N.04
Luglio/agosto 2016

Gioia e fatiche dell’accompagnamento vocazionale

1. La gioia dell’accompagnamento vocazionale
Quando mi è stato chiesto di riflettere su questo argomento, è stato subito facile riandare alle fatiche del ministero di accompagnamento. Penso che queste fatiche le conosciamo tutti. È stato invece più impegnativo, e coinvolgente, mettere a tema la gioia.

1.1 Il profilo dell’accompagnatore: il perdente
Sono giunto ad una conclusione che qui espongo. Mi pare si tratti della gioia del senso.
Questo significa mettersi al servizio di qualcuno perché si interroghi, conosca, assuma, attui il senso della propria vita attraverso un determinato percorso.
Se questo è vero, sono persuaso allora che il profilo intimo dell’accompagnatore sia quello del perdente, cioè il profilo della gratuità, il profilo di chi solo a condizione di non aspettarsi nessun esito dal proprio ministero potrà attenderne qualcuno.
In una parola: l’accompagnatore non è l’uomo, o la donna, dalle aspettative che comportano sempre un piano e un calcolo, ma è l’uomo e la donna dalle attese il cui motore è il desiderio. La soglia tra aspettativa – indispensabile nei processi educativi – e l’attesa è molto labile.
Ma solo l’attesa rende il cuore libero e totale nel dono. Per questo perdente.
La sua è la spiritualità del debitore. Non vanta crediti, ma è in debito con tutti.
Da qui germogliano, a mio parere, alcune sue virtù relazionali col «Mistero Santo che noi chiamiamo Dio» (K. Rahner) e col mistero santo della persona accompagnata: povero, umile, mite, paziente, misericordioso, oblativo trasparente, pulito, casto.
Esprimere queste convinzioni ci colloca in una zona di frontiera, sempre inesprimibile, eppure espressa, perché è lo spazio delle aspirazioni più profonde e più vere, ma non è spazio di una vera e propria, reale, collaudata esperienza. Siamo tutti apprendisti. Vivere il ministero dell’accompagnamento è abitare una zona di frontiera, habitat di forti esperienze spirituali, ove si è spesso analfabeti, e innanzi alle quali Gesù insistentemente esorta al silenzio.
I grandi “Staretz” – i padri e le madri del deserto come quelli dell’epoca attuale – sono stati, secondo me, grandi perdenti. Sia i padri (gli abbà) che le madri (le ammà) delle Laure di Palestina ed Egitto, della Tebaide e della Cappadocia, fino a Matai el Meskin dei nostri tempi; da Benedetto a Francesco d’Assisi, fino a Teresa d’Avila, a Francesco di Sales e Giovanna Francesca di Chantal, Vincenzo de’ Paoli e Luisa di Marillac al p. Lallemant, Don Bosco, e i Beati Antonio Rosmini e John Henry Newman, Marta Robin, Don Orione, tutti sono stati a parere mio dei poveri. Nella sua Regola, volendo segnalare ai suoi monaci l’ideale del discepolo evangelico, San Benedetto ha scritto: «Publicanus ille» («Quel Pubblicano»).
In un colloquio, il card. Martini mi disse una volta che pochi anni prima di essere arcivescovo di Milano era venuto in treno da Roma in una località della mia terra ligure per ascoltare un presbitero che egli accompagnava e che stava lasciando il ministero, come è poi avvenuto. Conosco la gratitudine di quel prete per l’aria dimessa, “perdente” con cui il padre gesuita l’accompagnava.

1.2 L’evangelizzatore
Propongo un’altra considerazione previa, che concerne, a mio modesto parere, tutto il ministero dell’accompagnamento vocazionale. Mi riferisco al fatto che tale ministero suppone ed esige, cioè si radica, su di un altro ministero, che è quello dell’annuncio. Se è carente, debole, a volte – permettetemi – quasi assente l’evangelizzazione, non germoglia alcun ministero di accompagnamento. E quando dico annuncio, non mi riferisco affatto alle varie parenesi, esortazioni, sulle vocazioni, cioè quel tipo di ministero della Parola circa le vocazioni che, a volte, alcuni dei nostri giovani definiscono con ironia e dolore “caccia e pesca”.
Mi riferisco ad un tipo di annuncio che sia realmente evangelizzazione, cioè notizia nuova e bella, sul discepolato cristiano, sull’incontro con Gesù, il Dio-uomo, amico degli uomini, vivo tra noi per generare ininterrottamente una nuova umanità e capace di affascinare.
Perché faccio questa premessa? Perché – e chiedo scusa se mi sto sbagliando – guardandomi attorno assisto a volte ad una pastorale giovanile ove sembrerebbe che il Vangelo, e la persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio, non abbiano più la capacità di attrarre le giovani generazioni.
Mi pare che l’annuncio rivolto loro abbia encomiabili componenti emotive, psicologiche, spesso brillantemente proposte grazie anche agli strumenti digitali, ma dove si fa fatica a cogliere la forza esplosiva del Vangelo di Gesù.
Accade allora che ci sia richiesta di colloqui di accompagnamento, le cui motivazioni e i cui contenuti rivelano le componenti della proposta educativa recepita, dove la ricerca vocazionale nella prospettiva della sequela Christi o è assente, o del tutto sbiadita.
Mi riferisco non soltanto alla sequela evangelica nella prospettiva d’una scelta di cosiddetta “speciale consacrazione”, ma alla sequela entro la vita cristiana aperta a qualunque tipo di scelta vocazionale.
Ricordo un giovane, appena laureato, impegnato in Azione Cattolica, che stava compiendo discernimento in vista del seminario, ove poi è entrato, ed è prete da alcuni anni. Quel giovane aveva partecipato ad una giornata diocesana vocazionale e il vescovo locale aveva manifestato a lungo la sua preoccupazione per la carenza di vocazioni e aveva esortato con forza quei giovani a compiere una scelta definitiva. Quel giovane, indignato, commentava: «Come può il vescovo chiedere di entrare in seminario quando dalle sue omelie e discorsi non ho mai ricevuto una parola che abbia nutrito davvero la mia fede?».

1.3 La gioia del senso e la corrispondente fatica
Mi è stato proposto di riflettere con voi su un binomio: gioie e fatiche dell’accompagnamento vocazionale. Propongo di riflettere su alcuni tratti di questo ministero considerando per ciascuno di essi, come in un dittico, “la gioia del senso” e la corrispondente fatica che ogni aspetto di questo splendido ministero comporta.

2. Annuncio – Ascolto
2.1 La gioia
L’accompagnamento spirituale è un momento alto di evangelizzazione personalizzata. Paolo VI ha scritto nell’Evangelii Nuntiandi – e Papa Francesco ha citato più volte quelle parole – «la dolce e confortante gioia di evangelizzare» (EN 80).
L’accompagnamento appartiene al ministero della Parola, non al ministero sacramentale. È evangelizzazione rivolta ad una persona precisa, che esige una sua conoscenza approfondita e una altrettanto profonda conoscenza di quale annuncio vada rivolto perché l’interlocutore possa illuminare il proprio il vissuto.
Si tratta di evangelizzazione del profondo. È facile limitarsi all’evangelizzazione dei comportamenti – puntualità, competenza, adempienze – che sono certo importanti, ma quello che occorre è che la Parola di Dio ponga una persona a contatto con le proprie emozioni, sogni, desideri, paure, speranze.
Nei Vangeli i dialoghi del Signore Gesù sono tutti differenziati a seconda di quanto sta accadendo “dentro” la persona con cui dialoga.
Pensiamo a Nicodemo, o a Zaccheo, alla Samaritana, o all’adultera1.

2.2 La fatica
Se l’annuncio con cui si cerca di aiutare l’altro a far luce sul proprio mondo interiore è motivo di gioia, poiché consente all’accompagnatore di assaporare la libertà e la pace che la Parola genera, al tempo stesso è avvertita la fatica dello stare in ascolto.
In ascolto dello Spirito Santo, in ascolto d’una persona.
Non è così difficile pronunciare parole a servizio della Parola, è molto più difficile ascoltare l’altro che è la persona accompagnata, e l’Altro che è tutt’altro da noi, e che è sempre Oltre le nostre definizioni. Qui sembra verissimo al sottoscritto che solo gli assidui ascoltatori del Mistero santo e ineffabile che noi chiamiamo Dio, possono diventare raffinati interpreti del mistero dell’uomo.
Questo ministero di un annuncio personalizzato esige, per quanto povera sia, una tensione contemplativa continua.
Vale la pena ricordare che noi tutti usufruiamo di quattro comunicazioni verbali: parlare, leggere, scrivere, ascoltare. Le prime tre le abbiamo imparate in famiglia e a scuola. Ci è mai stato insegnato ad ascoltare? L’arte dell’ascolto è preziosissima e va imparata continuamente.
Esistono anche testi eccellenti al riguardo.
La terapia dell’ascolto è fondamentale. È una grazia ed è un compito faticoso da apprendere.

3. Cura – Controllo
3.1. La gioia
Accompagnare significa avere cura. Ed è una gioia farsi carico di qualcuno. L’intensità di una relazione di cura ci restituisce sempre un maggior senso della nostra stessa identità. Prendersi cura di qualcuno vuol dire anche scoprire meglio sé stessi.
Penso che vadano differenziati il “curare” e il “prendersi cura”.
Curare significa operare un intervento isolato: ad esempio, in campo della salute fisica io curo se procuro una medicina a chi non si sente bene; in campo spirituale vocazionale io curo se do un buon consiglio alla persona interessata.
Prendersi cura significa molto di più. Non ci si limita ad una medicina o a un consiglio, ma ci si fa carico dell’altro in modo continuativo, lo si porta nel cuore, nel pensiero, nella preghiera. L’altro diventa una presenza viva e interpellante nella mia vita.
È una gioia il far memoria delle persone che si accompagnano non solo nella preghiera, ma in tanti incontri che si intersecano e ci rinviano l’uno all’altro. Anche la pagina di un libro o la sequenza di un film, o una canzone, può rimandarmi alle persone di cui mi prendo cura e a volte anche suggerirmi una strada da percorrere. Se poi ci accade di accompagnare nella stessa stagione persone diverse, può succedere che quanto ascoltiamo da una di esse ci apra brecce e orizzonti per il discernimento con un’altra persona, se veramente sto prendendomi cura di entrambe.

3.2 La fatica
Esiste una soglia labile tra la cura e il controllo.
Accade che il prendersi cura più gratuito, che si esprime in parole, attitudini, sguardi, sia interpretato dalla persona che accompagniamo come un controllo. Ed è fatica essere fedeli alla cura evitando qualunque espressività verbale o simbolica che possa essere recepita come controllo. Il controllo è una forma raffinata, e sovente inconsapevole, di potere.
Il prendersi cura crea un legame e il senso di responsabilità nei confronti dell’altro può diventare controllo. La soglia tra la cura e il potere è molto labile, ed è per questo tanto più facile oltrepassarla.
Il deterrente per sfuggire a questo scambio, tra la cura e il potere, sembra sia una verifica attenta e regolare del nostro stile di cura, in spirito di povertà. I terapeuti hanno un supervisore che consultano regolarmente. Non è prevista una figura analoga per il ministero dell’accompagnamento, ma nulla vieta che si scelga un esperto, adulto nella fede, per sottoporre alla sua considerazione l’eventualità di una nostra cura contagiata dal potere.

4. Genitorialità – Transfert
4.1 La gioia
Ogni esperienza educativa introduce l’educatore in un dinamismo genitoriale. Educare significa generare alla vita. In modo particolare l’accompagnamento vocazionale diventa un percorso di paternità-maternità.
Accompagnare una persona perché entri in contatto col progetto iscritto in lei sulla propria esistenza significa aiutare qualcuno a rinascere, a dare cioè un nome alle proprie attese ed inquietudini, alle proprie speranze e desideri, in vista di una loro attuazione. Riconoscendo il divino disegno depositato in lei, la persona assapora la gioia del contatto con un sogno custodito in maniera indefinita e che ora assume un profilo. E questa gioia è condivisa dall’accompagnatore.

4.2 La fatica
La genitorialità coincide con un fenomeno noto oggi come transfert e controtransfert. Questo linguaggio crea solitamente disagio, data la sua origine psicoanalitica.
Ha studiato questo argomento un maestro accreditato sull’accompagnamento spirituale, Andrè Louf, nel suo noto testo Generati dallo Spirito2. Il disagio nasce dal ritenere che un tale linguaggio non consideri il primato assoluto dell’azione dello Spirito Santo al cuore della relazione di accompagnamento spirituale.
Domanda A. Louf: «Tutta l’arte dell’accompagnamento spirituale non dovrebbe consistere per l’appunto nello sfuggire alla “tentazione” del transfert, con tutta la sua ambiguità e le sue complicazioni?». E risponde: «Il transfert non è per nulla una “tentazione” a cui si possa sfuggire. È un dato di fatto, lo si voglia o no, lo si dissimuli o no. Certo, è un fatto che sfugge in parte alla coscienza, un fatto dunque in parte inconscio. Ma tutti sanno che le realtà psicologiche sono tanto più temibili e hanno degli effetti tanto più perversi quanto più restano inconsce e si evita di guardarle in faccia. Il transfert, tuttavia, è inconscio solo molto parzialmente. Per un occhio esperto è relativamente facile individuarlo da certi segni che non ingannano».
Esiste per l’accompagnatore un compito, che comporta fatica, nell’essere vigilante su questo fenomeno che coinvolge sia lui che la persona accompagnata. Il transfert consiste nel trasferire da parte dell’accompagnato una propria figura genitoriale nell’accompagnatore e viceversa per quest’ultimo.
Louf continua scrivendo: «Il fatto di accompagnare un altro può peraltro rimediare, in parte, alle lacune dell’accompagnamento a suo tempo ricevuto con più o meno efficacia. Anche per l’accompagnatore, infatti, la situazione di transfert è innanzitutto una chance, e non un rischio. Se gestita correttamente può, in definitiva, costringerlo a una rinuncia positiva ai propri desideri, insegnargli a “desiderare senza voler essere esaudito”, obbligandolo a diminuire incessantemente dinanzi alla libertà e all’autonomia crescente dell’altro. In una parola: è un’occasione non da poco per imparare ad amare veramente. Si, nell’accompagnamento spirituale sono entrambi gli interlocutori a trarre beneficio»4.

5. Discernimento – Scelta
5.1 La gioia
Obiettivo dell’accompagnamento vocazionale è un percorso di inveramento che mira a discernere se in un soggetto esistono le qualità naturali e acquisite, umane e cristiane, dalle quali si possa cautamente evincere che sono iscritte in lui, o in lei, le dimensioni costitutive d’un determinato disegno divino. Ed è gioia per l’accompagnatore il riconoscere, pur nella consapevolezza di potersi sbagliare, la presenza di un appello, gioia tanto più intensa quando essa è condivisa dalla persona accompagnata, la quale attendeva che qualcuno la aiutasse a dare nome ad una attesa a lungo custodita.
Può accadere che il soggetto non voglia dare un nome alla propria attesa, anzi, la rimuova, e si sottragga anche a qualunque riferimento ad essa. Mi spiego con un esempio: ad uno studente liceale prossimo alla maturità viene chiesto, al fine di metterlo a contatto con le qualità che in lui si riscontravano, se non aveva mai pensato di spendersi a tempo pieno per Gesù e per il Regno. E il giovane irrigidendosi risponde che «sì, voglio impegnarmi come educatore in parrocchia, laurearmi e nulla più».
Cinque anni dopo quel giovane, vicino alla laurea, diceva allo stesso accompagnatore che non aveva dimenticato quella domanda, l’aveva sempre trattenuta, e ora si rendeva conto che era tempo di arrendersi. E l’accompagnamento prese un orientamento preciso.
Quel giovane è da vent’anni monaco. In quella occasione fu coniata dagli amici questa frase: si finisce con l’inseguire ciò da cui si era scappati.

5.2 La fatica
Di fronte alla scelta della persona accompagnata la fatica dell’accompagnatore è il rispetto, la pazienza, la non invadenza. E molta preghiera. È in queste situazioni che viene scoperta tutta la verità di un criterio del discernimento che suona così: la vocazione non coincide con l’inclinazione. Può esserci l’oggettività di una chiamata, ma mancare l’attrazione verso di essa. Questa può venire anche dopo un lungo tempo, fatto di preghiera e riflessione. Non sono poche le storie di questo tipo. È anche vero che può esistere una falsa inclinazione vocazionale, quasi un capriccio, senza nessun riscontro oggettivo.

6. Vulnerabilità – Crescita
6.1 La gioia
Nel percorso di accompagnamento avviene sempre una “anamnesis” del vissuto di una persona, che ne evidenzia l’indole, cioè la struttura temperamentale, ma apre anche alla conoscenza dei contesti relazionali in cui il soggetto è cresciuto, dalla famiglia, alla scuola, alla comunità di appartenenza, alle amicizie. Lentamente emergono legami stretti e profondi tra quanto il soggetto vive oggi e la sua storia. E si evidenziano vulnerabilità attuali, facilmente dipendenti da ferite antiche. Questa scoperta può costituire una frustrazione e una battuta d’arresto per il soggetto. Di fronte a questo rischio è fondamentale che l’accompagnatore che ha rilevato gli aspetti vulnerabili sappia cogliere in essi la presenza di altri aspetti della vita dell’accompagnato che germogliano proprio da quelle vulnerabilità, e che possono avere nei confronti di queste vulnerabilità un effetto di guarigione.
Ci sono due metafore usate per esprimere questa interazione tra vulnerabilità e guarigione: i nostri ostacoli diventano i nostri veicoli; le ferite diventano feritoie. Non si diventa cristiani maturi contro la nostra indole e la nostra storia, ma attraverso di esse. Cito due esempi classici.
Il Prof. Leonardo Ancona, per molti anni Primario di Psichiatria al Gemelli, ha condotto uno studio su alcune figure della storia italiana e, data la sua ammirazione per Francesco d’Assisi, ha istituito dei confronti tra di lui e altri personaggi. La conclusione di questa ricerca è stata che la struttura temperamentale di Francesco era analoga a quella di Gabriele d’Annunzio, definiti entrambi “sensoriali”.
Andrè Frossard, che fu intervistatore e amico di Giovanni Paolo II, ha condotto uno studio su San Vincenzo de’ Paoli, figlio di poveri contadini, che si dedicò alla vita ecclesiastica per ottenere un riconoscimento sociale. È documentato che quando Vincenzo, adolescente, andava in città con suo padre, si vergognava di riconoscerlo tale e, quando questi più tardi andrà a trovarlo nel collegio dove studia, si rifiuterà di andare in parlatorio, ancora per vergogna. Il Frossard conclude la propria ricerca scrivendo: «Quando Vincenzo de’ Paoli, dopo i 39 anni (era diventato prete a 19) spenderà la propria vita per i poveri, vedrà in loro il volto del Cristo, ma anche il volto di quel povero papà non riconosciuto dal figlio».

6.2 La fatica
Consiste sia nel riconoscere l’appuntamento di bene presente nelle proprie e altrui ferite e ancora nell’aiutare la persona accompagnata, in modo specialissimo i giovani, ad essere gentili e accoglienti verso le proprie vulnerabilità, e a renderli persuasi, tramite l’indicazione di percorsi, che dentro i nostri limiti si nascondono i nostri pregi. È uno degli aspetti più difficili di questo ministero, che esige anche studio e competenza. La ricerca sulle malattie spirituali ci offre oggi risultati preziosi.
Aggiungo che studi recenti di psichiatria e psicoanalisi ritengono che quanto più una persona è dotata di “insight”, introspezione, tanto più è incline ad essere un soggetto “borderline”. Donne e uomini di forte vita interiore possono essere più fragili di altri, proprio in ragione della loro spiritualità.
Penso che non vada mai dimenticato che «obiettivo della vita cristiana non è l’equilibrio del soggetto, come usualmente lo si intende, ma la riconciliazione».

7. Realtà – Idealizzazione
7.1 La gioia
Il colloquio di accompagnamento ci pone a contatto con tutta la realtà di una persona dove ci si incontra con doni, ferite, sogni, delusioni, speranze. La gioia dell’accompagnatore è il poter leggere un vissuto e scorgervi l’opera dello Spirito Santo che, tramite alterne vicende, ha guidato il cammino di una persona verso un discernimento vocazionale.

7.2 La fatica
In questa lettura del vissuto ci si può trovare a dover fare i conti con due possibili dati faticosi: il primo si riferisce allo scarto tra l’immagine che dell’accompagnato ci può essere fornita dal contesto in cui vive, o da precomprensioni di cui non si è mai sufficientemente liberi, e che possono condizionare il nostro ascolto. Il secondo motivo può nascere dall’avvertire che, nella narrazione della propria vita, l’altro non riesce ad esprimere dati per lui importanti, ma che non giunge a gestire per poterli manifestare. Mi spiego con un esempio: un giovane ventenne domanda di essere accompagnato perché ritiene di essere visitato dalla chiamata del Signore al ministero presbiterale.
Questo giovane si presenta con un aria molto preoccupata e si esprime facilmente e risponde tranquillo agli input dell’accompagnatore, ma l’aria preoccupata non muta. Questo accade, allo stesso modo, in tre colloqui. L’accompagnatore decide di chiedere al giovane se c’è forse qualche argomento di cui vorrebbe parlare, ma, come sovente succede, non riesce a dire. Il giovane dice che è così e domanda se può scrivere invece di dire. Il giorno seguente l’accompagnatore trova una lettera dove il giovane racconta di un contatto sessuale con un amico avvenuto tre anni prima ed esprime il suo timore di essere omosessuale.

8. L’Io e il sé
8.1 La gioia
L’arte dell’accompagnamento consente di mettere a frutto le nostre competenze, il nostro io, cioè il nostro ruolo che emerge e gratifica. È motivo di gioia rendersi conto che il lavoro fatto su di sé, tutti gli apprendimenti acquisiti, sono fecondi nello svolgimento del nostro ministero.

8.2 La fatica
Ma è indispensabile che gli studi compiuti e le esperienze acquisite non si rinchiudano nella cornice del ruolo, ma che questa eventuale professionalità sia attraversata da tutta la ricchezza del proprio sé, cioè dalla nostra umanità con tutte le emozioni, ferite, incertezze e ricerche, e i percorsi compiuti per farvi fronte.
La relazione di accompagnamento non può che rimanere asimmetrica, ma è indispensabile che sia profondamente umana. Solo tra poveri può esserci una comunicazione che giunga al profondo e l’accompagnatore è chiamato a restare a contatto con le proprie povertà per comprendere e illuminare le povertà dell’altro. E questo comporta fatica.

9. Padre – Madre
9.1 La gioia
Essendo l’accompagnamento un’esperienza di genitorialità che mira ad una verifica vocazionale, questo ministero considera facilmente l’altro in vista di quello che può diventare e a questo riguardo suggerisce mete e metodi da acquisire per raggiungerle. Tutto questo, e molto altro, è l’esercizio paterno della genitorialità, facilmente fonte di gioia per chi accompagna.

9.2 La fatica
La dimensione materna può non emergere perché più faticosa, mentre è indispensabile che essa sia esercitata, e consiste nell’accogliere anzitutto l’altro per quello che realmente è prima che per quello che potrà diventare. Se manca la dimensione materna la persona accompagnata può cadere facilmente in un inconsapevole ricatto, che è quello di pagare un pedaggio allo sguardo paterno dell’accompagnatore. Resta illuminante la metafora della tela di Rembrandt: in corrispondenza della mano materna il piede scalzo; in corrispondenza della mano paterna il piede calzato.

10. Risposte – Domande
10.1 La gioia
Chi chiede di essere accompagnato attende solitamente risposte per la propria ricerca vocazionale e l’accompagnatore può sperimentare la gioia di rispondere usufruendo di tutte la propria preparazione.
Può accadere di dimenticare che qualunque risposta data è degna di una persona solo se si apre sempre su domande nuove. Il colloquio di accompagnamento si struttura in un interscambio dove non ci si può limitare a dare risposte.
Nell’incontro con la Scuola Cattolica del maggio 2014, Papa Francesco ebbe a dire che vero maestro è quello che educa ad un pensiero sempre aperto, mai concluso. E segnalò come insigne maestro don Lorenzo Milani.

10.2 La fatica
Far germogliare domande non è facile, è mentalmente faticoso. È però fondamentale che l’accompagnamento, poiché impostato su un pensiero aperto, educhi la persona accompagnata ad una lettura critica del proprio vissuto e degli avvenimenti e ciò grazie all’arte del saper porre domande.

11. Lo Spirito Santo – Il terapeuta
11.1 La gioia
L’accompagnatore non può che essere una persona schierata sul versante della vita secondo lo Spirito, al di là di ogni sospetto di spiritualismo. Questa scelta va fatta senza sconti. Una vita spirituale fortemente incarnata nel contesto socio-culturale in cui viviamo.
L’accompagnatore è persona che si è educata all’insight, come scriverebbe Lonergan, cioè ad uno sguardo che mira all’interiorità, scende nel profondo, non si lascia sequestrare dall’immediato. Veritas habitat in interiore homine, scrive Sant’Agostino. Sappiamo come il ministero dell’accompagnare esiga un lungo lavoro su di sé. Soltanto gli assidui frequentatori del Mistero santo e ineffabile che noi chiamiamo Dio diventano raffinati interpreti del mistero dell’uomo. L’accompagnare altri ci partecipa la gioia del farci discepoli dell’unico Maestro interiore mentre camminiamo con chi si è fatto discepolo con noi.

11.2 La fatica
L’intensità della nostra esistenza spirituale, o meglio, un fermo desiderio di essa, ci aiuta ad essere immuni dal rischio di farci terapeuti, esperti psicologi, invece che donne e uomini al servizio dello Spirito.
Il rischio esiste. Sappiamo invece che ci è chiesta competenza sull’umano affinché i due aspetti – vita spirituale e terapia – non dimorino in alternativa, ma in integrazione. Ed è fatica custodire questo equilibrio.

12. Con lo sguardo in avanti
Ho iniziato sottolineando che il ministero dell’accompagnamento è evangelizzazione personalizzata. Concludo confermando l’urgenza di un annuncio su Gesù di Nazareth, il Dio amico degli uomini, che affascini le nostre giovani generazioni, le attragga e le interpelli per la sequela e per il dono totale di sé per la venuta del Regno.
Ma le nostre giovani generazioni sono quelle di oggi, non quelle di un tempo passato. Per questo i tratti che ho proposto intendono considerare la complessità dell’umano odierno, con tutte le sue complessità, contraddizioni e speranze.
La prima Discepola, Maria, Madre del buon Consiglio, ci illumini.

NOTE
1 Sul tema dell’evangelizzazione del profondo ricordo i tre libri di S. PACOT: L’evangelizzazione del profondo 1, Queriniana, Brescia 20157 alla vita! Queriniana, Brescia 20112; L’evangelizzazione del profondo 2. Torna; L’evangelizzazione del profondo 3. Osa la vita nuova! I cammini delle nostre pasque, Queriniana, Brescia 2005.
2 A. LOUF, Generati dallo Spirito, Qiqajon, Magnano (BI) 1994.
3 Ivi, pp. 78-79.
4 Ivi, p. 80.
5 Suggerisco due testi, usati nei corsi universitari di Teologia Spirituale: L.J. GONZÁLEZ, Terapia spirituale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000 e J.-C. LARCHET, Terapia delle malattie spirituali, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 2003. Indico anche due testi laici che sono, a mio parere, preziosi circa l’analisi dei vissuti. Uno è il libro autobiografico della filosofa Michela Marzano, docente di Filosofia Morale alla Sorbona: M. MARZANO, Volevo essere una farfalla, Mondadori, Milano 2011. L’altro libro, che narra una storia recente: C. DE GREGORIO, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli, Milano 2015.