N.01
Gennaio/Febbraio 2016

Misericordiae vultus. Uno sguardo sanato e rigenerante

1. Misericordia: unica risposta alla realtà umana
L’indizione dell’Anno giubilare ha permesso e sta permettendo ai credenti in Cristo di ricordare come la misericordia non sia una caratteristica tra tante del volto di Dio rivelato compiutamente in Cristo. Non si tratta, in altri termini, di un aspetto di Dio accessorio o che si potrebbe accostare, in modo paratattico, ad altri aspetti, quali l’ira, la giustizia, la vendetta.
Fermo restando che ogni qual volta consideriamo qualche attributo di Dio lo facciamo sempre nella povertà e nell’inadeguatezza del nostro linguaggio umano (e ciò vale per qualunque attributo in questione!), non c’è dubbio che la misericordia abbia un posto centrale nella rivelazione di Dio offerta nel cristianesimo. Non a caso, Papa Francesco inizia la Bolla d’indizione del Giubileo affermando: «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, vivibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, “ricco di misericordia” (Ef 2,4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti tempi della storia la sua natura divina.
Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio (…). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio»1. Una misericordia che – ricorda poco dopo Francesco – è parola che «(…) rivela il mistero della SS. Trinità»; ed è «(…) l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro»2.
Esiste, tuttavia, una profonda corrispondenza tra la misericordia con cui Dio ci viene incontro e la situazione in cui si trova l’umanità, nella sua concretezza. Al di là, infatti, di ogni discorso sulle cause circa le mancanze e le sofferenze dell’umanità o il suo peccato, non c’è alcun dubbio che la condizione umana sia segnata, a molti livelli, dalla fragilità, dalla vulnerabilità e da una condizione di miseria che giunge a quel vertice dato dal peccato: con il quale l’uomo, chiudendosi a Dio e al fratello, si autodistrugge disumanizzandosi.
Si tratta di una realtà che concerne l’uomo di sempre. In quanto, però, l’umano esiste sempre nella concretezza delle donne e degli uomini “in carne ed ossa”, non si può non considerare che si tratta di una situazione che riguarda la concreta umanità che noi siamo e nella quale siamo oggi immersi. Un’umanità in cui per molti la questione principale è chiaramente quella basilare della sopravvivenza; un’umanità per cui ad un benessere crescente può corrispondere, spesso, una desertificazione dell’anima e forme di vulnerabilità un tempo sconosciute; un’umanità in cui permane, per molti, l’esperienza di un male subito e “senza perché”; un’umanità nella quale un forte sviluppo tecnico può accompagnarsi ad una crescente privazione di senso; un’umanità, infine, che può essere vittima e carnefice, al tempo stesso, di “strutture di peccato” produttrici di violenza: realtà, quest’ultima, particolarmente evidente negli effetti di un’economia che porta alla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi e all’impoverimento di moltissimi altri , facendo delle stesse persone uno scarto, come ci rammenta il Papa a più riprese.3
Non sono che esempi, per dire che la misericordia appare come l’unica seria risposta alla situazione umana, nella sua concretezza: una condizione di miseria a cui solo la misericordia può infatti aprire nuove e inedite possibilità. In altri termini, per un’umanità che appare dolorante, ferita, soggetta al male, alla morte e anche al peccato, la misericordia divina si presenta come la sola vera salvezza dell’umano.
A ragione, pertanto, Walter Kasper ha dato avvio ai suoi studi sul tema segnalandone la profonda attualità antropologica: richiamando come il secolo che ci siamo lasciati alla spalle sia stato un secolo terribile e che quello attuale sia iniziato con tragedie che non promettono niente di buono. Sono esperienze che inducono a constatare che «un mondo senza compassione e senza misericordia è un mondo freddo»4 e che «il messaggio della misericordia è di grande attualità»5.
Su questa base, proverò a mostrare qui di seguito come la misericordia divina rivelataci compiutamente in Cristo si presenti quale forza sanante e restaurante la nostra umanità; e come essa ingeneri in noi “sentimenti e prassi di misericordia”, che mentre ci umanizzano ci rendono artefici di umanizzazione.

2. Misericordia: per un umano sanato
La misericordia esprime il cuore di Dio rivolto alle miserie dell’umanità. «L’affermazione: “Dio è misericordia” – asserisce ancora Kasper – significa che Dio ha un cuore per i miseri. Egli non è un Dio, per così dire, sopra le nuvole, disinteressato al destino degli uomini, ma piuttosto si lascia commuovere e toccare dalla miseria dell’uomo. Egli è un Dio compassionevole, un Dio “simpatico” (nel senso originale di questa parola)»6.
Essa concerne il rivolgersi e manifestarsi di Dio nei confronti di un’umanità contrassegnata dalla miseria; benché questo rapportarsi compassionevole e misericordioso nei confronti dell’uomo abbia nell’essere stesso trinitario di Dio le sue condizioni di possibilità. È, in altri termini, perché Dio è amore (1Gv 4,8) che Egli si manifesta all’uomo, lasciandosi toccare dalle sue miserie, dalle sofferenze,  dalle ferite, dai mali che lo affliggono, dalle ingiustizie che subisce.
Si tratta di un aspetto che viene espresso a più riprese già dall’Antico Testamento7 ma che appare con tutta evidenza nelle parole e nella prassi di Gesù.
A questo proposito, occorre vedere con lucidità quanto alcune teologie, esclusivamente incentrate sul peccato dell’uomo, hanno rischiato o rischiano di occultare e che, invece, proposte come quelle offerte dalla teologia della liberazione o politica ci riconsegnano: il fatto, cioè, che in Gesù si riveli un Dio interessato anzitutto alle ferite e alle sofferenze dell’umanità.
Come ha mostrato Metz, c’è in Gesù uno sguardo che si dirige anzitutto al dolore degli altri: sguardo nel quale si rivela il Dio dell’amore con-passionevole. Dice il noto teologo tedesco: «Il primo sguardo di Gesù non fu diretto al peccato degli altri, ma al dolore degli altri»8. Un aspetto che, a suo parere, la teologia cristiana avrebbe obliato troppo in fretta, mutando la questione della sofferenza subita ingiustamente nella questione della redenzione dei colpevoli.
«La dottrina cristiana della redenzione – afferma ancora Metz – drammatizzò troppo la questione della colpa e relativizzò la questione della sofferenza»9.
Non importa qui fare un’analisi del pensiero di Metz: ciò che conta è raccogliere la provocazione a rileggere la vicenda di Gesù quale vertice della rivelazione di Dio, come storia di compassione misericordiosa nei confronti anzitutto dei sofferenti. Se è vero, ad esempio, che una parabola come quella del buon samaritano (Lc 10, 25-37) esprime, in definitiva, l’essere stesso di Cristo, è evidente che gli atteggiamenti ivi descritti dicono come il “primo interesse” di Dio sia davvero nei confronti della nostra umanità, in quanto troppo spesso ferita dal dolore, dalla sofferenza, dall’indifferenza, dal male, dall’ingiustizia, dalla violenza subita. Gli atteggiamenti che contrassegnano il samaritano rispetto all’uomo malmenato e lascia sul ciglio della strada – e che potrebbero essere racchiusi nell’idea di «uno sguardo che sa sentire», in quanto «non solo vede, ma è commosso dal percepire il valore delle creature a fronte di quanto minaccia»10 – esprimono così le diverse sfaccettature dell’amore misericordioso di Dio verso la nostra umanità minacciata e ferita. Si tratta del fatto di vedere l’uomo e di non voltare lo sguardo, attraverso un atteggiamento, dunque, antitetico all’indifferenza; del fatto di prendersi la responsabilità dell’altro; di chinarsi e di sollevarlo; di curarne le ferite; di aprirgli e donargli un futuro…
Tutto ciò è di estremo interesse per la realtà dell’uomo. In questa prospettiva, infatti, appare anzitutto evidente come vada considerato quale realtà “da sanare” non solo l’ingiustizia subita, ma anche tutto il cumulo di sofferenza, di miseria, di ferite, di lesioni… che spesso contrassegnano la nostra umanità.
Alla luce della misericordia divina occorre onestamente riconoscere come una certa superficiale enfasi, trasmessa all’interno di alcune “spiritualità”, sulla sofferenza come valore umano in sé e  per sé vada quanto meno equilibrata: la sofferenza o l’ingiustizia subite possono divenire luogo di umanizzazione in quanto vissute come consegna fiduciosa di sé al Padre che risuscita Gesù Cristo dalla morte, ma non possono essere viste come valore in sé e per sé. Per non dire di certa retorica che, quasi in controcanto e senza sfumature, si è sviluppata attorno all’idea di un Dio sofferente come lo siamo noi. Altro è affermare, infatti, che in Gesù Dio si è lasciato toccare dalle nostre umane sofferenze e vulnerabilità, al fine di sanarci, e che tale coinvolgimento misericordioso è così serio e reale, da non poter lasciare Dio indifferente rispetto all’umano patire e al dolore; altro è dire che Dio semplicemente soffre, al pari di noi.
In tal caso la sofferenza umana diverrebbe qualcosa da ricercare come salvifica e non una realtà dalla quale si attende di venire salvati. Al contrario, proprio questo sguardo divino anzitutto rivolto ai nostri patimenti è ciò che ci stimola a non chiudere gli occhi sulle sofferenze dell’umanità, a non dimenticarle e a non soffocare la domanda misteriosa circa il loro perché. La misericordia di Dio è umanizzante proprio in quanto consente di mantenere aperta la questione del male, al cospetto di Dio.
Non si tratta di poca cosa. Uno dei pericoli più evidenti, infatti di uno sviluppo tecnico che si pensa oggi come salvifico consiste nell’oblio delle sofferenze e delle ferite dell’umanità di cui l’uomo non riesce a venire a capo; ed uno dei pericoli più evidenti di certa logica economica imperante è addirittura l’indifferenza rispetto alla sofferenza, al dolore, alla miseria degli altri.
Il cuore di Dio rivolto ai miseri ci umanizza in quanto ci consente di chiamare per nome le sofferenze e di invocarne la liberazione11.

3. Misericordia: per un umano redento
In Cristo appare, tuttavia, che il cuore di Dio è rivolto anche a quella miseria rappresentata dal “no” dell’uomo detto a Lui e ai fratelli, che è il peccato. Se è vero che il primo sguardo Cristo lo rivolge ai sofferenti, non è meno vero che esso si allarga per raggiungere e includere anche i peccatori: fino a quel vertice rappresentato dal donare la vita, sulla croce, anche per loro e per la loro salvezza.
Nel crocifisso si rivela il Dio che non può essere bloccato dalla nostra miseria umana data dal chiuderci alla relazione con Lui e con gli altri. In tal senso, è vero che – come ci fa esprimere la liturgia – l’onnipotenza di Dio si manifesta soprattutto nella sua misericordia12. Egli è realmente più grande del nostro peccato; ed esso, per quanto grande, non ha il potere di interrompere la sua offerta di comunione con Lui. La misericordia divina, che appare con tutta evidenza sulla croce, esprime l’intenzione e la forza di Dio di aprire all’uomo una nuova possibilità, di offrire un nuovo inizio anche laddove, con il peccato, ogni relazione sembra compromessa.
Qual è il risvolto più espressamente antropologico di tale misericordia?
Esso è da rintracciare nel fatto che il perdono di Dio non si presenta come una realtà, per così dire, estrinseca e non implicante la partecipazione attiva dell’uomo. Pur essendo assolutamente indebito e gratuito e pur rappresentando la fedeltà di Dio anche al cospetto dell’infedeltà umana, esso va a buon fine quando ripristina la relazione: dunque, quando l’uomo muta condotta e ritorna a Dio. Il fine della misericordia è che l’uomo torni ad essere partner autentico della relazione e della comunione con Dio. La fedeltà di Dio, fino al perdono, non è priva di intenzioni; il suo dis-interesse è tale in forza dell’unico interesse: la persona del peccatore, e il fatto che egli possa di nuovo ritrovare la verità di se stesso, ritrovando quella relazione con Dio che – da parte dell’uomo – il peccato spezza e corrompe.
Questo si evidenzia nel fatto che nei Vangeli l’offerta del Regno  e del perdono da parte di Gesù non sono scisse dall’invito alla conversione o a “non peccare più”; e nel fatto, più radicale, che il dono della vita sulla croce non è separabile dalla risurrezione e dalla possibilità aperta all’uomo, attraverso la conversione e la fede, di partecipare, sin d’ora, della vita del Risorto e, dunque, della vita divina.
Può essere utile, a tal proposito, rileggere la lezione di un autorevole maestro quale Anselmo d’Aosta in un testo, il Cur Deus homo, che è stato troppo spesso frainteso e incompreso. Il motivo della “necessità” della soddisfazione nella morte in croce di Cristo non è da rintracciare in una prospettiva di giustizia o, peggio, di vendetta di Dio, che oscurerebbe la misericordia divina. Essa è motivata, al contrario, dalla restaurazione dell’uomo, affinché gli sia possibile ritrovare la beatitudine, da cui il peccato lo allontana. Per spiegarlo, Anselmo usa una similitudine: quella della perla preziosa pulita, che viene insudiciata e che non può essere deposta in un luogo pulito e caro, senza che prima venga pulita. L’uomo non può tornare alla beatitudine di cui godeva prima del peccato, se prima non viene risanato, in modo tale da poter raggiungere, nella sua umanità, quella beatitudine per cui Dio lo ha voluto13.
Si tratta di un aspetto su cui vale la pena meditare, in quanto assai istruttivo per la nostra realtà umana. Esso ci dice che il peccato, in qualunque sua forma, non è qualcosa che ci umanizza: quando viviamo dinamismi di peccato ci allontaniamo dalla verità di noi stessi, disumanizzandoci. Il peccato ci allontana, infatti, da quella beatitudine autentica per cui siamo stati voluti. Inoltre, la teologia di Anselmo ci assicura che la misericordia divina ci guarisce in quanto realmente cambia il nostro essere e non come qualcosa di estrinseco a noi, alla nostra volontà e alla nostra libertà. La misericordia di Dio non è qualcosa che ci lascia così come siamo, quasi che Dio sia indifferente al fatto che con la nostra stessa libertà e volontà umane ritorniamo a Lui ed entriamo in comunione con Lui. Essa ci rende capaci, al contrario, di aderire a Lui con tutto il cuore, ritornando a volere, con tutto noi stessi, ciò che ci rende veramente felici14.
È qualcosa su cui occorre riflettere a fondo, soprattutto oggi, in chiave educativa. In un contesto in cui, sul piano psicologico, è molto facile che abbiano il sopravvento dinamiche di tipo “narcisistico” è infatti forte il pericolo di interpretare la misericordia divina come se fosse qualcosa di indifferente a ciò che siamo, che possiamo fare o che possiamo diventare. Il perdono, al contrario, va a buon fine quando riattiva dinamismi di conversione e di crescita; quando rimette il gusto del bene; quando apre le persone al desiderio di entrare in relazione con Dio e con gli altri; quando porta a percepire che si è autenticamente realizzati come umani, non quando si vive egoisticamente, immersi in dinamismi di menzogna o intenti a difendere se stessi, ma quando, al contrario, ci si dischiude con  fiducia a Dio e al prossimo, quando si desidera essere in autentica  comunione con Lui e con i fratelli, quando si ridiventa capaci di cura nei confronti dell’altro…

4. Misericordia genera misericordia
Le osservazioni appena fatte inducono a considerare, sia pure brevemente, un ultimo aspetto della misericordia, decisivo tuttavia sul piano antropologico.
Fare in modo autentico l’esperienza della misericordia – sia perché ci si è percepiti oggetto di cura e di premura altrui, sia perché si è stati perdonati – non può che portare a ridondare questo dono su altri: sperimentando, in tal modo, che è il vivere in modo misericordioso a renderci più umani15.
C’è un senso, in questa prospettiva, per cui Gesù stesso propone ai suoi discepoli la beatitudine della misericordia (Mt 5,7), li invita ad essere misericordiosi come è misericordioso il Padre celeste  (Lc 6,36), rammenta loro che Dio vuole misericordia e non sacrificio (Mt 12,7),li esorta ad amarsi come (kathós) Lui stesso li ha amati (Gv 15,12). Infatti, è laddove l’uomo diviene capace di vedere  veramente l’altro, nella situazione reale in cui si trova, vincendo l’indifferenza; è quando è capace di avere cura delle debolezze e delle ferite dell’altro; ed è quando diviene capace di mantenere la fedeltà all’altro anche laddove egli ha interrotto il legame… è lì che si realizza la parte più autentica della sua umanità.
La misericordia che umanizza quanti la vivono e la “praticano” diviene, a sua volta, fonte di umanizzazione per quanti ne sono oggetto. La cura ricevuta dall’altro, la sua compassione, il suo vedere e lenire le nostre ferite, il suo perdonare… ci permettono di sviluppare sentimenti e prassi analoghi e, così, di umanizzarci. E questo perché si rende in tal modo evidente che quanto permette all’umanità di esistere è la misericordia ricevuta e donata: ovvero il legame fraterno con gli altri, quale legame più profondo e più forte dello stesso peccato.
Anche questi aspetti hanno una portata educativa. Da essi si può apprendere che educare davvero un essere umano significa trasmettergli la sapienza consistente nel divenire consapevole di non essere così povero da non avere sempre qualcosa da donare all’altro; e di non essere così ricco da non percepire il debito della vita, dell’esistenza e del perdono altrui, per poter vivere.

NOTE
1  Francesco, Misericordiae vultus. Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, Paoline, Milano 2015, n. 1.
Ivi, n. 2.
3  Come nota Gilbert, introducendo e contestualizzando nella contemporaneità il suo significativo testo su violenza e compassione, «l’injustice ne dépend pas des seuls individus, le péché n’est pas qu’individuel. Les personnes, riches ou pauvres, se trouvent prises, malgré elles ou à leur insu, dans un tourbillon qui dépasse chacun et nous emporte tous dans le mal – ce que la foi chrétienne énonce en terme de “péché originel”,  de ce poids qui pèse su chacun de nous, habituellment en dépit de nous-même mais  parfois aussi avec notre concours». P. gilbert, Violence et compassion. Essai sur l’authenticité d’être, Cerf, Paris 2009, p. 9.
4  W. kasPer, La sfida della misericordia, Qiqajon, Magnano (BI) 2015, p. 20.
Ivi, p. 22. Cf su questo tutto il primo capitolo del suo studio più diffuso: W. kasPer, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Querinina, Brescia 2015, pp. 7-36.
6  W. kasper, La sfida della misericordia, cit., p. 39.
7  Cf W. kasper, Misericordia, cit., pp. 68-93.
8  J.b. metz, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana, Brescia 2009, p. 153.
Ivi, p. 154.
10 R. Mancini, Dio nella misericordia. L’identità evangelica di amore, giustizia e verità, in «Filosofia e teologia» XXIX (2015/2), pp. 212-225. Può essere utile consultare l’intero numero della Rivista, dedicato al tema “Nuovi sguardi su Dio”.
11  In una bella omelia, scritta in forma di lettera, in occasione dell’anniversario dell’amico e confratello ucciso Ignacio Ellacuría, Jon Sobrino chiede una maggiore serietà davanti a Dio perché afferma che nelle società capitaliste c’è «una forte tendenza a banalizzare Dio, a infantilizzare la religiosità e ad evaporare la spiritualità fino a trasformarla in spiritualismo terapeutico, disincarnato e inoffensivo», che ci impedisce di guardare il Dio liberatore con quella serietà che ci umanizza. J. sobrino, Lettere a Ignacio Ellacuría, EMI, Bologna 2006, p. 94.
12  Cf Prefazio della Preghiera eucaristica della riconciliazione. I.
13  Cf anselmo di canterbury, Cur Deus homo, I, 19. Per la comprensione di tale dinamica, sul piano antropologico, cf n. albanesi, Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo arcivescovo di Carterbury, PUG, Roma 2002, pp. 130-131. Per vedere, più ampiamente, come in Anselmo l’esigenza di giustizia non comprometta la misericordia, ma sia invece importante per non incorrere in una visione eccessivamente “antropomorfica” della stessa, che non tenga conto della “differenza” divina, è utile cf m. corbin, Introduction à l’Epistola et au Cur Deus Homo, in anselme  de canterbery, L’incarnation du Verbe. Pourquoi un Dieu homme, 3, Cerf, Paris 1988, pp. 11-166; 42-48. Utile anche, per comprendere il rapporto in tutta l’opera anselmiana, cf P. gilbert, Justice et miséricorde dans le «Proslogion» de saint Anselme, in «Nuovelle Revue Théologique» 118 (1986), pp. 218-238.
14  Ciò ha a che fare con l’esigenza di giustizia per un uomo che è creatura e riceve la vita: cf P. gilbert, Justice et miséricorde, cit., pp. 222-224.
15  Su questi dinamismi che contrassegnano anche il dono mi permetto di rimandare a r. repole, Dono, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, pp. 63-67.
16  Cf X, léon-duFour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, III, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 106-109; 226.