N.05
Settembre/Ottobre 2015

Per una Chiesa esperta di umanità

È stato il papa Paolo VI, certamente entro le prospettive aperte dal Vaticano II, a definire la Chiesa «rerum humanarum peritissima»: esperta al massimo grado di ciò che è umano1. Una sorta di rivoluzione, a ben pensarci, constatando che fino all’altro ieri era il destino eterno e soprannaturale a occupare e preoccupare pensieri e azioni della Chiesa, a partire dai ministri ordinati; non per niente a loro era affidata – come talvolta si sente ancora dire – la “cura delle anime”, anche se la saggezza evangelica di tanti preti si è sempre fatta carico dell’umanità concreta dei propri parrocchiani.

1. Niente di ciò che è umano mi è estraneo
Ricordiamo, da reminiscenze scolastiche, la frase del commediografo latino Terenzio; e non possiamo che sottoscriverla, anche se apre interrogativi piuttosto che fornire certezze. Come definire ciò che è umano e come farlo in un contesto di grande pluralità? Il meticciato in cui siamo immersi è una ricchezza, ma non semplifica il discernimento che siamo chiamati a fare. In che senso nulla di quanto tocca l’umano ci è estraneo, quando qualcuno afferma che siamo stranieri anzitutto a noi stessi? L’umano che sperimentiamo ha sempre più i connotati di una ricerca, in parte ancora ignota.
Dichiarare un’apertura così radicale all’umano di tutti e di ciascuno corrisponde davvero a prassi praticabili di accoglienza, anzitutto interiori e poi di conseguenza storiche e concrete? Il rischio è di ridurre la frase a slogan, come spesso facciamo con tante belle massime da incorniciare, ritenendo che esprimano dei desiderata ideali se non addirittura idealizzati.
Applicato alla Chiesa questo interessamento all’umano, sottolineato quale attitudine precipua della comunità cristiana, diviene come minimo provocatorio. Da una parte c’è sempre chi richiama al primato dei “beni eterni” e legge la figura della Chiesa esperta in umanità come cedimento alle forme di “orizzontalismo”; dall’altra rimane il sospetto che si tratti di un tardivo recupero di credibilità, a fronte di una storia ecclesiastica segnata da vistose eccezioni a questa attenzione all’umanità, in particolare di chi era considerato appunto estraneo. Papa Francesco non ha esitato a riconoscerlo, quando ha detto ai Valdesi: «Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani, che abbiamo avuto nella storia contro di voi».

2. Umano, troppo umano
L’umano di Gesù di Nazaret prorompe in modo così evidente dai Vangeli, che pure sono narrazioni teologiche della sua vicenda, da non avere dubbi sulla pertinenza della prerogativa di umanità da riconoscere alla proposta cristiana. Le pagine evangeliche testimoniano quanto il Vaticano II afferma sinteticamente: «Chiunque segue Cristo, uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo»2. Anzi, il cuore della nostra fede intreccia indissolubilmente l’umano e il divino, non li giustappone come due livelli uno sopra l’altro. Il Figlio dell’uomo si rivela Figlio di Dio nella pienezza dell’umano che lo contraddistingue; è uomo perfetto per il compimento di umanità che è in Lui e dona a noi, non per un traguardo di perfezionismo che ci pone innanzi. Di conseguenza è divino non per una sorta di aggiunta eccedente l’umanità, ma per un’immersione radicale in essa.
Affermare pertanto che la Chiesa è esperta in umanità significa fare riferimento ad una istanza evangelica che indica non semplicemente ciò che la Chiesa fa, ma ciò che essa è. Voglio dire con questo che sarebbe riduttivo risolvere la perizia, che la Chiesa ha sulle realtà umane, negli aspetti più immediatamente operativi dell’azione ecclesiale. Detto in altre parole: la Chiesa sarebbe esperta in umanità quando si fa attenta ai poveri, sollecita nei confronti di chi ha problemi, interessata alle situazioni sociali, politiche ed economiche. In estrema sintesi: appaltiamo alla Caritas parrocchiale, diocesana e nazionale, tutto quanto riguarda l’attenzione all’umano di cui la Chiesa dovrebbe essere esperta.

3. Esperta di umanità nell’annuncio del Vangelo
Evangelizzare è il senso dell’esserci della Chiesa, questo lo abbiamo capito, anche se in questa parte di mondo l’evangelizzazione ci sfida per la difficoltà a suscitare lo stupore tipico della buona notizia. Ha a che fare, quindi, con ciò che la Chiesa è; secondo una certa prospettiva ecclesiologica, da questo evento comunicativo nel quale qualcuno annuncia il Vangelo che qualcun altro accoglie, la Chiesa viene continuamente generata. Se si interrompe questa trasmissione, perché nessuno annuncia o nessuno accoglie, le comunità cristiane entrano in agonia e un po’ alla volta cessano di esistere. Lo si è visto in parti del mondo un tempo culla della cristianità e oggi quasi prive di una presenza cristiana.
È strano pensare alla Chiesa, così strutturata nelle sue forme visibili soprattutto da noi, affidata al filo tenue dell’azione dello Spirito nella comunicazione del Vangelo, resa possibile dall’accoglienza di noi esseri umani. Nonostante tutti i pesi istituzionali, c’è come una leggerezza in questa continua ecclesiogenesi, nella quale libertà di Dio e libertà dell’uomo s’incontrano. La Chiesa è chiamata ad essere esperta di umanità anzitutto nel cuore della realtà che la costituisce: l’evangelizzazione; e lo deve essere sia per ascoltare significativamente il Vangelo che annuncia, sia per proclamare con frutto il Vangelo ascoltato. Potremmo dire che la somma perizia nelle cose umane va collocata nel cuore della circolarità, così bene espressa all’inizio della costituzione conciliare sulla divina Rivelazione mediante due participi in lingua latina: religiose audiens e fidenter proclamans3. La Chiesa è tale perché in continuo atteggiamento di ascolto con fede e di annuncio con fiducia della Parola di Dio, dove l’ascolto non può non farsi annuncio e l’annuncio rinnovato ascolto; entro questo continuo rimando di uno all’altro, s’incastona l’attenzione all’umano che fa esperta la Chiesa.

4. L’alfabeto dell’umano
La Chiesa italiana, nel Convegno ecclesiale di Verona, ha significativamente affermato: «La vita quotidiana alfabeto per comunicare il Vangelo»4. C’è qui una prima indicazione su che cosa significhi essere esperta di umanità nell’evangelizzazione, per una Chiesa che non voglia diventare muta nei confronti delle donne e degli uomini contemporanei. È necessario ricorrere all’alfabeto dell’umano per dire il Vangelo in modo che da libro scritto ridiventi buona notizia viva e vitale per il nostro tempo. È necessario un ascolto attento e partecipe dell’esistenza umana in tutte le sue forme, anche le più problematiche, o meglio, dovremmo evangelicamente riconoscerle, soprattutto le più problematiche. L’ascolto viene prima di ogni giudizio e scaturisce dall’attitudine a imparare assai più che dall’insegnare; cosa non facile, dopo secoli di Chiesa docente posta in cattedra sopra la Chiesa discente.
Non possiamo non andare con memoria grata alla grande lezione del cardinale Martini, che metteva in cattedra i non credenti e li ascoltava, per comprendere meglio la fede da vivere e il Vangelo da annunciare; mentre qualche suo collega obiettava, ironicamente, che chiedere lumi ai non credenti è come domandare ai sordi di parlare di musica! Non per mitizzare il papa, ma Francesco comunica a tutti proprio per quell’alfabeto dell’umano che si coglie nelle parole e nei gesti; dice il Vangelo con la vita, mostrandosi davvero esperto in umanità. In questo rivela un’elaborazione teologica molto precisa e significativa, tutt’altro che superficiale o banale; senza pertanto che qualcuno nella curia romana si preoccupi di dare una “strutturazione teologica” al papato.
Ricorrere all’alfabeto dell’umano significa riconoscere la necessaria mediazione antropologica e culturale, in cui il Vangelo è nato e di cui ha bisogno per rimanere Parola che parla ad ogni tempo; non per metterci al posto dello Spirito, ma per permettergli di soffiare ancora e sempre. Una Chiesa che non sia esperta in umanità rischia tutti i fondamentalismi, da cui peraltro non sono immuni certe forme ecclesiali movimentistiche, basate sull’immediatezza dell’esperienza religiosa e dell’annuncio di fede.

5. Le parole per dirlo
La Chiesa è esperta in umanità non solo perché ascolta profondamente l’umano e mediante l’accoglienza libera e rispettosa di esso riceve in dono parole per comunicare oggi l’Evangelo; lo è anche perché all’umano di tutti e di ciascuno offre le parole evangeliche, che lo esprimono nella sua realtà più piena. Abbiamo ricordato l’affermazione conciliare, che definisce Cristo l’uomo perfetto, nel senso di compiuto: in lui c’è una pienezza di umanità tale, che seguirlo umanizza noi in tutte le dimensioni della nostra esistenza. Ripeto: non nella forma di un perfezionismo da superman, ma nell’accettazione ed elaborazione delle nostre incompiutezze, dei nostri limiti, dei nostri stessi fallimenti. In questo senso il Vangelo ci permette di dare parole ad ogni esperienza umana, anche e soprattutto quando queste stesse parole sembrano mancarci e i vissuti di umanità stentano perciò a diventare esperienze significative. La Parola di Dio narra l’umano con una libertà e una profondità sorprendenti, non ha censure moralistiche né preclusioni, che impediscano ad ogni storia di diventare storia di salvezza.
È stato rilevato che oggi in particolare i giovani rischiano una vera e propria afasìa in ambito affettivo-sessuale, appunto per la mancanza di parole per esprimere i vissuti che li coinvolgono intensamente nel corpo e nel cuore. Vale anche per gli adulti, spesso incapaci di dire significativamente i fondamentali dell’esperienza umana: la vita e la morte, l’amore e il dolore, la delusione e la speranza… Il mondo adulto si mostra purtroppo assai spesso inesperto di umanità, anche per questo diviene assai difficile il compito educativo e s’inceppa la catena della trasmissione. La Chiesa ha la grande fortuna di poter attingere alla ricchezza del Vangelo, dove l’umano è non solo detto, ma verificato e salvato; questo la rende esperta in umanità non solo per i cristiani o i credenti, ma per ogni donna e uomo alle prese con la propria esistenza. La Parola di Dio, infatti, narra l’umano in forme tutt’altro che religiose o, peggio, confessionali, lo fa con linguaggio che potremmo definire laico, quindi con una universalità che talvolta invece è compromessa dalle affermazioni di stampo ecclesiastico di troppi pronunciamenti.

6. Vocati all’umano e dall’umano
Il tema vocazionale può essere riletto alla luce di quanto detto? Penso di sì e non dovremmo esitare a riconoscere che solamente una Chiesa esperta in umanità può diventare significativo tramite della chiamata, altrimenti è condannata all’afasìa appena rievocata per il mondo adulto nei confronti delle giovani generazioni. Ogni sequela, in definitiva, non può non essere chiamata all’umano; per cui, anche e soprattutto nelle sue forme più radicali, la risposta vocazionale deve testimoniare il compimento dell’umano in chiave evangelica. Chiamati ad essere donne e uomini alla misura della statura di Cristo, possiamo dire con linguaggio paolino; eccoli, i cristiani, umani fino in fondo: né più né meno. Del resto come si può parlare della Chiesa esperta in umanità, se non a partire dai cristiani che realizzano la chiamata evangelica nelle differenti modalità delle loro scelte di vita? La Chiesa non è un collettivo astratto, al quale riferirsi. Siamo noi, chiamati appunto ad una vocazione di umanità, rispetto alla quale niente di tutto quanto è umano ci è estraneo e tutto invece ci riguarda. Con don Milani, possiamo dire: «I care», antidoto a tutti i “me ne frego” di stampo fascista o qualunquista, che la globalizzazione dell’indifferenza rende purtroppo quanto mai attuali.
D’altra parte ogni vocazione non è solo chiamata all’umano, siamo anche vocati dall’umano di noi stessi, della famiglia, della nostra storia, delle persone e delle esperienze che via via ci plasmano. In esse e mediante esse lo Spirito del Signore chiama, la vocazione si fa sentire. Ho sempre diffidato della visione intimista della vocazione, che la pensa in termini di chiamata interiore da discernere in certo senso staccandosi dalla vita; questo in particolare per le vocazioni religiose, ma non solo.
In una delle versioni elaborate nell’iter di stesura della costituzione conciliare Gaudium et spes, si affermava che nella voce del tempo c’è la voce di Dio. Chiudersi nel proprio intimo, per vedere se siamo chiamati, non fa che aumentare le indecisioni e trasforma ancor più la libertà di scelta in libertà dalla scelta. Pensiamo ad esempio alla vocazione matrimoniale: chi chiama è il partner concreto con cui s’instaura una relazione di alleanza, non la vocazione al matrimonio che uno avrebbe prima e al di là della persona che sceglie di amare. Altrimenti è facile arrivare a dire, nei momenti di crisi: Io la vocazione ce l’ho, ma non con te! E il Signore che c’entra in tutto questo? Non ti ha genericamente dato la vocazione a sposarti, ti ha raggiunto attraverso quella concreta persona che ti invita ad una risposta d’amore. Usando l’immagine rievocata sopra, possiamo dire che da un verso l’umano dell’esistenza è l’alfabeto per dire ogni vocazione e dall’altro il Vangelo dona parole per discernere e quindi esprimere le scelte di vita alle quali si è chiamati.

7. Esperta in umanità nella celebrazione liturgica
Anche nella liturgia, culmine e fonte della vita cristiana, la Chiesa rigenera di continuo e mette a frutto il suo essere esperta in umanità. Ciò non significa funzionalizzare l’esperienza liturgica, togliendola dalla gratuità che le è propria; ma è appunto l’umano personale e comunitario ad avere bisogno di tempi e spazi di gratuità, dove in primo piano non sta il risultato di quanto facciamo, bensì il senso profondo di ciò che siamo. Il valore antropologico dei riti non toglie nulla al primato teologico, che la celebrazione esprime, consegnando allo Spirito l’iniziativa; anzi, permette all’esperienza liturgica da una parte di accogliere l’umano di chi la vive, dall’altro di ri-esprimerlo e ri-crearlo in modalità ancora più significative.
L’ars celebrandi, a cui ci si riferisce quando si pensa ad una liturgia che sappia esprimere fino in fondo le sue potenzialità, non può essere ridotta a perizia cerimoniale; ha bisogno davvero di una Chiesa «rerum humanarum peritissima». Pensiamo solo al protagonista dell’azione liturgica: il corpo personale ed ecclesiale; è il corpo ad essere in questione quando viviamo la celebrazione, quindi lo spessore dell’umano coinvolto emerge necessariamente. Una Chiesa esperta in umanità dovrebbe fare dell’appuntamento eucaristico domenicale ciò che permette, settimana dopo settimana, una terapia e insieme un apprendimento di umanità liberata e quindi capace di esprimersi più compiutamente.
Del resto la stessa presidenza liturgica è fortemente ipotecata dal grado di umanità del prete (verrebbe da dire più che dalla sua teologia); anche se non si va a messa per il prete, a motivo della mancata umanità di chi presiede, alcune celebrazioni rischiano di deprimere l’assemblea che le subisce.
Probabilmente c’è un cambiamento di prospettiva da operare: quando la Chiesa celebra la liturgia non allestisce cerimonie, ma narra se stessa alla luce del Vangelo, condividendo con l’umanità intera le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce. Ascoltando un Vangelo, vi sentiamo dentro la vita delle comunità di Matteo o Marco, Luca o Giovanni; così nelle celebrazioni liturgiche di una parrocchia dovremmo percepire i volti che la costituiscono, gli eventi che la attraversano, il territorio che la radica in un pezzetto di mondo aperto all’universalità: in una parola, l’umano in tutte le sue forme.
Personalmente sono critico nei confronti di una visione della liturgia, che la pensa in termini di sacralità e quindi la immerge in una dimensione di verticalità assoluta, in certo senso fuori del tempo e dello spazio. In Gesù Cristo morto e risorto celebriamo la santificazione dell’umano (addirittura del cosmico), di cui Lui si è fatto carico e la Chiesa pure, alla sua sequela.

8. Celebrare l’umano chiamato a fiorire in pienezza
Anche in questa esperienza di umanità, che la Chiesa vive celebrando, è da collocare la riflessione sulle vocazioni. Anzitutto va ricordato che la comunità cristiana ha sempre significato ogni scelta vocazionale mediante la celebrazione liturgica. La prima e fondamentale vocazione, alla vita e alla vita cristiana, ha come suo sigillo liturgico il battesimo; in essa si innestano e si specificano tutte le altre. In regime di cristianità ci siamo dimenticati che essere cristiani è risposta ad una vocazione, non un dato scontato in cui tutti si ritrovano senza averlo scelto. Battezzare significa necessariamente farsi esperti in umanità, a partire dall’immersione nell’umano operata dal Cristo nel suo battesimo, per giungere ad immergere in Lui l’umano di chi riceve il battesimo, in vista di una sua fioritura alla luce paradossale del mistero pasquale.
La Chiesa che battezza i bambini, non può farlo se non è madre esperta in umanità: accoglie, custodisce, fa crescere, educa; battezzando gli adulti, accompagna, verifica, promuove, riconosce e responsabilizza l’umanità di chi diviene cristiano. La prassi generalizzata del battesimo dei bambini, che pure ha un suo senso, ha tuttavia plasmato comunità cristiane dove talvolta sembra mancare proprio il volto adulto dell’umano.
Più in generale dovremmo chiederci se la promozione e la cura delle vocazioni non domandi un ripensamento del nesso con l’esperienza liturgica, che non si risolva nelle forme di attaccamento mistificante all’aspetto cerimoniale del culto. A chi si mette alla sequela di Gesù è chiesto appunto di essere esperto in umanità, non in rubriche; di vivere la liturgia con qualità umana densa e significativa, non con emotività religiosa intimistica o, peggio, devozionale.
Con espressione per noi singolare, in ambito francese si insiste molto sull’immersione nel bagno liturgico, per venirne plasmati ed essere iniziati o re-iniziati alla vita cristiana.
Oggi c’è una sensibilità a questo riguardo, anche nelle giovani generazioni, e non manca la richiesta di esperienze dove trova ampio spazio la dimensione liturgica. Sia chiaro: noi celebriamo Gesù Cristo morto e risorto, non noi stessi; e tuttavia lo celebriamo come Parola fatta carne, azione di grazia che diviene storia. Il riferimento all’umano non solo verifica forme religiose a rischio di non essere cristiane, ma è imprescindibile per il fatto che la celebrazione liturgica è «per noi uomini e per la nostra salvezza»; già in antico si diceva: «sacramenta propter homines». Il grembo liturgico è per eccellenza grembo vocazionale, se peraltro è grembo di una Chiesa esperta in umanità.

9. E la Chiesa in uscita?
Le riflessioni fatte finora potrebbero dare l’impressione che parliamo di cose di Chiesa – evangelizzazione e sacramenti – dimenticando la provocazione, che segna dall’inizio questo pontificato: la Chiesa in uscita; mentre il discorso sull’essere esperta in umanità dovrebbe spingere ad una visione ecclesiologica meno autoreferenziale. Anche la preoccupazione vocazionale troppo spesso rischia di offrire una visione ecclesiocentrica: dobbiamo reclutare personale per l’istituzione ecclesiastica; e questo non solo in riferimento alle vocazioni religiose, ma anche a quelle laicali, percepite come aiuti per far funzionare le parrocchie. Un recupero fondamentale è la prospettiva del regno di Dio, la cui venuta chiediamo nella preghiera che Gesù ci ha insegnato (non chiediamo: venga la tua Chiesa!). La Chiesa è chiamata ad essere esperta in umanità anche nelle realtà più tipicamente intraecclesiali, proprio per riferirsi al regno di Dio e alla sua venuta. Il regno di Dio va oltre la Chiesa, che ne è solo sacramento, e investe appunto l’umano in tutte le sue forme e dimensioni; gli permette di esprimersi in pienezza: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questa sintonia con la venuta del regno di Dio è anche spiazzante, perché il regno viene dove e come noi non penseremmo: dai margini, dalle periferie, dai piccoli e dai poveri, nella modalità del resto, dello scarto. Ciò pone una domanda: di quale umanità la Chiesa si fa esperta? E in chiave vocazionale: di quale umano ha bisogno la vocazione, per esprimersi significativamente?
Accennavo alla visione perfezionista, con la quale si può interpretare l’uomo perfetto che è Gesù Cristo. In certe posizioni, dottrinalmente rigide, non ci si riferisce forse ad un umano perfetto che non si fa carico dell’umano concreto delle persone? Eppure non è una dottrina di verità a salvarci, è la persona di Gesù. E in certe idealizzazioni vocazionali, che facilmente poi crollano su se stesse, non c’è forse un difetto di umanità e un eccesso di spiritualismo? Ricordo spesso, anzitutto a me, che il centro della fede cristiana è il Crocifisso risorto. Il Risorto continua a rimanere crocifisso, fino alla fine dei tempi, quindi l’umanità di cui essere esperti è appunto l’umanità crocifissa, sia come singoli che come popoli; ma il Crocifisso è risorto, pertanto la Chiesa non può non mostrarsi esperta di un’umanità riconciliata, resa capace di esprimersi in pienezza. L’umanesimo di cui la Chiesa è testimone e garante, che essa custodisce e promuove, vive di questa tensione e in questa tensione; che non è irrisolta, ma rende possibile e anima il cammino. 

NOTE
¹ Paolo VI, Populorum progressio, n. 13.
² Gaudium et spes, n. 41.
³ Dei Verbum, n. 1.
4 Cf  Nota pastorale dell’episcopato italiano dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale “Rigenerati per una speranza viva” (1Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, 12.