N.03
Maggio/Giugno 2016

Voler essere migliori!

Alessandra Amoroso

Tutti vogliamo essere felici.
Si tratta di capire come si fa.
C’è chi dice che si tratta di essere presenti a se stessi,
chi di trovare la propria vera natura, chi di individuare la propria strada…
Uno degli elementi trainanti della felicità è il miglioramento:
capire chi si è, comprendere i propri limiti, valorizzare le proprie capacità, raggiungere gli obiettivi che ci si propone.
Bisogna desiderare i passi che portano ad essere migliori e così godere di una vita felice.

 

Alessandra Amoroso nasce a Galatina, in provincia di Lecce, il 12 agosto del 1986. Fino all’età di ventidue anni vive a Lecce. Canta da quando è bambina e, sin da giovane, sono diverse le competizioni canore in cui concorre. A diciassette anni partecipa ai provini per la trasmissione tv Amici, di Maria De Filippi: supera i primi passi, ma non arriva ad essere scelta per andare in onda. Intanto lavora come commessa in un negozio del centro di Lecce; in precedenza aveva avuto anche esperienze come cameriera e animatrice.
Nel giugno del 2007 vince la seconda edizione del concorso pugliese “Fiori di Pesco”. Riprova ancora con Amici e finalmente riesce ad entrare nella scuola, per l’ottava edizione (2008/2009) della trasmissione.
Si fa apprezzare per il suo talento tanto da arrivare a incidere un singolo dal titolo Immobile, che raggiunge la prima posizione nella classifica FIMI. Il 25 marzo 2009 è incoronata regina vincitrice di Amici.
Durante la finale le viene inoltre assegnato il premio della critica: una borsa di studio. Alessandra Amoroso riesce così a continuare gli studi con il maestro Luca Jurman, suo mentore.
Il 6 giugno 2009 viene insignita di due premi Wind Music Award multiplatino, per le vendite del suo EP e della compilation Scialla.
Lanciata nel panorama musicale italiano, viene apprezzata anche come personaggio pubblico.
Non fa mancare il suo impegno nel sociale e dal 2009 collabora con ADMO (Associazione Donatori Midollo Osseo) per la campagna di sensibilizzazione “Un donatore moltiplica la vita”.
Diventa testimonial dell’Associazione.

Il singolo è stato scritto da Elisa Toffoli. Queste le parole riconoscenti di Alessandra Amoroso: «Grazie per avermi permesso di mettere me stessa in musica».
La cantante stessa ha annunciato l’uscita del singolo attraverso la sua pagina Facebook, allegando al post un’immagine del video ufficiale:
«Buonasera a tutti, vi svelo una delle mie sorprese! “Comunque andare” sarà il prossimo singolo estratto da Vivere a colori, e sarà in rotazione radiofonica da venerdì. Un brano al quale sono molto affezionata perché è scritto con Elisa, un’artista meravigliosa. Un brano che parla della positività e della speranza con cui mi piace affrontare tutto ciò che mi capita; il protagonista è l’Amore, che per me è il motore e il senso di tutto. Non vedo l’ora di ballare e cantare questo pezzo insieme!».
Testo e musica che dicono voglia di vivere, di crescere con il sorriso, nonostante le inevitabili difficoltà che la vita mette di fronte.
Dicono bisogno di custodire la spensieratezza che spesso si rischia di lasciare appesa ai soli anni dell’adolescenza, ma che invece si dovrebbe portare con noi nel corso dell’intera vita, per imparare a concedere spazio all’animo bambino che nei momenti difficili non può che aiutarci a reagire, a pensare al bello che deve arrivare.
Comunque andare, senza fermarsi, senza rammaricarsi per le cose passate; andare, sorridendo al pensiero di ciò che potrà ancora accadere. Presentarsi al futuro con un curriculum carico di esperienze, di insicurezze e paure, ma comunque pieno di vita, l’importante è non rimanere fermi, bloccati, inermi. La vita ha bisogno di reazioni.

Pazienti nell’andare
Il nostro tempo, segnato dalla velocità e dalla fretta, dalla concitazione dei gesti, dal rapido susseguirsi degli eventi, sembra essere inospitale per la pratica della pazienza. Dobbiamo fare presto, procedere spediti, in una dimensione in cui la simultaneità delle azioni e degli eventi sembra la condizione dello stare al mondo.
Pazienza è al contrario e in primo luogo una qualità della durata. Esige un allungamento del presente, una sua dilatazione. I progenitori della nostra specie si sono affaticati nell’apprendere l’arte di sopravvivere e poi di vivere, di imparare l’uso delle cose, di costruire relazioni, di sperimentare; la vita nasce dunque anche grazie all’infinita pazienza di tentare e ritentare, attendere, fermarsi, elaborare.
Tutta la vicenda umana è un lento esercizio di pazienza, come quello dell’uomo per costruire, del bambino per crescere, degli amanti per incontrarsi, dei vecchi per morire, della natura per dare frutto, della parola per prendere forma.
La pazienza deve segnare il nostro passo, il nostro procedere nel cammino, il nostro andare verso noi stessi e verso l’altro; va riscoperta come modo dell’ascolto, come stile del muoversi e del sostare: essa rigenera e dà qualità al vivere e al relazionarsi. Non è arrendevolezza né una virtù per deboli: anzi, richiede forza, proviene da una profonda pietà e si trasforma nella responsabilità di aver cura del vivente attraverso il dinamismo di scelte attente e operose.
Nel Nuovo Testamento, Gesù, il patiens per eccellenza, è in costante movimento per quella sua impellenza di dire, di andare, di predicare, di incontrare, eppure rivela sempre un’andatura paziente, calma, perché aver cura richiede tempo, passione, premura, attenzione, attesa. In una parola: pazienza.
Ci vuole pazienza per «portare i pesi gli uni degli altri». Una pazienza che, inevitabilmente, è parte vibrante della chiamata cristiana.

Cercare la luce
Cosa significa essere cercatori di luce, sempre, nel fondo delle persone e delle cose? Forse significa avere una vita spirituale, una vita che trova il suo centro, il suo equilibrio tra solitudine e mondo, tra ricerca personale e relazione con gli altri. È una postura precisa che chiede di rivalutare una virtù: la curiosità. Questa, lontano dall’essere vanità intellettuale, perdita di tempo o insulso modo di impiegare se stessi nelle cose, è invece cura per l’umano, apertura all’alterità, sollecitudine per l’esistente: è obbedire alla vocazione data ad ogni uomo, al compito di abitare il mondo, conoscendolo.
Conoscere è, infatti, abitare, esplorare, interrogare. E la solitudine ne è la condizione; perciò ad essa va orientato il nostro desiderio.
La solitudine non è, qui, la desolazione dell’abbandono e dell’isolamento, del rifiuto e dello sfratto dal mondo degli altri, ma il luogo in cui tentare di incontrare se stessi, di scoprire il dialogo interiore, di riconoscere la propria alterità, così da arrivare ad abitare con se stessi, in modo profondo, autentico e sano; è ricerca di essenzialità.
Divenire intimi con se stessi vuol dire ascoltare, leggere, conoscere, sopportare se stessi; fare memoria, dare nome a quel che viviamo, amare la luce che siamo.
Allora la solitudine è lo spazio della preghiera e della contemplazione.
È la vera attività umana, la spiritualità, il lavoro interiore del pensare, del riflettere, del giudicare, del discernere in vista dell’azione.
È l’impegno che ci conduce a sapere chi siamo.
Educare a questa intimità! È una sfida e un compito appassionante per l’educatore. Egli deve insegnare a riflettere e a stupirsi; deve insegnare a lasciarsi interpellare dalle cose, dagli eventi, dagli altri; deve insegnare a farsi illuminare. Così educa alla scoperta, alla sorpresa e alla meraviglia di un rinnovato contatto con la realtà, di un modo di essere nel mondo che diviene fecondo.
Partendo dalle sue doti, dalle sue passioni, dalle sue capacità, insegnare e aiutare ogni giovane ad esserci in tutto ciò che fa, totalmente presente in quel che compie: ogni cosa quando è fatta, essendo tu in tutto ciò che fai, infonde anima e vita, dà valore e bellezza. Riflette la bellezza che sei!
Essere presenti è un lavoro sulla coscienza, sulla consapevolezza, sulla responsabilità e sulla bellezza, appunto.

Profumo che rimane
Una vita vissuta per gli altri. Quanto spesso lo si ribadisce. L’altro e il suo bisogno. E si mette in gioco, a volte, un altruismo cieco, una carità miope che non vedono tutto l’altro.
La pazienza e la solitudine restituiscono l’utilità dell’inutile. L’inutile che non dà profitto, ma agisce su altre dimensioni: quelle dell’essere. C’è bisogno di essere riconosciuti nei rapporti, c’è bisogno della gratuità dello sguardo che vede.
Una vita non “per” gli altri, ma “con” gli altri, in relazione.
L’altro non destinatario di un pacco dono, seppur bello, ma sguardo da incrociare, vita da contemplare, prospettiva da condividere.
L’altro che è lì, ci sta di fronte e ci ingaggia in un confronto, in un esercizio di intelligenza. È la dinamica del bene effettivo e oggettivo cercato con passione e premura perché amare significa essere profezia per l’altro, essere illuminazione: lui e io a divenire, nell’incontro, più uomini, più persone, in una reciproca narrazione cristologica.
Le opere della misericordia sono esplicitazione di questa attenzione alla persona dell’altro; interpellano e sollecitano a parlare dell’amore con la propria persona, a raccontarlo con i propri gesti.
Papa Francesco dice Chi è la misericordia: «La misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio.
È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono».

La rosa
Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata.
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti.
La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo.
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta. Un giorno la giovane francese, meravigliata, domandò al poeta: «Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?». «Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani», rispose il poeta.
Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene.
Allora accadde qualcosa di inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò, stringendo la rosa al seno.
Per una intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via, silenziosa e immobile come sempre.
«Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?». «Della rosa». Rispose il poeta (Bruno Ferrero, L’importante è la rosa. Piccole storie per l’anima).