N.04
Luglio/Agosto 2015

Vocazione… cos’è?

In dialogo con gli esperti

Il Seminario di formazione sulla Direzione spirituale a servizio dell’orientamento vocazionale vuole essere un aiuto concreto ad educatori ed educatrici che vivono il prezioso servizio dell’accompagnamento.
Sono sempre molte le domande che rimbalzano a conclusione delle relazioni, dei laboratori, o nei diversi momenti di fraterna condivisione.
Alcune di queste domande hanno costruito il dialogo con d.Luca Garbinetto e Claudia Ciotti – entrambi psicologi e formatori –, che hanno condiviso la loro ricerca ed esperienza formativa, spirituale e pastorale offrendo alcune indicazioni concrete per accompagnare i giovani nel discernimento della personale vocazione.

Cosa significa ricercare la volontà di Dio?

Claudia Ciotti: Il tema della ricerca della volontà di Dio è un tema realmente enorme. Cercare la volontà di Dio significa desiderare di sintonizzarsi con quello che sta nel suo cuore, cioè un desiderio di pienezza d’amore. Cosa vuole certamente Dio? Che noi sappiamo di essere figli suoi, amati incondizionatamente da lui. Tutto ciò che favorisce questa consapevolezza favorisce in noi la possibilità di vivere le scelte concrete della nostra esistenza come “vocazione”.
Chi accompagna ha bisogno di non perdere di vista questo orizzonte, ma deve imparare a guardare il giovane dal punto di vista di Dio. Certo, poi occorre tenere presente che gli accompagnamenti possono essere molto diversi a secondo del momento esistenziale in cui si trovano le persone: un conto è accompagnare degli adolescenti, un conto è accompagnare persone che hanno una vita spirituale avviata, un conto è accompagnare ragazzi che si stanno aprendo in questo preciso momento alla domanda su Dio, o chi è già in cammino nella formazione vocazionale specifica. L’accompagnatore, senza perdere di vista quell’orizzonte, deve saper capire il loro punto di vista e desiderare per loro il meglio, perché possano diventare una terra buona per accogliere la Parola.
Recentemente e casualmente ho sentito una frase di Rilke che dice: «L’amore vero è quello che ti fa diventare il meglio che puoi diventare». La storia di ciascuno è la storia di una libertà che tenta di raggiungere questo meglio. C’è un punto d’arrivo? C’è una perfezione ideale? La nostra vita vale nella misura in cui ciascuno fa il meglio che può fare su questa strada. Sappiamo che comunque alla fine non ci sarà un premio meritato, ma ci sarà un premio regalato da parte Dio.
Noi dobbiamo aiutare le persone che accompagniamo a sapere che la ricerca della volontà di Dio si muove dentro questo percorso e che proprio questo percorso è vocazione, nella misura in cui risponde ad una chiamata, che di volta in volta si struttura nelle scelte concrete che danno continuità e forma a tale ricerca. Cercare la volontà di Dio non è la ricerca affannosa del tesoro nascosto. Credo che sia giunto il tempo di smettere di pensare a Dio come colui che sa tutto di noi fin dall’inizio e da qualche parte ha nascosto un biglietto e se non lo troviamo buttiamo via la nostra vita. Dio ci vuole persone libere, non burattini.
La ricerca della volontà di Dio ha senso se la leggiamo dentro una relazione d’amore dove certamente ci sono le due libertà: quella di Dio che crea e ci precede nell’amore, e la nostra libertà che… viene alla luce (è creata) e impara a rispondere. La scoperta di questa relazione è la nostra vita. Dio è come un padre che desidera il meglio per il proprio figlio o la propria figlia e non vuole che egli faccia in modo costrittivo il bene che pure vede e desidera per lui/ lei. Un padre e una madre si mettono in ascolto delle aspirazioni del proprio figlio. Ricordiamo la bella pagina del Vangelo in cui Gesù, di fronte all’uomo cieco che gli chiede di avere pietà di lui gli chiede: «Che vuoi che io faccia per te?» (Lc 18,41). A noi sembra paradossale, cosa vuoi che ti chieda un cieco? Si sa che vuole essere guarito. E invece, è importante che in quel momento Gesù si fermi e gli chieda: «Tu cosa vuoi? Me lo devi dire!». Se uno non passa da lì, siamo sicuri che quello che fa è condotto dal cuore che invoca la salvezza e si fida di uno che chiama “Figlio di Davide”? O non potrebbe essere fatto per imitazioni di altri, o come gesto magico, in cui l’esperienza interiore è molto povera? Con questa piccola frase Gesù ci dà una lezione di discernimento molto pratica: perché si parli di scelta vocazionale è necessario che la persona entri in un rapporto libero e consapevole, personale con lui. Non vogliamo burattini, ma cristiani adulti consapevoli, capaci di portare anche il peso delle loro scelte e la fatica che comporta ogni scelta per il Signore. Ma se io non sono convinto, prima o poi, quando viene meno il sostegno esterno, o la ricompensa propria della richiesta magica, rimango senza riferimenti.
Un altro aspetto importante per capire cosa sia la vocazione, che è anche e sempre ricerca della volontà di Dio, è la sua condizione di storicità. La vicenda umana di ciascuno accade sempre nella storia, che per sua natura è fatta di condizioni puntuali che possono essere viste come “condizionamenti” – in senso negativo (limitazioni della libertà di azione), ma che – se cambiamo il nostro atteggiamento – sono invece condizioni di possibilità della nostra storia: io sono nata qui e non sono nata lì, sono donna e non sono uomo, ho avuto una famiglia povera e non una famiglia ricca. La nostra è sempre e solo una libertà creaturale. Così le condizioni storiche diventano il luogo del mio “venire al mondo”, dove scopro e cresce la mia identità personale, la mia vocazione. Dentro lì il Signore mi parla e dentro lì ho bisogno di trovare la mia risposta d’amore al Signore.
Assumere le condizioni storiche della mia esistenza come luogo in cui il Signore viene a parlarmi vuol dire educare la mia libertà e quella delle persone che accompagniamo a prendersi sul serio e a fare della propria vita un capolavoro con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Saranno poveri? Ma è tutto quello che si possiede e quello che si possiede lo si deve ridare a Dio. Pensiamo: quanti cristiani anche nel mondo di oggi possono scegliere tutto quello che vogliono fare? Pensiamo al lavoro. Qualcuno potrebbe essere obbligato da un padre o ad una madre a fare un lavoro che non avrebbe pensato. Ma quante persone non possono scegliere un lavoro che desiderano, che vorrebbero mettere in atto ma… stanno dentro condizioni di vita limitanti, che però possono assumere come luogo in cui rispondere all’amore di Dio e alla verità di se stessi. Essere liberi non è poter fare tutto, ma saper scegliere il bene possibile, in questa precisa circostanza storica. Solo così si cresce e si educa la propria libertà. Imparare ad amare se stessi in queste condizioni storiche, imparare ad amare le persone che si servono in queste condizione è quello che il Signore ci dona con la sua presenza e ci chiede di condividere.
Non si capisce la vita come vocazione al di fuori della logica del dono. Pensare il martirio come momento finale della vita in cui uno dà la vita con il sangue è anche edificante, ma non sappiamo se e quando ci sarà chiesto. Mentre ci auguriamo che non ce ne sia bisogno, d’altra parte ci prepariamo ad ogni eventualità imparando a vivere il martirio quotidiano come testimonianza di una vita vissuta camminando con Dio, nelle condizioni storiche limitate e limitanti, ma nelle quali la salvezza è entrata. Ricordiamo la conclusione del Vangelo di Zaccheo: «Oggi, la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). La casa e l’oggi, il quotidiano della nostra esistenza, trasfigurato e salvato dalla presenza del Signore che ci rende capaci di amare come lui ha amato. Ogni vocazione credo davvero debba passare di lì. 

Come interpretare la dinamica tra la libertà di Dio che chiama e quella dell’uomo che risponde?

Luca Garbinetto: La vocazione è un incontro di queste due libertà, ma è importante dire che queste due libertà, che si cercano reciprocamente, sono due libertà in alleanza. Uno dei malintesi più seri lo si ha quando si pensa che la libertà di Dio possa essere in contrapposizione o a rischio per la mia libertà: mi sembra che sia un malinteso purtroppo assai presente anche nella Chiesa.
A livello dell’accompagnamento questo chiama in causa, prima che l’accompagnato, il modo in cui l’accompagnatore vive il proprio rapporto con Dio. Infatti, io posso avere un’idea chiarissima di tutto questo, anche se la vocazione rimane un mistero, ma in ogni caso, se non la vivo come alleanza tra le due libertà, non riesco a trasmettere questa verità e quindi non riesco neanche ad accompagnare adeguatamente la persona che ho di fronte.
È importante essere convinti che l’accompagnamento lo fa in primo luogo l’accompagnatore. Servono gli strumenti, le tecniche e via dicendo, ma prima di tutto nella relazione c’è colui che accompagna, con la sua persona, con la sua storia.
Possiamo dire che la vocazione è il tuo rapporto con Dio qui e adesso. Di conseguenza, se Madeleine diceva – parafrasando una sua lettera –: «Che tu voglia o non voglia, che tu lo sappia o non lo sappia: Dio c’è!», noi possiamo aggiungere: «Che tu lo sappia o non lo sappia, che tu voglia o non voglia anche tu ci sei». Voglio dire che l’accompagnatore è sempre coinvolto nella relazione con tutto se stesso, inclusa la sua vivenza vocazionale.
Dal punto di vista dell’accompagnato, invece, mi pare importante sottolineare che il suo percorso ha alcune tappe di sviluppo. Per questo, il modo in cui si propone l’idea di vocazione deve essere anche rispettosa delle sue tappe dello sviluppo. E in alcune di queste tappe sembra opportuno dire semplicemente: «Dio ha un progetto su di te, ha pensato un posto per te», ma non per comunicare che la persona deve adeguarsi a tale progetto, come quando – scusate l’immagine – sulla spiaggia si gioca con le formine a fare le tartarughine con la sabbia. L’idea che soggiace a tale espressione è piuttosto quella che Dio si prende cura di te da sempre e per sempre. Per questo Dio ti ha fatto unico e irripetibile e nessuno può occupare il tuo posto nella storia.
A volte la domanda sulla libertà nella vocazione viene posta in questi termini: «La chiamata è qualcosa che Dio ha già pensato da sempre e a cui c’è solo da aderire passivamente, oppure viene costruita insieme da Dio e dall’uomo?». A me sembra che si tratti di un falso quesito, perché l’idea che sostiene in profondità le due visioni della vocazione è la stessa: c’è un Dio che ha cura di te, che fa alleanza con te e insieme a te poi costruisce la vita. Ribadisco che se io educatore, oltre a comprenderlo con l’intelligenza, non lo vivo, è difficile che riesca a comunicarlo a chi accompagno. Nel momento in cui il ragazzo mi sfiderà, senza saperlo, a toccare alcune parti di me in cui sono in difficoltà, io eviterò più o meno consapevolmente di entrare in quell’ambito. 

Come vivere una relazione di “presenza-assenza” nel cammino di accompagnamento?

Claudia Ciotti: Indico solo qualche spunto. Dipende innanzitutto da chi abbiamo di fronte e dalla situazione. La mappa concettuale in cui possiamo collocare la situazione singola però è sempre fatta da momenti di presenza e da momenti di assenza. Tutte le relazioni, quella con Dio, quella con gli amici, quella tra marito e moglie, quella con i figli, vivono di questa dinamica bipolare. Abitare questo bipolarismo della relazione e abitarlo in un modo sereno, armonico, fa la maturità di una persona.
Quando uno è troppo sbilanciato sul polo della dipendenza e non sa stare solo, vivere in autonomia, prendere le proprie decisioni, tollerare i propri stati d’animo, siamo di fronte a qualche problema.
Ovviamente dovremo valutare tale sofferenza collocandola nell’età evolutiva della persona: se è un bambino lo abbraccerò; se è un ragazzino gli darò una carezza, ma lo stimolerò ad affrontare il mondo; ma se è un uomo o una donna di trenta, quarant’anni che non sa camminare da solo/a e ha sempre bisogno di conferme e appoggi, la valutazione e l’atteggiamento sarà certamente diverso.
Nel cammino di crescita nella fede e vocazionale, ci possono essere momenti di maggiore fragilità, dove il bisogno di appoggio si fa più pressante, ma come guida dovrei saper valutare fino a che punto fa bene alla persona, ne favorisce la crescita o invece perpetua una dipendenza di tipo infantile. Valutata la situazione, dovrò trovare il modo di incoraggiarlo perché sviluppi di più le capacità necessarie per vivere anche il polo dell’autonomia: solitudine, distanza, assenza del mio conforto e fiducia in se stesso. Questo vale per tutte le guide: per i genitori, per gli educatori, per le guide spirituali…
C’è chi si lascia fagocitare dalla relazione, magari con buone motivazioni, da chi ha bisogno di essere accudito, non dimenticato, e gli offre costantemente la propria presenza. Ma a lungo andare questo porta a far crescere la dipendenza dalla guida. Riuscire a rassicurare quando ci sono, ma anche stimolare a fare un tratto di strada da solo. Aiutarlo a vedere che c’è un orizzonte diverso in cui può muoversi, una gioia diversa nel saper camminare da solo, non solo è compito dell’accompagnatore, ma è necessario alla dinamica vocazionale. È come quando un bambino impara a camminare e la mamma si discosta da lui e gli dice: «Vieni». È un momento drammatico e insieme eccitante, il bambino deve imparare a gestire la solitudine, il vuoto… quella stessa scena è possibile rivederla nella relazione con la guida spirituale. Se non fa distanza, quel ragazzo non impara a camminare da solo. Quindi dobbiamo saper valutare il caso concreto: il discernimento è sempre un evento pratico, storico.
Sul polo opposto è importante anche considerare il caso in cui la persona invece sfugge alla relazione e vive arroccato sul polo dell’autonomia. Allora sarà necessario richiamarlo alla presenza, alla dipendenza. Non è raro che ci incontriamo anche con momenti esistenziali o persone che preferiscono invece questo tipo di posizionamento nella relazione. Anche in questo caso, con i dovuti modi, senza costrizioni e valutando il tipo di accompagnamento – un conto è il ragazzo che seguo nel gruppo giovani della parrocchia, un conto è il seminarista che non va mai dal padre spirituale –, dovrò decidere come intervenire, in che misura e con quali parole richiamare alla continuità e alla profondità nella relazione.
Nel considerare tutte queste cose ricordiamoci però che la relazione è sempre duplice: c’è l’accompagnato e colui che accompagna.
La valutazione quindi è sempre duplice: cosa è bene per lui/ lei? E come questo suo atteggiamento condiziona le mie aspettative?
Quali miei bisogni entrano in gioco in questa relazione? Sono consapevole e sufficientemente distaccato da essi per essere libero nell’accompagnare lui/lei verso il discernimento del suo bene?
Pensiamo al caso in cui se non mi cerca uno che incontro malvolentieri, non mi pongo nemmeno il problema. Se invece non mi cerca uno che mi gratifica, perché mi piace, perché mi dà rimandi positivi su di me… allora faccio di tutto per offrirgli tutte le possibilità di incontro. Imparare a conoscerci anche rispetto a questi nostri bisogni è importante per non ingannare la persona accompagnata, noi stessi e Dio. Siamo chiamati ad essere strumenti adeguati per l’accompagnamento. Quindi è importante tenerci le nostre frustra zioni, le nostre fatiche. Vivere una relazione casta che significa non possedere le persone, è rispettare l’altro ed essere felici che prenda la distanza da noi e viva la sua vita. Costa questo? Certo che costa!
In alcune situazioni costa anche tanto perché ti affezioni alla persona che accompagni. Ma questa è la fatica propria del generare vita, sia nella carne, sia secondo lo Spirito. 

Perché è importante ascoltare le proprie reazione interiori nell’ascolto della persona?

Luca Garbinetto: Partire dall’ascolto di se stessi nella relazione di accompagnamento suggerisce uno stile, quasi un metodo di lavoro. Mi pare importante ricordare alcuni passaggi che possono orientare il modo di approcciarsi alla persona che si accompagna.
Il primo suggerimento importante è domandarsi fin da subito: «Come mi sento, come sto davanti a questa persona?». È fondamentale farlo fin dal primo contatto: quando ricevi la telefonata o l’SMS di questo giovane che ti cerca, o della superiora che ti manda una consorella a parlare con te, o del direttore del seminario che ti chiede una consulenza… Chiediti: «Io come comincio a reagire? Come mi sento?». Si fa così esercizio di ascoltare le proprie reazioni e nel perderci tempo si impara a non avere fretta di sistemare le cose subito. Questo ci mette nell’atteggiamento di poter ascoltare l’altro con pazienza.
A riguardo dell’ascolto di noi stessi, poi, non dobbiamo aver paura di dirci che abbiamo delle precomprensioni; anzi, a volte – sebbene la cosa ci faccia persino un po’ di ribrezzo – abbiamo alcuni pregiudizi.
Mi sembra che sostenere che “non dobbiamo avere pregiudizi” sia poco realista, poiché è inevitabile che io – anche come accompagnatore – mi porti dietro la mia storia e la mia memoria affettiva e che a partire da lì si formino in me le percezioni e i pensieri verso la persona che accompagno. Io ho il mio modo di vedere la vita e di fronte all’altro lo porto sempre con me. Non è questo il problema: il problema è quando penso di non avere nessun pregiudizio e di essere totalmente neutrale nel mio approccio all’altro! Infatti, anche se non me ne accorgo, le mie precomprensioni ci sono ugualmente e rischiano di condizionarmi senza che io me ne renda conto.
In questo contesto, a cosa serve fare attenzione alle mie reazioni interiori? È utile perché aiuta a farmi rendere conto non tanto se ci sono, ma di quali possano essere le mie precomprensioni. I sentimenti, le emozioni che provo, i pensieri spontanei possono essere segnali che manifestano la presenza di queste precomprensioni.
Dirselo permette di gestirle meglio. Solo successivamente si può iniziare a cercare di comprendere quali sono i punti forti e i punti deboli della persona che accompagno perché imparo a distinguere ciò che è mio e ciò che è dell’altro, i sentimenti che porto dentro di me e quelli che percepisco nella persona che ho di fronte.
Quando si spende del tempo per imparare ad ascoltare le proprie reazioni, si evita la frenesia di andare subito a cercare le risposte a ciò che l’altro mi sta dicendo. Spesso, infatti, le persone che vengono a raccontarti qualcosa non sono immediatamente interessate a ciò che tu gli rispondi. Inizialmente cercano soltanto chi le ascolti.
D’altro canto, nel processo vocazionale il primo scopo della relazione di accompagnamento non è quello di dare risposte o soluzioni pronte alle difficoltà che si presentano, bensì quello di generare quella fiducia che permetta all’accompagnato di lavorare su se stesso in vista della propria crescita. La relazione è fondamentalmente uno spazio in cui l’accompagnato può fare esperienza della fiducia, che rimanda alla fiducia di Dio nei suoi confronti. Dunque, per l’accompagnatore avere familiarità con le proprie reazioni è un modo per facilitare l’instaurarsi di una relazione autentica e di fiducia.
A volte risulta difficile riconoscere ciò che si prova. Diamo per assodato che sempre si prova qualcosa. Infatti, i sentimenti e le emozioni sono una realtà della nostra affettività che si attivano sempre, anche in questo momento mentre stiamo parlando. Tutti proviamo sentimenti ed emozioni, sebbene in diversa intensità. La domanda allora non è se provo o non provo qualcosa, ma come imparare a riconoscere ciò che provo. A tal proposito, mi sembra che ritorniamo all’importanza di lavorare su noi stessi anche noi accompagnanti, per poter essere più liberi nell’accompagnare e aiutare le altre persone.
Questo significa che è utile sentirsi in cammino per tutta la vita e magari farsi a nostra volta aiutare con un accompagnamento.
Oltre a ciò, qualche volta può aiutare anche acquisire competenze, quindi formarsi nel senso più tecnico del termine, per esempio partecipando a seminari o a corsi specifici e leggendo testi significativi. 

Come riconoscere se il servizio di accompagnamento spirituale fa crescere la persona che accompagno?

Luca Garbinetto: Per avere il polso del servizio di accompagnamento che sto facendo mi sembra importante confrontarsi. A tal proposito, vorrei suggerire la pratica della supervisione. Farsi aiutare nell’accompagnamento, chiedere consiglio, confrontarsi è molto saggio. Anche se non si ha possibilità di contattare un esperto, ci si può affidare a un confratello o a una consorella con più esperienza, o comunque a qualcuno che instauri una relazione non paritaria con noi per verificare il nostro lavoro. Anche i rapporti di amicizia possono aiutare, ma la supervisione – che non è una relazione di amicizia – dà più libertà per essere anche stimolati, se fosse necessario, a cambiare.
Nella supervisione si pone a volte il problema del rispetto della privacy della persona. È la questione tanto dibattuta nella Chiesa del foro interno e del foro esterno. Il problema si pone perché, quando una persona viene e ci racconta la sua vita, noi siamo chiamati prima di tutto a custodirla con grande rispetto. In alcuni casi – che qui non possiamo trattare – ci sono indicazioni specifiche della Chiesa sui confini da rispettare. Io però aggiungerei un altro principio fondamentale, che è il bene della persona che ho davanti. Se il bene della persona passa attraverso di me e io mi sento inadeguato a rispondere da solo alle sue esigenze, cercare un aiuto mi pare importante proprio nella logica del rispetto e della promozione del suo bene. Questo non significa che debba rivelare tutto ciò che mi viene detto. Farò anche il possibile per cercare aiuto da una persona esterna, che non conosca l’interessato. E in questo senso è utile valorizzare i rapporti tra noi che si creano anche in queste occasioni di formazione.
Tuttavia, mi pare molto importante non cadere nella tentazione che l’attenzione al foro interno del ragazzo in realtà nasconda le mie fatiche a lasciarmi mettere in discussione, a dire che non ce la faccio, a riconoscere certi limiti nel mio servizio. Il mio bisogno di riconoscimento non deve prevalere sul bene dell’accompagnato. 

Quando affidare chi si sta accompagnando ad un’altra persona?

Claudia Ciotti: Offro solo qualche rapido spunto di riflessione che meriterebbe un approfondimento più ampio.
1) Quando la relazione stagna e la persona non procede nel suo cammino spirituale e umano. In questi casi spesso l’accompagnatore se ne rende cono e per onestà deve rimandare la persona a qualcun altro che la possa aiutare realmente.
2) Quando cresce troppo la conflittualità nella relazione. Cioè non ci si capisce, non ci si intende, ci si percepisce come alleati, anzi ci si percepisce in opposizione. In queste circostanze vengono meno le condizioni di fiducia per cui un accompagnamento possa portare i suoi frutti.
3) Quando si instaura un legame eccessivo e capisco che mi sto legando troppo a questa persona e che ho sorpassato quella necessaria distanza perché io possa avere su di lei, su di lui, uno sguardo oggettivo, buono per lui e per me. Quando chi accompagno fa troppo parte della mia vita, mi sta troppo a cuore la relazione con lui/lei.
A questo punto, onestamente, devo dire: «Ti consegno a qualcun altro»; cioè: «Non ce la faccio a gestire la mia relazione con te».
4) Quando viene a mancare la fiducia. La relazione può anche non essere conflittuale, ma io posso avvertire che la persona non si fida di me, non si apre, si chiude e non cammina. La fiducia è la condizione base per poter fare un ragionamento che porti frutto. 

Come curare le ferite nella vita delle persone che accompagno?

Luca Garbinetto: Penso che prima di tutto sarebbe utile chiarire cosa si intende quando si parla di ferite, ma è un tema troppo vasto per approfondirlo qui. Ci potrebbe essere il rischio di applicare sguardi moralistici sulle ferite, di identificarle soltanto con gli sbagli commessi nella vita e di sostenere quindi che bisogna guarirle a tutti i costi, cioè superarle e rimarginarle in modo che non ci siano più. Questo sguardo è rischioso.
Mi pare infatti che ci siano ferite che dipendono dalla storia della persona, da scelte che sono state fatte, ma va detto che nella dimensione psichica, nella dinamica della persona, ci sono ferite più profonde. Può darsi che proprio queste abbiano determinato le scelte sbagliate della persona, che poi hanno ulteriormente ferito la persona stessa, fino ad arrivare a volte anche ad essere scelte di peccato.
Di fronte a una tale complessità, prima di tutto penso che ci si debba tranquillizzare e uscire dal mito dell’onnipotenza, che fa pensare che noi possiamo e dobbiamo guarire le ferite dell’altro: non ce lo chiede nessuno! Nel nostro servizio è necessario non avere la fretta, è importante non avere la pretesa o la presunzione di poter essere noi i guaritori dell’altro. Lo potremo diventare solo nella misura in cui ci liberiamo dalla presunzione di esserlo.
Liberarci da queste pretese di onnipotenza ci rimanda nuovamente all’importanza di lavorare su noi stessi, sulle nostre ferite, sui nostri blocchi, sulla nostra maturazione. Infatti, se non lavoriamo su questo, nel momento in cui potessimo riuscire a intercettare le ferite dell’altro che si legano alle nostre, rimarremmo bloccati, rischiando di condizionare anche il cammino dell’altra persona.
Va detto che è la relazione che guarisce. Per lo stesso motivo, è la relazione che ferisce. Qui sta la nostra responsabilità. Infatti, ciò che aiuta a lavorare sulle ferite delle persone è una relazione che sia stabile, sicura, affidabile. Si crea così il clima di fiducia che permette alla persona di lavorare su se stessa e questo lavorio sta già operando una progressiva sanazione laddove essa è possibile.
Si sperimenta così che alcune ferite si potranno superare, rimarginare… ma altre no. Spesso vanno semplicemente accolte. Si apre qui uno spazio di incontro tra la dimensione psichica e quella più strettamente spirituale. Possiamo infatti entrare nella logica che proprio in quella esperienza di ferita si rivela il Signore e che proprio lì si realizza la nostra vocazione. Le ferite, dunque, non sono necessariamente un ostacolo al mio dialogo con Dio, all’azione di Dio nella mia vita. Facendo memoria della propria vita, forse ci si accorgerà che proprio lì Dio è passato, e magari oggi vuole passare in maniera più profonda. Risuona qui il grande mistero della debolezza che diventa forza, come dice San Paolo (cf 2Cor 12,7-10). Non si vuol dire che vada bene tutto; piuttosto, intendo dire che, nello stare dentro l’umiliazione, il dolore, la rabbia che si genera nella memoria di queste ferite, si può aprire uno spazio perché Dio possa rivelarsi.
Per questo l’accompagnamento è qualcosa di straordinario, di delicato, di profondo, di molto bello, che richiede tutta la nostra responsabilità. Quindi, quando noi percepiamo che di fronte a certe ferite non sappiamo, non possiamo, non riusciamo a trovare vie da percorrere, è saggio avere l’umiltà di dire: «Io non so, quindi rimando a qualcun altro»; oppure: «Chiedo consiglio a qualcun altro». 

Si può “sbagliare” la scelta vocazionale?

Claudia Ciotti: Prima ho usato in un modo forte questa immagine: «La vocazione non è la caccia al tesoro». Però il Vangelo dice che il Regno è come il tesoro nascosto, come la perla preziosa (cf Mt 13,44-45). Credo che ciascuno che sta bene nella propria vocazione la vive sperimentando che “mi sento a casa, sono nel luogo dove posso vivere la relazione con il Signore”. Il Regno è proprio questo: è la presenza del Signore nella tua vita e questo è il tesoro. È quel rapporto che tu riesci a coltivare nel modo che tu senti più consono a te, secondo una parola vocazionale che hai accolto e che stai vivendo.
Recupero l’immagine del tesoro perché è evangelica. La vocazione è un tesoro nel senso della presenza del Regno del Signore che regna sulla mia vita.
Come interpretare allora quando c’è la paura di sbagliare vocazione o la sensazione di aver sbagliato? Io non ho nessuna ricetta a riguardo, ma ricordo che San Giovanni dice che «l’amore vero scaccia la paura» (1Gv 4,18). Ciò significa che quando cogliamo una paura, intanto dobbiamo ascoltarla e non sminuirla, perché vuol dire che lì c’è qualcosa della persona. Può essere un eccesso di perfezionismo, o la paura di essere inadeguato. Può esserci qualunque cosa in questa paura. La cosa certa è che finché siamo dominati dalla paura non abbiamo ancora l’apertura di cuore della fede in un amore incondizionato da parte di Dio che ci recupera anche se avessimo sbagliato.
Credo allora che un accompagnamento debba incrociare questa paura e saper fare incontrare la persona con quella parola, che viene dal Vangelo, che può curare quella paura, quella sofferenza.
Credo che l’ostacolo più grande in questo sia non da parte di Dio, che sa che non siamo perfetti e sa che possiamo sbagliare. Egli ha il modo, come diceva Madeleine Delbrêl, di farci capire quello che dobbiamo fare. Il problema è nostro: noi non ci accettiamo nei no stri sbagli, nelle nostre fatiche, nelle nostre ingenerosità. E, quando ci accorgiamo di essere stati così, non ci perdoniamo. Se noi non riusciamo ad avere uno sguardo misericordioso su di noi, imparando dallo sguardo misericordioso che Dio ha su di noi, siamo noi a fare barriera e a non permetterci di crescere ulteriormente nel cammino spirituale e ci imbozzoliamo in questa nostra paura e non usciamo di lì.
Invece il Signore ci mette in cammino, ci fa essere come l’adultera che lui incontra e alla quale dice: «Donna nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,10-11). Mentre la persona incontra l’esperienza di questo amore ricevuto, si rimette in cammino. E non c’è un amore irreversibile. Perché? Perché la meta è sicura. La nostra vocazione può passare da tunnel, da momenti difficili: quante vite sono così!
Pensate anche al matrimonio: quante fatiche, quante relazioni finite.
Per queste persone non c’è più speranza, non c’è più possibilità di una fede radicale? Io non ci credo. Il Signore ama anche queste persone, soprattutto chi è nel momento della fatica, nell’orrore dello sbaglio. Io credo che se Dio predilige qualcuno, predilige proprio queste persone.
Allora dobbiamo entrare in quest’ottica, che è l’ottica di Dio: amare chi più è lontano, chi più è povero, chi più è nella sofferenza.
Credo che questa sia una sfida nell’accompagnamento.

Luca Garbinetto: Mi sento di aggiungere soltanto che, pur sottolineando l’importanza della relazione e dell’ascolto di sé, è opportuno stare attenti al rischio – che mi pare presente molto oggi – di avere una visione individualista della vocazione. Se infatti una persona cerca ciò che la fa stare bene, identificando questo con la volontà di Dio, mi sembra che si sono invertiti i termini. È più corretto dire che “cerco la volontà di Dio, che mi fa stare bene, se Dio vuole che mi faccia stare bene”. Ma se io cerco a tutti i costi di stare bene, perché ritengo che questo è il segno della volontà di Dio, rischio di cadere in una visione un po’ individualista, in cui Dio entra poco. La ricerca della volontà di Dio non è la ricerca di ciò che mi fa stare bene. Se per esempio un fidanzato si pone come criterio ci discernimento per capire se “questa è la donna giusta per me” il fatto che lei lo faccia stare sempre bene, si verifica un grosso problema. Infatti, da fidanzata lei lo farà stare benissimo, ma poi quando si sposano e lei non lo gratificherà più come prima, allora ci sarà un buon motivo per dire che “non è più la mia vocazione, ho sbagliato vocazione”.
Direi di non dimenticare che viviamo in una cultura fondamentalmente narcisista, per cui può essere utile fare riferimento, nel discernimento, ad alcuni elementi oggettivi. Il primo è la dimensione mistica: la vocazione è il mio rapporto con Dio nella storia. E il secondo è la dimensione comunitaria, poiché il confronto aiuta molto.