N.04
Luglio/Agosto 2015

La danza dell’Eccomi nel quotidiano

1. L’oggi della Delbrêl è a noi contemporaneo
La frenesia, la fretta, il bisogno di continue attività, dal lavoro agli svaghi programmati, per la paura e l’angoscia di trovarsi soli con se stessi, per il vuoto interiore, per l’insensatezza di ciò che ci circonda: tutte malattie che ormai affliggono l’uomo moderno, così che è sparita dal mondo la contemplazione ed al suo posto è apparso un attivismo frenetico; scrive Madeleine:
«Siamo attivisti o agitati perché amiamo gli altri in modo non autentico, oppure perché amiamo eccessivamente noi stessi. I santi non erano né degli agitati né degli attivisti»1.
All’uomo attivo manca la contemplazione delle cose, manca il silenzio per poter riflettere e meditare, manca l’individualità: gli uomini attivi, infatti, sembrano sfornati da una macchina, sono esseri generici, si identificano con l’attività che svolgono, sono funzionari, commercianti, dotti… Così, in un solo giorno, si accumulano così tanti fatti che l’uomo è confuso e disorientato, inserito com’è in una società “liquida”, per dirla con Zygmunt Bauman2, essa stessa promotrice di valori volatili, che condannano l’uomo all’insicurezza e all’incertezza. Questi fatti del mondo dai quali siamo raggiunti non ci chiedono, però, solo di esser conosciuti; essi non fanno di noi un pubblico dinanzi ad uno spettacolo, ma persone che vengono interpellate in questioni che le riguardano.
Oggi che le estremità della terra si sono avvicinate, è cambiato di molto, ad esempio, il concetto di “prossimità”: le relazioni fra gli uomini si sono moltiplicate grazie ai molti e capillari mezzi di comunicazione, determinando un “virtualismo” che ha finito per snaturare il concetto stesso di relazione, depotenziandolo e deconcretizzandolo, così che risulta necessario recuperare la nozione evangelica di “prossimità”, la quale non rimanda ad alcunché di generico e astratto, ma ad un legame di carne fra gli uomini; per questo è prossimo solo «colui che si può raggiungere; è prossimo – infatti – colui del quale sappiamo ciò che gli manca; colui la cui vita è entrata in contatto concreto con la nostra vita»3 (quanta distanza allora con i contatti di cui parlano Facebook e i social network in generale!).
E come è modificato il concetto di prossimità4, così è cambiato anche quello relativo alla possibilità di agire, di amare con tutte le proprie forze secondo il precetto evangelico, poiché le opportunità oggi offerte al credente si sono a loro volta moltiplicate: la frontiera tra il possibile e l’impossibile si è spostata, anche se spesso «questa non è modificata sulle nostre carte»5.
Tutto ciò si verifica in un clima di pacifico ateismo, che Madeleine così descrive: «La mentalità atea è una mentalità senza Dio. Dio ha cessato di essere per essa oggetto di aggressività, di disprezzo o di curiosità. Egli sussiste soltanto a titolo di menzogna creduta»6.
Il vero nemico, ai tempi della Delbrêl e, a maggior ragione, ai nostri, non è Dio, che è praticamente caduto nell’oblio, ma il credente, messo in discussione se non in ridicolo. Il clima che si respira non è dunque quello «di lotta aperta contro il cristianesimo, ma un clima fermamente e tranquillamente ateo»7.
Da questa mentalità definita “atea” segue un fenomeno di materializzazione, di mercificazione delle relazioni, in un orizzonte in cui Dio non è negato né respinto, ma semplicemente escluso8, sottaciuto, divenuto quasi impensabile; per questo il contatto con l’ateismo, con la non credenza, con l’indifferenza richiedono da parte del credente non solo l’esercizio di una carità missionaria, ma anche una fede ri-vitalizzata9.
Infatti, quando il cristiano si trova in un ambiente ateo o indifferente è obbligato a ripensare la propria fede, poiché è essa che fa di lui il più contemporaneo di tutti gli uomini10; ed essa, man mano che sarà provocata in ambiente ateo, reagirà per divenire forte e in grado di resistere ad ogni percossa.
Questo resistere ad ogni duro colpo non riduce però la fede ad una dimensione ideale o sociale; ne consegue che la Nostra non confuse mai la fede con un sistema morale o filosofico, ma la visse come dono insistentemente rinnovato e richiesto, all’interno della Chiesa, di una Chiesa vivente, capace ancora di rispondere alle esigenze dell’uomo contemporaneo.

2. La vocazione propria del cristiano in un ambiente ateo indifferente a Dio
Non è pensabile non essere istruiti sulla vocazione cristiana, perché è il mondo che ne fa richiesta, sollecitando dal cristiano risposte rapide e convincenti.
La vocazione è l’appello, la chiamata di Cristo, che è la stessa in tutti i tempi e pur sempre perfetta e precisa per ogni uomo, perché non viene da un tempo determinato, ma dall’eternità, che è contemporanea ad ogni tempo.
Le parole di Cristo non passano, per questo parlano agli uomini di tutti i tempi.
Osserva la Delbrêl: «L’appello del Cristo rimane lo stesso per i cristiani di tutto il mondo e di tutti i tempi. Ma ciascuno è interpellato là dove si trova, nel giorno in cui vive, nella sua esistenza e nella sua pelle»11, poiché la fede non vive né fuori del proprio tempo né a mo’ di ideale da conseguire, ma nella carne di ogni cristiano e da ciò non può che derivarne una spiritualità incarnata.
Altrove ella scrive che «il Gesù di oggi […] non perde tempo a ricostruire le condizioni di vita del primo secolo, ma entra decisamente nel ritmo attuale com’egli era entrato nel ritmo di vita ebraico. […] Gesù è stato uomo perfetto […]. Per essere perfettamente della nostra razza, del nostro tempo, del nostro mestiere. Gesù non ha santificato il mestiere di falegname durante la sua vita nascosta, ma tutte le vocazioni umane»12.
Ciascuno, pertanto, è interpellato là dove si trova, nel tempo in cui è collocato, in quanto la chiamata non la si vive che nel qui ed ora a ciascuno assegnato: «Cristo, di cui il cristiano vive, non gli fornisce delle ali per una evasione verso il cielo, ma un peso che lo trascina verso il più profondo della terra»13. Ciò porta con sé un amore per il mondo che non significa identificarsi con esso, poiché il Regno dei cieli, seppure nel mondo, non è del mondo.
Ne consegue che di fronte alla chiamata di Gesù non esiste una risposta-tipo; esiste però per ciascuno, ogni giorno, una risposta esatta, nella pluralità delle possibili scelte di vita, purché siano fedeli al Vangelo14.
È importante, in primis, imparare a distinguere la vocazione religiosa da una vocazione politica o da un sistema di pensiero e dimostrare che ciò che interessa al cristiano non è la conquista del mondo, ma l’incontro, nel mondo, dell’uomo con Dio15.
Gesù Cristo, scrive la Delbrêl: «Rimane in noi, abita in mezzo a noi. Vi abita singolarmente, sotto le sembianze di chi è nudo, affamato prigioniero straniero senza rifugio. Sotto queste sembianze egli è, nella storia del mondo, qualcuno di indefinitamente “esiliato”. E chi lo raggiunge e lo segue diventa “esiliato” anche lui»16.
Dunque, chi segue Cristo è un esiliato, un pellegrino senza dimora e sempre in cammino; ma come lo è il cristiano, così è la Chiesa, esiliata in tutta la sua storia, in balia dei “sussulti del mondo”, della violenza che subisce dagli avvenimenti, “calamitata” dalle estremità della terra, continuamente sviata dai suoi progetti, per seguire vie non tracciate se non dai passi stanchi di chi è in esilio, nudo, affamato, prigioniero, ma anche – Madeleine insegna, infatti, a non dividere il mondo in “buoni e cattivi” – i solchi lasciati dai potenti e prepotenti della storia, poiché anche quando il cammino tortuoso, difficile e doloroso, esso può esser sempre orientato da Dio e a Dio17.

3. La risposta del cristiano alla vocazione divina: l’eccomi della fede…
La vocazione-chiamata «Vieni… seguimi…» contiene imperativi che ordinano, spingendo ad una scelta forte, ad una opzione fondamentale che spesso taglia con il passato per avventurarsi dove Dio indicherà.
L’eccomi, risposta iniziale-personale alla chiamata di Dio, pone l’uomo in una totale disponibilità, dal momento che, non avendo «un dovere assoluto che si opponga ad una partenza o a un’impresa»18, questi è sempre pronto a partire.
Questa disponibilità deve essere connotata dall’essere vigile: la lanterna deve sempre essere accesa… non spenta come quella di una vergine stolta19, poiché gli avvenimenti e le circostanze del nostro tempo sono così accelerati che al credente occorre essere vigile, rapido a cogliere ciò che deve fare e a correre là dove deve essere20.
È così che la risposta alla vocazione si trasforma in una «partenza unica, iniziale» che esiste per ogni uomo, «per ciascun cristiano di tutti i tempi e del mondo intero»21.
E quando va dove è chiamato, il cristiano lo fa con tutto se stesso, con tutto ciò di cui Dio lo ha dotato22, poiché non è cosa buona sminuire o sprecare ciò che Dio ha donato: dai nervi esausti al vigore, dall’intelligenza al sentire, dall’essere semplici a incredibilmente complicati… Ne consegue che non partire, «non essere pronti o non rendersi pronti a seguire i tempi è oggi un furto in rapporto a Dio ed è, in rapporto alla Chiesa, il più nocivo dei sabotaggi. Ci vogliono tutti i nostri minuscoli e crudeli consensi – scriverà la nostra autrice – perché un quarto di umanità continui a morire di fame»23.

4. A cosa servono la fede e il cristiano?
Dunque, l’indifferenza, l’ateismo pratico e teorico rivolgono al credente una domanda: «A che servono i cristiani? A cosa serve la fede?»24.
Madeleine insegna l’importanza di conoscere e accogliere l’ambiente del proprio tempo, di trovare il deserto25 anche in mezzo alla folla; la rilevanza della responsabilità e della gioia che si prova ad «essere posti ad un crocicchio di vita, pronti ad amare chi passa e attraverso di lui tutto quanto nel mondo è sofferente, offuscato o smarrito»26; il valore della dedizione al lavoro manuale, del dare a ciascuno secondo il personale bisogno, del desiderio di “andare al largo”, senza essere contenuti dalle mura di un monastero, scegliendo come clausura quella delle circostanze giornaliere e del prossimo immediato.
Da Madeleine il cristiano del nostro secolo può imparare «a perdere la fede nel prestigio e ad acquisire la fede nell’annichilamento»27, ad accettare una gioia ed un amore trafitti dalla croce, poiché – come ella scrive – «quando possiamo soffrire e amare, possiamo il massimo in questo mondo»28.
Il cristiano pertanto non può rimanere disorientato né scosso dagli avvenimenti temporali, perché per lui l’essenziale è eterno29, egli è colui che parte alla ricerca di Dio senza carta stradale, sapendo che Dio si trova lungo il cammino e non alla fine30; ma in questo percorso pochi sono gli appigli, per questo la condizione del cristiano – come afferma la Delbrêl – è quella di «una insicurezza vertiginosa»31, poiché, se anche trova Dio, il cristiano non lo possiede, non fa di Lui una sua proprietà, ma anzi al contrario si lascia possedere da Lui.
E se le domande – a cosa servono la fede e il cristiano – sono di per sé problematiche, lo è ancor di più il fatto che la maggior parte delle persone non si pongono alcuna domanda; può diventare allora indicativa la risposta fornita dalla Delbrêl: «La fede non fa di noi dei superuomini, geni o eroi»32, così come non ci rende migliori degli altri uomini; essa infatti «non ci libera da nessun dovere umano, ma ci dà un lavoro, una funzione, una missione che è per il mondo e non è del mondo»33; così il cristiano per compiere la volontà di Dio non ha bisogno di azioni sensazionali, ma di un certo volume di sottomissione, di un certo grado di arrendevolezza, d’un certo grado di cieco abbandono situato non importa dove tra la folla degli uomini34.
Da questo modo di intendere l’esperienza di fede non deriva un cristianesimo impaurito dalle novità, che ha reso Cristo un proprium da difendere né un cristianesimo ansioso di fronte a situazioni nuove e con la smania di mettere Cristo “alla moda” come se Egli non fosse attuale in ogni giorno di ogni tempo, in quanto Cristo «non deve essere adattato, né rettificato. La vita non si adatta a chi la vive, né la verità agli occhi di chi la vede. Cristo è come è. Non possiamo renderlo diverso»35, così asserisce la Delbrêl.
Ella però non propone un modello di cristianesimo alternativo, ma soltanto un’adesione ad esso più rigorosa, più adulta, di contro ad un cristianesimo vissuto come calcolo razionale, come programma da seguire, in cui sono stabilite le priorità da dare, i diritti da chiedere e i doveri da eseguire, così che il cristiano possa vivere la vita:

«Non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,
Non come una partita dove tutto è difficile,
Non come un teorema che ci rompa il capo,
Ma come una festa senza fine dove il Tuo incontro si rinnovella,
Come un ballo,
Come una danza,
tra le braccia della tua grazia, nella musica che riempie l’universo d’amore»36.

Questo danzare non sapendo dove la musica conduce è indizio di una vita che fidandosi si affida allo Spirito Santo, seppur conscia che non è facile modellarsi sulla volontà di Dio, volontà che spesso è per noi oscura e crocifiggente: «Sempre più mi vado convincendo che qui sta la fedeltà fondamentale: nell’accoglienza adorante di ciò che capita»37, fuori dai giochi di “prestigio“ (volendo qui mantenere tutta l’ambiguità del termine: l’essere prestigioso che, in fondo altro non è che il fare un “gioco di prestigio“), di successo e ricordando che i nostri insuccessi non fanno di Dio un perdente.
Dentro ogni avvenimento, entro ogni pace e ogni gioia vi è, invero, nascosto un lungo cammino di prove e sofferenze: «Il cammino è bello – scriverà Madeleine – ma […] ci si scortica i piedi duramente»38, nel percorrerlo.
Lontana da ogni trionfalismo39 ella ha esperito che è proprio sotto il peso degli insuccessi che il cristiano impara a discernere la volontà di Dio su di sé, a soffrire una solitudine che non trova consolazione, a procedere senza conoscere la meta, obbediente ad «un soffio impercettibile e potente»40, il soffio dello Spirito Santo.
Ma questo “essere in balia“ dello Spirito comporta per il credente un ritrovarsi, un essere fedele a se stesso, che si attua proprio quando ogni contenuto di sé va perduto, poiché non vi è più nulla da dimostrare, né ruoli da difendere o atteggiamenti da tenere. Sostiene la Delbrêl: quando si cerca Cristo «si vede crollare il piano delle definizioni e dei sistemi, degli itinerari e dei fini»41, eppure, rinunciando ad aggrapparsi ad un giudizio positivo di se stessi e accettando di essere lo sconosciuto del domani, il cristiano trova il fondo di se stesso.
Il determinato, il personale – ritenuti nella mistica classica fasi da superare – vengono qui recuperati, poiché tutto ciò che fa parte dell’uomo, perfino «questi morosi interiori, gusti, istinti, caratteri, passioni, squilibri»42, fa parte di quella pasta umana che è materia per la grazia e con la quale «Dio ha deciso di fare di noi dei santi»43.
In questa carne, che Cristo ha redento, nasce il semplice cristiano che è in ciascuno di noi, il quale cerca Dio con amore impaziente «là dove la fede lo trova ma la semplice vita lo nasconde»44. Alla chiamata di Dio, dunque, risponde l’“eccomi” della fede, l’essere disponibile ad andare dove Dio indicherà… ma la prima partenza è immobile: è la discesa agli inferi.

5. Discesa agli inferi
La prima partenza del credente è la sua discesa agli inferi, nel senso che l’uomo deve toccare il male della storia, perché è con esso che avrà a che fare da mattina a sera. Il cristiano di ogni tempo è chiamato a guardare l’inferno dell’uomo e della storia e pur non comprendendolo è chiamato ad amarlo. L’accoglierlo è, perciò, il primo passo da compiere avanti ogni azione, missione, progettualità…
I cristiani, infatti, «sono uomini che, sapendosi contagiati dal male come tutti e come tutti chiamati a guarirne»45, sanno di contribuire a portare a compimento la redenzione di Cristo. Sarebbe infatti un bel debole amore quello di chi teme di «trovare il male presso coloro che ama»46, e il cristiano ama, addirittura, a causa del male, per proseguire l’opera della redenzione, asserirà Madeleine:47
«È necessario ricevere gli occhi di Gesù, che non vede il male […] se non per guarirlo e risuscitarlo»48.
Occorre, dunque, imparare ad avere un cuore né duro né molle, ma tenero, cioè capace di misericordia verso ogni uomo, ma anche verso se stessi, idoneo a «discernere in ogni persona ciò che è luce, anche frammentaria, anche distorta»49, dal momento che non è possibile strappare la zizzania senza strappare il buon grano50.
Ma dove si apprendono la tenerezza e la misericordia del cuore? La tenerezza del cuore si impara alla scuola della bellezza, di fronte alla meraviglia del creato; la misericordia la si apprende dinanzi alla miseria di un creato malato di peccato e devastato dal male51.
Com’è possibile allora poter correggere il nostro fratello senza divenirne giudici integerrimi, senza cadere in atteggiamenti duri o farisaici? Solo con la tenerezza e la misericordia possiamo parlare al nostro prossimo52, poiché sappiamo che un cristiano altro non è che un peccatore dinanzi ad un altro peccatore, un perdonato in mezzo ad altri perdonati; egli non può presentarsi come qualcuno in possesso di una laurea in mezzo a persone incolte, poiché egli parla di un Padre comune, conosciuto dagli uni e ignorato dagli altri, non può porsi come innocente, ma come qualcuno che ha avuto la fortuna d’essere chiamato a credere e di ricevere la fede come un bene depositato in sé per il mondo53.

6. L’eccomi di Madeleine: 11 Rue Raspail
La vocazione ecclesiale e personale della Delbrêl si presenta al mondo nel piccolo gruppo di Ivry. La comunità che nasce intorno a lei ha un carattere laico, formata com’è da «persone esattamente uguali alle altre»54. Essa si lega come ausilio alla parrocchia, mantenendo però un carattere autonomo: le «parrocchie nel nostro mondo attuale – afferma Madeleine – hanno le braccia mutilate all’altezza dei gomiti»55, così le piccole comunità si pongono come una sorta di avambracci, capaci di spingersi fin nei meandri della società, laddove le braccia amputate della Chiesa ufficiale non giungono.
La nostra strada, afferma la Delbrêl, «ci ha condotto, a Ivry, dai “senza Dio”, poiché si tratta di persone troppo sole perché noi possiamo avere voglia di abbandonarle»56: è così che nasce la prima comunità in Rue Raspail al numero 11.
Il 7 gennaio del 1958, Madeleine Delbrêl scrive una sorta di Testamento spirituale57, in cui enuclea l’essenziale per la sua comunità; quello che vi è scritto non ha il carattere di una regola, lei stessa infatti dice di lasciare alle sue compagne un semplice consiglio, da seguire indipendentemente da lei e da quanto lei ha fatto o detto.
L’invito è a non cambiare lo specifico e l’essenziale della propria vita, riconoscendo in questo una fedeltà a ciò che Dio vuole per ogni uomo, poiché ciò che conta è la volontà di Dio su ognuno, in quanto solo a lui è dato conoscere ciò che per noi è necessario, rifuggendo da ciò che rende unanimi, soprattutto unanimi di convenienza o forzati. È un invito a non confidare in se stessi, a non semplicizzare, ma nemmeno a complicare, giacché l’uomo va preso tutto intero ed è complesso comprendere quest’opera superba di Dio, l’unica a sua immagine e somiglianza; per tale ragione non è cosa buona decidere con semplicismo, mentre lo è decidere con semplicità.
Tutto ciò deve essere informato dall’amore, considerato che esso è la vocazione vitale di ogni uomo: amore di Dio che ha come necessaria conseguenza l’amore fraterno, e dalla preghiera, che puntellando le giornate e le azioni scongiura l’asfissia del cristiano.

7. Vocazione universale alla santità
I santi – scrive Madeleine Delbrêl intorno agli anni ‘50 – «avevano tempi ufficiali per pregare / e metodi per fare penitenza, tutto un codice di consigli / e di divieti»58, eppure – rivendica la Delbrêl – anche fuori dai percorsi spirituali che la storia ha segnato, nelle circostanze di ogni giorno è possibile sondare l’insondabile, percepire il tutto nel frammento.
Questa è l’originalità della Delbrêl: aver aperto una strada in cui è possibile al cristiano comune vivere i radicalismi evangelici, rendendo non più necessario un monastero, o alcun’ altra condizione esterna. Perché il canto dei grilli o il silenzio deve renderci più ben disposti verso Dio che una strada piena di gente? Al deserto il Signore ha sempre preferito gli uomini59, ricorda Madeleine. Diventare santi è proprio di alcuni, mentre essere santi è compito assegnato da Dio ad ogni uomo; dunque la via alla santità non deve necessariamente essere legata a personalità o caratteristiche d’eccezione, non solo perché è necessaria la spoliazione di sé, ma soprattutto per la convinzione della Nostra che è la totalità dell’uomo ad essere accolta da Dio: «La nostra condizione è di avere un corpo – scrive Madeleine60 – con questo abbiamo a che fare da mattina a sera; a volte ne saremo felici, ma a volte ne sentiremo la pesantezza – surchage – tanto da chiedere di esserne liberati; pur tuttavia questo corpo è l’argilla di Adamo che il Signore santificherà, il tempio dello Spirito ed è con esso che entreremo nel Regno; Dio «non ne ignora alcuna debolezza, alcun compromesso, alcuna deviazione. Eppure l’ha scelto per farne il corpo di un santo»61.
La Delbrêl sembra dirci che solo questa piena coscienza ed accettazione di ciò che l’uomo è, è già santità; essere fedeli a se stessi, in fondo, significa essere fedeli a ciò che Dio ha voluto per noi; niente infatti è così negativo nel nostro corpo da incatenarci, impedire o ingombrare; tutto ciò che siamo, al contrario, è la condizione essenziale per la nostra santità.

NOTE
1 M. Delbrêl, Indivisibile amore, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 48.
2 Cf l’imponente opera di Z. Bauman ed in particolare i testi Modernità liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002; Vita liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari 2006; Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Ed. Laterza, Roma-Bari 2006; Paura liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari 2006; infine il recente Futuro liquido. Società, uomo, politica e filosofia, AlboVersorio, Milano 2014.
3 M. Delbrêl, La gioia di credere, Gribaudi, Milano 1988 (I edizione 1970), p. 202.
4 Cf ad esempio la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37).
5 Cf M. Delbrêl, La gioia di credere, cit., p. 203.
6 Ivi, p. 195.
7 Id., Opera Omnia, vol. II, Gribaudi, Milano 2007, p. 169.
8 Cf Id., Noi delle strade, Gribaudi, Milano 1988 (I edizione 1969), p. 275.
9 Cf ivi, p. 227.
10 Cf Id., Indivisibile amore, cit., p. 26.
11 Id., La gioia di credere, cit., p. 201.
12 Id., Opera Omnia, vol. I, Gribaudi, Milano 2007, p. 133.
13 Id., Opera Omnia, vol. II, cit., p. 152.
14 Cf Id., La gioia di credere, cit., p. 202.
15 Cf Id., Indivisibile amore, cit., p. 27.
16 Id., La gioia di credere, cit., p. 204.
17 Cf ivi, p. 204.
18 Id., La gioia di credere, Gribaudi, Milano 1988 (I edizione 1970), p. 205.
19 Cf Mt 25,1-13.
20 M. Delbrêl, La gioia di credere, cit., p. 205.
21 Cf ivi, p. 203.
22 Cf ivi, p. 206.
23 Ivi, p. 206.
24 Ivi, p. 213.
25 Nella spiritualità cristiana, il deserto è luogo di tentazione, ma anche luogo di incontro con Dio.
26 M. Delbrêl, La gioia di credere, cit., p. 35.
27 Ivi, p. 38.
28 Ivi, p. 36.
29 Cf Id., Opera Omnia, vol. II, p. 31.
30 Cf Id., La gioia di credere, cit., p. 42.
31 Ivi, pp. 84-85.
32 Ivi, p. 214.
33 Ivi, p. 215.
34 Cf ivi, p. 46.
35 Id., Opera Omnia, vol. II, Gribaudi, Milano 2007, p. 149.
36 Id., Noi delle strade, Gribaudi, Milano 1988 (I edizione 1969), pp. 88-89.
37 Id., Indivisibile amore, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 129.
38 Id., Opera Omnia, vol. I, cit., p. 185.
39 Il non cedere a facili trionfalismi si apprende alla scuola di un Cristo che «è lì da venti secoli, carne di obbrobri, carne di dolori, carne di riscatto, e che tu lo voglia o no il suo terribile grido “Ho sete” grida in te. Tappati le orecchie, sfuggilo, cerca di non capire, bisognerà che un giorno tu sappia quale divina e radiosa esigenza c’è in questo grido» (M. Delbrêl, Opera Omnia, vol. I, cit., p. 96), così scrive Madeleine.
40 M. Delbrêl, La gioia di credere, Gribaudi, Milano 1988 (I edizione 1970), p. 144.
41 Id., Comunità secondo il Vangelo, Gribaudi, Milano 19964, p. 26; tema che richiama il distacco della mistica.
42 Id., La gioia di credere, cit., p. 157.
43 Ivi, p. 157.
44 Ivi, p. 267.
45 Id., Indivisibile amore, cit., p. 24.
46 Ivi, p. 98.
47 Cf ivi, p. 98.
48 Id., Opera Omnia, vol. II, cit., p. 126.
49 Ivi, pp. 176-177.
50 Cf Mt 13,24-30.
51 Cf M. Delbrêl, Indivisibile amore, cit., p. 101.
52 Ivi, p. 102.
53 Id., Noi delle strade, cit., p. 297.
54 Id., Opera Omnia, vol. I, cit., p. 198.
55 Ivi, p. 206.
56 Id., Opera Omnia, vol. II, cit., p. 134.
57 Il testo di riferimento si trova in M. Delbrêl, Opera Omnia, vol. I, cit., pp. 35-37, pertanto le citazioni vengono segnalate soltanto con il corsivo.
58 M. Delbrêl, La gioia di credere, cit., p. 85.
59 Ivi, p. 300: «Se ami il deserto, non dimenticare che Dio preferisce gli uomini».
60 Ivi, p. 156.
61 Ivi, p. 156.