N.04
Luglio/Agosto 2015

Fedeltà creativa: “Obbedienza alla Parola”

In questo mio intervento svilupperò brevemente quattro punti: il primo ha a che fare con la lettura della Bibbia intesa quale narrazione del Dio vivente che si fa carne e con i suoi effetti pragmatici (con le conseguenze relazionali sull’umano); il secondo con la “lettura” delle narrazioni di vita in ambito psicologico e formativo e con le loro possibili ricadute spirituali; il terzo con la necessità di integrare lectio divina e lectio humana, ovvero una duplice ermeneutica (teologico e formativo-terapeutica) in quella forma di accompagnamento spirituale che è il pastoral counseling (allo scopo di “aiutare” Dio e l’uomo ad incontrarsi in una co-narrazione salvifica); il quarto ha a che fare con alcuni suggerimenti pratici su come condurre concretamente i colloqui di accompagnamento.

1. Un Dio che narrandosi si fa uomo: centralità della lectio divina
Gli studi di teologia narrativa ci hanno aiutato a riscoprire che la Bibbia risponde ai grandi interrogativi dell’esistenza o su di essi pone ulteriori domande (chi è Dio, chi è l’uomo, perché il male, quale il cuore della Legge, quali le leggi del cuore…) non attraverso definizioni astratte di tipo filosofico, bensì attraverso racconti e massime sapienziali.
In effetti, nella Bibbia, fin dall’inizio è chiaramente rintracciabile uno strettissimo nesso tra creazione e narrazione: Dio parla e crea!.
Attraverso la Parola, il Signore crea l’uomo e uno spazio di possibile rivelazione ed insieme si fa “progressivamente” uomo, in un mistero di debolezza e di follia che raggiunge il suo culmine quando la pienezza della divinità si rinchiude corporalmente in Gesù Cristo, esegeta di Dio. Come detto dai padri conciliari, «le parole di Dio […] si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV 13).
In questo senso, possiamo parlare di una vera e propria “narrazione incarnata” di Dio che si fa non solo “consegna” di una legge, di alcuni comandamenti o di alcune verità, ma anche “consegna” di sé in una relazione con l’umano che scende attraverso diversi gradini fino ad approdare alla piena incarnazione del Verbo, alla
Sua assunzione della forma di servo, alla Sua silente passione, alla potenza della Sua risurrezione.
Volendo in modo sintetico cogliere le intenzionalità relazionali di tale “narrazione incarnata” e i suoi effetti pragmatici, si potrebbe dire che essa vuole suscitare nell’uomo disponibilità ed intelligenza (amore e sapienza) per aiutarlo a collocarsi di fronte ad essa e in essa, cogliendone, con capacità di ascolto e cura, gli appelli e tutta la drammatica esistenziale, ovvero per rispondervi con piena espressione di sé, approdando ad una sorta di co-narrazione.
Ciò risulta più chiaro studiando la tradizione ebraica (l’ambito primigenio in cui la Parola si è data), laddove l’accoglienza della narrazione biblica ha suscitato due diversi modi di rispondervi: quello halakiko e quello haggadico-midrashico.

Nella tradizione halakika, l’intento è di studiare e praticare le conseguenze morali e comportamentali della narrazione biblica; mentre nella tradizione haggadico-midrashica, l’intento è piuttosto quello di penetrare la narrazione biblica interrogandola e lasciandosi interrogare da essa in termini esistenziali, collocandosi al suo interno come in un tentativo di riscrittura, che, senza confondersi on la Parola e mantenendone il dovuto “timore”, cerca tuttavia di ampliarla, contestarla, dare rilievo agli spazi bianchi tra le varie parole scritte, immedesimarsi con i vari personaggi, scavare nella loro psicologia, lasciar loro porre domande e così via.
In sintesi, potremmo dire che Dio si è impegnato a costruire con l’uomo un rapporto di alleanza che implica collaborazione e co-narrazione e che è fondato su una Sua “discesa verso il basso” in cui si possono rilevare atteggiamenti relazionali e narrativi di “progressiva” povertà, obbedienza ed amore puro (cf Fil 2), atti a favorire la guarigione e la crescita dell’umano che è in noi.
Una “narrazione incarnata”, quindi, che ci svela il volto di Dio e dell’uomo, seguendo quella via per cui Dio si fa uomo e l’uomo possa essere divinizzato, attraverso un pieno coinvolgimento nella co-narrazione con Lui. Raccontandosi, interrogando, protestando in modo dolente, minacciando, entrando in conflitto, ridonandosi, affidandosi supplice, appellandosi alle esigenze dell’amore, la “narrazione incarnata” offre stimoli pragmaticamente efficaci all’umano perché entri in essa e vi si lasci maturare; d’altronde, assumendo anche l’espressione del silenzio (facendosi silenzio sofferto che ascolta), tale “narrazione incarnata” permette il pieno dispiegarsi della parola umana che le risponde: proprio l’enigma tremendo del “silenzio incarnato” di Dio si svela mistero che permette la piena espansione dell’umano che può a sua volta, fino in fondo, a Lui raccontarsi, interrogare, protestare, minacciare, entrare in conflitto, ridonarsi, affidarsi supplice, maturare sensibilità e cura.

Sì, la narrazione biblica ci svela un Dio che è mistero di parola e di ascolto e che chiede pieno coinvolgimento ed alleanza per “riscrivere” insieme con noi una storia in divenire, Lui che «i nostri passi ha contato, le nostre lacrime ha raccolto, tutto ha scritto nel Suo libro» (cf Sal 55) e che desidera che andiamo dietro a Lui, raccogliendo le sue lacrime e scrivendo le sue parole nei nostri cuori.
In questo modo, lo studio delle Sacre Scritture, illuminandoci sui sentieri di discesa del divino verso le creature e sui suoi possibili effetti pragmatici, ci illumina nel contempo sul “cammino dell’uomo” verso il ritorno a se stesso e l’approdo al suo compimento: «Nel rotolo del libro di me è scritto» (Sal 40).
Da questo punto di vista risultano fondamentali tre passaggi: il primo consistente nel leggere le Sacre Scritture focalizzando l’attenzione anche sul sistema dei personaggi, sui loro vissuti psicocorporei, sui loro intrecci relazionali, sulle loro evoluzioni esistenziali; ilsecondo, considerando ogni personaggio delle Sacre Scritture come rivelativo di una parte del cuore umano (o come un catalizzatore capace di gettare luce sul cuore umano); il terzo, entrando in dialogo con ogni personaggio, come per sondarne tutta la possibile umanità impregnata dal contatto con la Parola.

2. Un uomo che narrandosi può essere divinizzato: centralità della lectio humana
Vediamo ora l’importanza della narrazione dal basso, non a partire dalla Parola di Dio, ma dall’esistenza dell’uomo. Dal punto di vista psicologico e formativo, diversi autori hanno messo a fuoco il tema della narrazione autobiografica. Così, ad es., dal punto di vista evolutivo, D. Stern ha evidenziato come il punto d’arrivo dello sviluppo infantile (nella prima infanzia) è il sé narrativo, ovvero la competenza del bambino di narrare se stesso ad un altro; dal punto di vista di una psicologia della personalità, J. Bruner ci ha aiutato a capire come sia presente in ogni persona una tendenza insopprimibile a costruire la propria autobiografia, il che significa una narrazione più o meno complessa, coerente ed interessante della propria vita e delle proprie scelte; dal punto di vista clinico, in ambito gestaltico, i coniugi Poster ci hanno offerto spunti interessanti sottolineando il valore terapeutico di una narrazione adeguatamente ascoltata, mentre dal punto di vista formativo è stato soprattutto D. Demetrio, qui in Italia, ad aiutarci a valorizzare il potenziale educativo contenuto nelle forme autobiografiche.
Potremmo dire, da questo punto di vista, che cresciamo per imparare a narrarci, viviamo col bisogno di narrarci, guariamo, allorché feriti, grazie all’esperienza di essere ascoltati con amore e competenza, laddove qualcuno ci aiuta a fare intelligente esegesi non solo del livello contenutistico dei nostri racconti, ma anche del loro livello emozionale e relazionale.
Così, le scienze della formazione contemporanee ci aiutano a migliorare nella capacità di lectio humana, ovvero nella competenza a leggere nel concreto delle narrazioni di chi chiede aiuto le mete cui tendono la carne e il sangue dell’uomo, i dinamismi attraverso cui cercano di approdare a compimento e le interruzioni di contatto che impediscono una realizzazione piena.
L’insopprimibile bisogno di narrarsi e di costruire la propria autobiografia, d’altronde, svela il suo significato ultimo e più pieno nell’ambito spirituale e così il movimento discendente di Dio si incontra con l’anelito ascendente della creatura: l’uomo creato in quanto uditore della Parola ha da diventare anche facitore di parola, persona capace di vivere ascoltando la narrazione di Dio e ad essa rispondendo, in un intreccio narrativo in cui non solo le Sacre Scritture illuminano l’esistenza, ma anche le vicende e le dinamiche dell’esistenza, adeguatamente maturate e fatte oggetto di riflessione e di meditazione, illuminano le Sacre Scritture, sicché in esse progressivamente ritroviamo narrate le nostre vite e nelle nostre vite diventiamo capaci di narrare la Parola presente ed operante in mezzo a noi1.
In questo senso, la liberazione dallo spirito di sordità e di mutismo di cui ci narrano i Vangeli sinottici (cf ad es. Mc 9,14-29) è guarigione di cui necessita il cuore umano per reimparare ad ascoltare il Signore e fare di Lui l’interlocutore principale della propria vita.
Così comprendiamo che non ci guarisce il Dio tappabuchi, ma il Dio sofferente che viene in soccorso e che proprio chiedendo ascolto e cura della sua sofferenza, permette la nostra evoluzione verso un amore realista ed altruista.
Da parte dell’uomo, quindi, non è necessaria solo buona volontà morale, ma anche disponibilità ad impegnarsi in un’avventura relazionale con Dio e con i fratelli in cui l’imparare a narrare se stessi e ad ascoltare le altrui narrazioni diventa via ineludibile di crescita: proprio in tal modo, attraversando fino in fondo il bisogno della carne e del sangue di esprimersi e di consegnarsi a Dio, l’uomo viene divinizzato e approda a qualcosa della maturità di Cristo.

3. Tra lectio divina e lectio humana: la necessaria circolarità nel pastoral counseling
Personalmente, intendo il pastoral counseling, attuale corrente della teologia pastorale, come un nuovo modo di intendere, studiare e praticare l’accompagnamento spirituale in un modo adatto alla sensibilità contemporanea, integrando in esso i contributi offerti dalle moderne scienze della formazione, senza tuttavia perdere sensibilità e mentalità teologica2.
A questo livello, quindi, ci si pone innanzi l’esigenza di cercare strade per integrare una duplice ermeneutica (formativa e terapeutica da una parte, teologica dall’altra), al fine di aiutare i fratelli e le sorelle a maturare in Cristo, evitando, nell’ascolto delle storie umane, i rischi di letture ingenuamente spiritualiste, moralistiche o psicologistiche, prive tutte di sensibilità formativa e terapeutica in ambito spirituale.
Per quel che riguarda le letture ingenuamente spiritualiste, abbiamo a che fare con pseudo-salti in uno spirituale non compreso come “carne e sangue ripieni dello Spirito”, bensì come evitamento della complessità dell’umano.
Ecco due esempi di lettura ingenuamente spiritualista: a) alla fine dell’incontro il figlio spirituale (o la figlia spirituale) inizia a versare copiose lacrime pensando all’amore di Dio o alle proprie sofferenze; l’accompagnatore ancora sprovveduto può pensare qualcosa del genere: «Guarda che sensibilità spirituale», o «Guarda che sofferenza»; l’accompagnatore esperiente, abituato a dare importanza nel rapporto di aiuto al tempo e alla relazione, pensa: «Mi sta segnalando che gli viene difficile finire il colloquio»; b) due coniugi ormai insieme da tanto tempo parlano del loro amore “come se si fosse ancora al primo giorno” e si lamentano di un figlio venuto su ribelle; l’accompagnatore ancora sprovveduto può pensare qualcosa del genere: «Fantastico; questo sì che è amore cristiano! È da invidiarli; peccato per quel figlio…»; l’accompagnatore più esperiente, abituato a dare importanza al ciclo vitale di una famiglia e alle sue dinamiche quale totalità pensa: «Chissà, forse questi coniugi hanno difficoltà ad esprimere i loro conflitti e la funzione di segnalare l’aggressività in questa famiglia pesa tutta sul figlio».

Una lettura ingenuamente moralistica si dà quando ci si interessa, nell’accompagnamento spirituale, a ciò che bisogna fare o non fare senza dare spazio a tutta la trama narrativa presentata dai figli spirituali, con la sua ricchezza affettiva.
Una lettura ingenuamente psicologistica in ambito spirituale accade quando ci si appiattisce sui contributi della psicologia attuale, senza approfondirli adeguatamente e senza metterli in circolo con quanto proviene dalla Parola di Dio e dalla Tradizione. Un esempio di lettura ingenuamente psicologistica: mentre un figlio spirituale narra la sua paura nei confronti di Dio, l’accompagnatore ancora sprovveduto può essere felice di pensare qualcosa del genere: «Inconsciamente avrà paura del padre», mentre l’accompagnatore più esperiente, abituato a dare importanza al qui ed ora e al contesto spirituale, cercherà anzitutto di empatizzare con la paura che un uomo può avere di Dio, senza per questo negarne le radici infantili!
In altri termini, la lettura ingenuamente spiritualista e quella ingenuamente moralista sono frutto di un’analisi carente di ciò che avviene nel cuore umano, mentre la lettura ingenuamente psicologistica, oltre a ciò, denota la mancanza di comprensione di un fatto centrale: che il dramma fondamentale del cuore umano è il rapporto con Dio e che il colloquio spirituale, proprio perché tale e non psicologico, necessita di un chiaro discernimento alla luce della Parola, di un coinvolgimento pieno con la narrazione di Dio e con quanto essa vuole suscitare.

4. Alcuni suggerimenti concreti
In un colloquio di accompagnamento spirituale, chi accompagna deve gettare la luce del discernimento su quattro aspetti tutti importanti:
il livello contenutistico (ciò che l’accompagnato racconta), il livello relazionale (come procede la relazione tra padre e figlio spirituale), la volontà di Dio (cosa il Signore chiede o come il Signore si rende presente in quella situazione), la dimensione temporale del colloquio (le diverse fasi di un incontro)3. 

Livello contenutistico. Qui mi sembra importante collocare ciò che l’accompagnato racconta (ad esempio: «Ho difficoltà a pregare»; oppure: «Litigo molto spesso con mia moglie») in un contesto temporale («Da quanto tempo questo accade?»), per coglierne il senso evolutivo. Inoltre, è importante che chi accompagna non si allei con una polarità della persona contro un’altra. Così, se la persona dice che ha difficoltà a pregare («Vorrei, ma non lo faccio»), bisogna offrire riconoscimento ad entrambe le parti del cuore, senza allearsi con quella apparentemente più buona: «Mi sembri diviso; vorresti pregare e non lo fai; cosa ha da dirci la parte del tuo cuore che di fatto non vuole pregare? Quali sono le sue ragioni?». Infatti, il riconoscimento delle diverse polarità, paradossalmente, favorisce processi integrativi e di unificazione e facilita il cambiamento.

Livello della volontà di Dio. Qui è importante interrogarsi non solo su cosa Dio può chiedere, ma anche in che modo può rendersi presente per sostenere la persona. In altri termini, è utile favorire l’interiorizzazione dell’immagine di un Dio non solo richiestivo, ma anche sostenente. Infatti, l’insistere unilateralmente su ciò che Dio chiede può, a lungo andare, facilitare dipendenza o ribellione. L’aiutare a sperimentare un Dio che sostiene facilita lo sviluppo di processi evolutivi. Inoltre, va tenuta presente la legge della gradualità: aiutare la persona a fare quel passo di crescita nella fede e nella morale che le è possibile. Così, ad esempio, se una persona ha scoppi di ira e non riesce a contenerli, spesso non si può presentare come volontà di Dio immediata che non esploda più, ma che quando le capita, chieda scusa e rifletta sui motivi, sapendo che questo permette uno sviluppo delle strutture di contenimento dell’aggressività.

Livello relazionale. Qui è importante cogliere che non solo l’accompagnato racconta certe problematiche, ma le racconta a chi lo aiuta ed ha, a tale livello, intenzionalità relazionali che vanno riconosciute. Essere aperti a questo livello, chiedere: «Come va il nostro colloquio? In cosa non ti senti capito? In cosa non ti senti sostenuto? In che modo io c’entro con questo», accogliere critiche ed obiezioni in modo non difensivo, permette che anche a livello contenutistico le cose fluiscano meglio.

Livello temporale. In ogni incontro vi sono una fase iniziale, una centrale ed una finale. Nella fase iniziale, il senso relazionale è cogliere il bisogno, il tema, la difficoltà di cui l’accompagnato vuole parlare; in un pasto corrisponde alla scelta di cosa mangiare. Nella fase centrale si tratta di approfondire e di arrivare a scambiarsi le impressioni reciproche su quanto si sta affrontando; in un pasto corrisponde al consumo del cibo. Nella fase finale si tratta di preparare il congedo ed assimilare quanto detto; in un pasto corrisponde ad una prima assimilazione di quanto mangiato. È importante, quindi, collocare adeguatamente quanto espresso dal figlio spirituale nelle diverse fasi. Un’espressione del tipo “provo molta tristezza” può avere diversi significati a seconda che sia espressa all’inizio, nel centro o alla fine di un colloquio. All’inizio può avere il senso di un’apertura su un tema impegnativo, oppure può avere a che fare con l’incontro precedente: «L’ultima volta che ci siamo visti non è andata come volevo». A seconda dei casi, l’accompagnatore deve allora verbalizzare il malessere derivante dall’ultimo colloquio o la forza del vissuto che si vuole affrontare. Al centro la stessa frase può significare la consegna al padre spirituale di quanto c’è nel proprio cuore. Alla fine può indicare la difficoltà a separarsi o il non avere saputo/potuto prima dire fino in fondo il proprio vissuto. Così, riaprire discorsi alla fine del colloquio non ha senso, è invece utile verbalizzare i processi di separazione o la necessità di superare alcune difficoltà nell’esprimere se stessi.
Inoltre, in tutto il corso del colloquio, in caso di un diverso punto di vista con il figlio spirituale, è importante che il padre spirituale non cada in un braccio di ferro, ma realizzi una coesistenza rispettosa e interessata della diversità.
Ancora, l’accompagnatore spirituale deve ricordare che la relazione con chi chiede aiuto è di tipo non paritario, quindi reca con sé tre leggi fondamentali: non appoggiarsi emotivamente sul figlio spirituale, non fare alleanze intergenerazionali con lui contro qualche altro adulto, offrire una relazione serena (con un corpo sereno!), al di là dei conflitti che si possono internamente vivere.
Infine, senza negare tante uguaglianze (siamo uguali e diversi) e che ognuno è chiamato ad integrare animus ed anima, vanno tenute presenti le differenze di genere: la donna è più orientata alla relazione, l’uomo all’azione, la donna parla per creare intimità, l’uomo per cercare soluzioni e così via, come indicato da diversa letteratura sull’argomento.

NOTE
¹ Cf E. Bosetti – N. Dell’Agli, Un Dio che prima sposa e poi fidanza. Il cantico, l’eros e la vita, Cittadella, Assisi 2015, collana “Tra Bibbia e psicologia”.
² Cf N. Dell’Agli, Lectio divina e lectio humana. Un nuovo modello di accompagnamento spirituale, EDB, Bologna, 20063. Cf anche ID., Parola, Eucaristia e guarigione, EDB, Bologna 2008.
³ Cf E. Bosetti – N. Dell’Agli, L’altra metà della chiesa. Sulla reciprocità uomo-donna nella pastorale, Cittadella, Assisi, in corso di stampa.