio. Interessante il monito di Papa Francesco al riguardo: «È bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla “via della bellezza (via pulchritudinis). Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove… Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede»18.
Se infatti ci domandiamo perché tanti adolescenti, troppi giovani abbandonino la fede e qualsiasi tipo di atteggiamento religioso, magari subito dopo la cresima, scopriremo che a molti di loro è stata trasmessa l’idea di un cristianesimo (o addirittura di un dio) triste e serioso, e dunque di un cristiano più preoccupato della legge da osservare che non della gioia di Cristo risorto da vivere, più ossessionato dal male da evitare che non ispirato e attratto dalla bellezza del bene. Quale giovane può sentirsi attratto dallo sheol, o questo tipo di cristianesimo?

g. Ascesi della bellezza
Quando si parla di bellezza si ha spesso la sensazione di parlare di qualcosa di molto vago e persino facile, poiché consisterebbe solo in sensazioni o in una questione di sensibilità (magari riduttivamente intesa). In realtà esiste un’ascesi della bellezza e della libertà di lasciarsi attrarre da essa.
Per esprimere in che consista mi servo del ben noto episodio della vita di Francesco d’Assisi che, come dicono le sue biografie, era solito incontrare gruppi di lebbrosi che vagavano lontani dal centro abitato sulle montagne ove Francesco cercava solitudine e silenzio.
All’inizio il santo sente una naturale ritrosia, ma che poi supera con un moto di attrazione, di affetto sensibile per il fratello lebbroso, al punto da abbracciare e baciare il suo volto ripugnante.
Notiamo bene: qui Francesco non fa semplicemente un atto di misericordia o compassione, né è mosso dalla preoccupazione di darci il buon esempio, tanto meno fa finta o si sforza di voler bene a quei poveretti, al contrario, li ama con tutto il cuore, perché il suo cuore è stato trasformato, la sua sensibilità si è convertita, la verginità – in modo particolare – ha cambiato l’uno e l’altra e li ha resi non più solo umani, pur amando in modo umanissimo e ricco di calore19.
Questa straordinaria libertà è l’obiettivo della rinuncia specifica del vergine, non il deserto dei sentimenti o l’inesistente “pace dei sensi”, né una perfezione che comporti una diminuzione della propria umanità o un’eccessiva e malintesa seriosità (che rende antipatico il vergine e brutta tutta l’operazione), bensì la capacità di voler bene in modo del tutto inedito, non più secondo la logica e il linguaggio dell’attrazione istintiva ed egoista, che ama solo quel che è subito appagante, ma secondo tutt’altro criterio. Quello che deriva dal coraggio di aver detto di no al viso più bello per essere liberi di voler bene (di dire di sì) a quello più brutto, come fa Francesco20; o dalla scelta di non adottare più criteri selettivi per imparare ad amare alla maniera di Dio, che è ricco di misericordia e si china su chi è solo e abbandonato e ama specie chi è più tentato di non sentirsi amabile.
È come se Francesco, grazie alla sua consacrazione vissuta nella fede, scoprisse una bellezza diversa, non più solo umana e secondo i canoni dell’estetismo umano, ma profonda e resistente a qualsiasi devastazione e abbrutimento del corpo. Ma non solo questo, Francesco avverte attrazione in modo altrettanto profondo dentro di sé, non si sforza di fare un gesto carino, ma si lascia andare a un sentimento e ad una sensibilità ormai nuovi, pienamente evangelizzati, che gli rendono piacevole l’abbraccio e il bacio del lebbroso. Baciando quel lebbroso egli fa qualcosa che gli piace.
Ma tutto ciò avviene realisticamente grazie al coraggio della rinuncia, di una rinuncia molto concreta e pure dolorosa (= dire di no al viso più bello), ma pure intelligente, motivata, di una ascesi strettissimamente collegata con la mistica, che consente di vedere nel viso più brutto una bellezza misteriosa e irresistibile.
Grazie a questa ascesi della bellezza la nostra verginità ha senso ed è bella, è segno luminosissimo della caritas dell’Eterno o la prova più evidente che un cuore di carne può vibrare della passione di Dio per l’uomo. E proprio questa ascesi va proposta anche nel cammino di animazione vocazionale. In funzione della bellezza.

h. Bellezza drammatica (o pasquale)
Dalla grammatica alla drammatica della bellezza. Abbiamo già elencato tra le caratteristiche della bellezza la drammaticità, così come abbiamo visto il significato massimale della vocazione cristiana. In qualche modo ora mettiamo assieme i due aspetti, mostrando come un’attenzione pedagogica a tenere unite queste due dimensioni possa provocare il giovane a fare finalmente una scelta e perché il tutto non resti un bel disegno teorico.
C’è dramma nella vita, dal punto di vista psicologico, quando uno si trova dinanzi all’esigenza imprescindibile di dover prendere una decisione, una decisione che non può assolutamente delegare ad altri, ma che coinvolge altri e che gli chiede il massimo. È propriamente il caso del giovane credente che si interroga sulla propria vita a partire dalla fede: la vita come un dono ricevuto e la pienezza del dono che giunge al suo punto massimo nella redenzione ottenuta dal sangue di Cristo.
Qui nasce la vocazione cristiana, o qui il giovane credente non può non sentire un appello che è rivolto proprio a lui e che gli chiede di prendere posizione. Anzi, che gli dà la forza di fare una scelta. È la forza che viene fondamentalmente dal sentirsi salvato dalla croce di Gesù.
Salvato dal proprio egoismo, madre di tutti i peccati e fonte dell’indifferenza verso gli altri, compreso l’egoismo spirituale, pericolosissimo e proprio questa salvezza o la coscienza di essa diventa forza di fare una scelta. In altre parole, è la coscienza del dono ricevuto, il dono della redenzione, che provoca il chiamato a condividere il dono stesso, facendo una scelta di vita corrispondente. Non per obbligo o per dovere, ma perché è una cosa straordinariamente bella concepire così la propria vita. Poiché vuol dire avere in sé i sentimenti del Figlio, vivere come lui. È la cosa più bella per un essere umano!

i. Linguaggio vocazionale della bellezza
Se dunque nella vocazione religiosa o sacerdotale e in forza di essa rinunciamo a qualcosa di bello (= l’amore coniugale) per qualcosa di ancora più bello, di conseguenza anche la nostra testimonianza non potrà che essere bella. Bella perché nasce dalla certezza esperienziale che… Dio è bello e dolce è amarlo21, bello è il tempio, bella è la liturgia, bello è cantare le lodi dell’Altissimo, è bello stare insieme in nome suo, è bella l’amicizia, è bello lavorare insieme, con tutte le complicazioni e le lentezze e le fatiche che comporta.
Ma la bellezza diventa anche compito e urgenza in tempi – come abbiamo detto e sappiamo – di scadimento del gusto estetico e di emarginazione del bello; ovvero l’animatore vocazionale che ha maturato in sé una sensibilità per la bellezza, e alla bellezza della sua chiamata, ne diviene artefice e fa di tutto perché tutto sia bello in sé e attorno a sé, particolarmente quando invita il giovane a “fare un’esperienza” nel suo ambiente di vita, nella sua comunità, perché tutto sia bello e di quella stessa bellezza contemplata in Dio, umana e divina, nella semplicità e sobrietà creativa: che sia bella la casa, la tavola apparecchiata, la camera ordinata (e non assomigli ad una tipografia o ad un’officina o ad un retrobottega o ad un ripostiglio o a qualcosa di non ben identificabile e praticamente invivibile22), che vi sia gusto e decoro negli ambienti, proprietà e semplicità nell’arredo, profumo di pulito e buon gusto ovunque, eleganza e finezza nel tratto… perché tutto nella dimora lasci trasparire la presenza e la centralità di Dio, Bellezza somma, e ognuno vi si senta accolto come a casa sua, in una casa amica. La bellezza non è forse il punto più alto del cammino, ove il bene e il vero si incontrano? In questo contesto di bellezza aumenta la possibilità di una scelta, soprattutto aumenta la possibilità che il giovane faccia una scelta motivata dalla bellezza che coglie attorno a sé, che vede nella qualità della vita di alcuni testimoni. In quella bellezza egli può intravedere la propria verità, quello che è chiamato ad essere secondo il piano di Dio. E sarebbe un altro straordinario incontro tra due punti estremi: la volontà di Dio e ciò che piace all’uomo. Mistero grande!

j. Espressioni artistiche
Torniamo a Papa Francesco e ad una sua raccomandazione precisa: «In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto. Se, come afferma Sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello23, il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile e ci attrae a sé con legami d’amore… È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”. Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, e comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri»24.
Interessante e provocante questo invito finale a usare «modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri».
Ma in questo, forse, l’autentico animatore vocazionale è come il saggio scriba che tira fuori dal suo archivio cose nuove e cose anti che, tutte egualmente espressione di quella Bellezza tanto vecchia e tanto giovane che lui per primo continuamente sperimenta e gusta e di cui cerca di far innamorare il giovane. Quella Bellezza più forte di ogni bruttezza, capace, come dice sempre quel grande innamorato della pulchritudo che è Agostino, che è già in se stessa vocazione, parola che chiama: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità, brillasti, splendesti e cacciasti la mia cecità, facesti sentire la Tua fragranza e respirai e anelo a Te; gustai e ho fame e sete, mi toccasti e mi infiammai per la Tua pace»25.

NOTE
1 Cf C. Militello, Il vero e il bello, in «Vita Pastorale» 11(2014), p. 68.
2 Platone, Simposio, XXIX, 212ª.
3 S. Babolin, La bellezza nella formazione integrale della persona, in La via della bellezza, Praglia 1990, p.m.
4 H.U. Von Balthasar, Gloria, I. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1985.
5 Ivi, p. 10.
6 Secondo il fisico Fabiola Gianotti, direttrice del CERN, «la bellezza è la simmetria imperfetta». Così continua la ricercatrice: «La fisica ha una sua estetica che si può contemplare nelle leggi della natura fino agli esseri microscopici. Comprenderla è un gioco intellettuale relativamente semplice».
7 È la conformazione a Cristo di cui parla Paolo (cf Rm 12,1-2).
8 e non dimentichiamo, sempre in tal senso il commento televisivo dei 10 comandamenti di Benigni.
9 Agostino, Confessioni, X, 27, 38.
10 Vedi in tal senso il gesto di Papa Francesco che il Giovedì santo va a lavare i piedi, compiendo un gesto tipicamente sacramentale, che “ricorda” efficacemente il gesto di Gesù e “celebra” il memoriale dell’istituzione dell’Eucaristia, il suo senso e la sua bellezza profondi.
11 Cf Agostino, Enarrationes in Psalmos, 44,3.
12 Ecco la sua testimonianza: «Nel campo di rieducazione siamo divisi in gruppi di 50 persone; dormiamo su un letto comune, 50 cm per ciascuno… Alle 21.30 bisogna spegnere la luce e tutti devono dormire. Mi curvo allora sul letto per celebrare la Messa, a memoria (con la mano che faceva da calice in cui versava 3 gocce di vino mescolate con una goccia d’acqua), e distribuisco la comunione passando la mano sotto la zanzariera. Fabbrichiamo sacchettini con la carta dei pacchetti di sigarette, per conservare il SS. Sacramento. Gesù eucaristico è sempre con me nella tasca della camicia… Ogni settimana ha luogo una sessione d’indottrinamento, a cui deve partecipare tutto il campo. Al momento della pausa, coi miei compagni cattolici approfittiamo per passare un pacchettino agli altri gruppi di prigionieri: tutti sanno che Gesù è in mezzo a loro, è lui che cura tutte le sofferenze fisiche e mentali. La notte, i prigionieri si alternano in turni di adorazione; Gesù eucaristico aiuta in modo tremendo con la sua presenza silenziosa. Molti cristiani ritornano al fervore della fede durante questi giorni; anche buddhisti e altri non cristiani si convertono. La forza dell’amore di Gesù è irresistibile. L’oscurità del carcere diventa luce, il seme è germinato sotto terra durante la tempesta… Sono le più belle messe della mia vita».
13 Ancora dalle Confessioni: «Tu chiamasti e gridasti e rompesti la mia sordità, brillasti, splendesti e cacciasti la mia cecità, facesti sentire la tua fragranza e respirai e anelo a Te: gustai e ho fame e sete, mi toccasti e mi infiammai per la tua pace» (X, 27, 38).
14 Prendo lo spunto per la riflessione che segue dal mio volume Abbiamo perso i sensi? Alla ricerca della sensibilità credente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.
15 Secondo P. De Benedetti la traduzione letterale sarebbe “voce di silenzio sottile”.
16 Cf F. Blask, Q come caos. Un’etica dell’incoscienza per le nuove generazioni, M. Tropea Editore, Milano 2000.
17 Operazioni superficialmente riduttive come si vedono in alcuni depliant vocazionali, superficiali e certo non belli, del tipo: «Cerchi un lavoro a tempo indeterminato? Fatti prete»; oppure: «Vieni con noi: girerai il mondo» (si tratta di un istituto missionario evidentemente…).
18 Evangelii Gaudium, 167.
19 Così confessa lo stesso Francesco nel suo Testamento: «…quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo» (Testamento di San Francesco (1226), in Scritti di Francesco d’Assisi, Assisi 1986, p. 66, n. 110).
20 O come fa Teresa di Calcutta, che non semplicemente soccorre il moribondo solo e abbandonato per strada, ma l’abbraccia, gli vuole e gli esprime un mondo di bene, lo cura e lo protegge, si sente attratta dalla sua umanità.
21 «Lasciami, o Signore, baciare i tuoi piedi, lasciami accarezzare le tue mani, che mi hanno plasmato, mani che hanno creato senza che si stancassero. Permettimi, o Signore che io contempli il tuo volto, e gioisca della tua bellezza intramontabile» (Simeone Nuovo Teologo, Inni 24, SC 174 (1971), p. 226).
22 Cf A. Cencini, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, San Paolo, Milano 2002, p. 136
23 Agostino, De musica, VI, XIII, 38.
24 Evangelii Gaudium, 167.
25 Agostino, Confessioni, X, 27, 38.