N.06
Novembre/Dicembre 2016

Bisogni dei giovani e pastorale vocazionale

Se parliamo di bisogni dobbiamo riconoscere fin da subito come questo tema potrebbe essere affrontato da molte prospettive differenti. Il presente contributo rappresenta un tentativo di lettura a partire da una prospettiva di osservazione. E non solo: dei giovani di oggi (per non parlare degli adolescenti!) si parla moltissimo e si scrive quasi altrettanto, si moltiplicano le “diagnosi”, ma con la sensazione che quando poi si rientra nel “pratico” non si sa bene cosa fare e come fare. La cosa è vera al punto che talora qualcuno fra coloro che trattano quotidianamente con giovani o adolescenti (genitori, educatori, insegnanti, religiosi, diaconi o sacerdoti), non sa letteralmente a che santo votarsi e in risposta a certi comportamenti implorerebbe il ripristino della pena capitale…!
Scherzo, ovviamente. Eppure, chi opera in ambito educativo sa che le cose sono veramente complicate. Sia chiaro: non ci sono soltanto le situazioni difficili. D’altra parte, però, è innegabile che rispetto anche solo a venti o trent’anni fa, ora ci troviamo di fronte a tutto un repertorio di comportamenti che quanto meno ci lasciano spiazzati.
Detto questo, però, subito provo a contraddirmi. E dico: già questo approccio potrebbe essere sbagliato. Partire dai problemi: perché mai? Sembra quasi che se ci parlano di giovani o adolescenti, o ci chiamano a parlare di loro, quasi non riusciamo a fare a meno di iniziare evocando tutte le malefatte che combinano. Come se questa generazione di adolescenti e di giovani fosse per intero una generazione di disturbati. Il che – sarei tentato di dire – non è nemmeno del tutto falso, ma… non esageriamo!
Vorrei seguire dunque un approccio che non sia catastrofista e che allo stesso tempo, però, non sia irrealistico, quasi irenico. Nemmeno vorrei fare una sorta di elenco di caratteristiche dei giovani d’oggi, perché di tali descrizioni la letteratura a disposizione credo sia sufficientemente completa. Proverei a fare alcune riflessioni fondamentali, declinandole subito in alcuni contenuti concreti che riguardano, però, soprattutto… gli adulti! Già, proprio così: vorrei provare a parlare dei giovani a partire da chi non lo è più e che pure – così credo – in qualche misura ha a che fare con il loro modo di essere.
Studiare il tema dei bisogni dei giovani che interpellano la pastorale vocazionale oggi è sicuramente opportuno. Sappiamo bene, però, come ogni domanda, ogni modo di impostare una ricerca qualsiasi, in qualche misura già la pregiudica. Proverei a smontare il titolo di questo intervento per vedere se, al suo interno, possiamo individuare un modo di pensare che è degli adulti, i quali potrebbero assumere implicitamente alcuni modelli interpretativi della realtà – e in particolare di quella educativa – che forse andrebbero indagati, capiti e, chissà, forse anche ripensati e modificati.

1. I bisogni appartengono a chi li ha?
Per comprendere meglio quanto sto dicendo, proverei ad entrare nel merito di uno degli approcci classici allo sviluppo umano che è quello della psicologica psicodinamica. A partire dall’eredità dell’approccio psicoanalitico, e cercando di rendere il più possibile scheletrica la sua concettualizzazione, si potrebbe dire così: c’è un soggetto portatore di bisogni, che ricerca, per la loro gratificazione, un oggetto. Nella prospettiva della psicologia freudiana, la mamma, ad esempio, è soprattutto l’oggetto materno, ove con tale denominazione si intende evidenziare il fatto che il suo essere ciò che è dipende fondamentalmente dal tipo di richiesta del bambino. In altri termini: l’oggetto psicoanalitico è soprattutto un prodotto della pulsione che procede dal bisogno.
In una tale prospettiva lo sguardo alla personalità e al suo sviluppo è fondamentalmente monopersonale. Ovvio che l’interpersonalità non sia omessa o addirittura negata. Essa interviene, tuttavia, a rispondere, in modo più o meno adeguato, ai bisogni del soggetto. In questo senso, perciò, soggetto e oggetto stanno come l’uno di fronte all’altro, ove il primo presenta dei bisogni che il secondo, alla stregua di un “distributore”, gratifica secondo quantità e modalità più o meno adeguate.
La psicologia interpersonale o la psicologia intersoggettiva, che pure sorgono in un contesto che è ancora quello della psicologia psicoanalitica, con sottolineature, sfumature, ma talora anche con cambiamenti importanti a livello dei paradigmi fondamentali, evidenziano anche il percorso inverso: nella relazione mamma-bambino, pure l’oggetto-madre ha dei bisogni verso il soggetto-bambino.
Ovvio che i bisogni materni non sono gli stessi, ma nemmeno simmetrici rispetto a quelli del bambino. Ad ogni buon conto ciò evidenzia, nell’intreccio dei due percorsi, che il bisogno monopersonale non può essere considerato un primum (né logico, né cronologico), ma che esso procede, almeno in qualche modo, dalla situazione di un soggetto che è anche oggetto, che, a sua volta, ricerca un oggetto che è anche soggetto.
La cosa, detta così, parrebbe perfino scontata. Eppure nel senso comune prevale una prospettiva, per quanto implicita, che converge diffusamente verso la monopersonalità. Ad esempio: una mamma di tre bambini che affermasse di aver avuto nei confronti dei suoi tre figli lo stesso atteggiamento o di aver dato loro lo stesso affetto, direbbe una cosa che moralmente può essere vera, ma psicologicamente no. Affermarlo, infatti, significa ignorare, sottovalutare o addirittura estromettere il bisogno materno nei confronti del figlio, inteso in questo caso come oggetto della mamma. E in una tale prospettiva, ad esempio, un primogenito non risponde e non può rispondere allo stesso modo in cui rispondono un secondogenito o un terzogenito. Basti pensare al profondo cambiamento identitario prodotto dal primogenito nei confronti della propria madre: da donna a donna-madre. È indiscutibile che l’affetto per tutti gli altri figli potrà essere moralmente identico, ma qualitativamente non potrà esserlo giacché gli altri figli non provocheranno un cambiamento identitario paragonabile a quello prodotto dal primo. Da qui si coglie la diversa “posizione” assegnata da una madre ai propri figli; a quel punto i loro bisogni, così “posizionati”, potranno modificarsi e plasmarsi in modalità differenti, da un figlio all’altro.

2. I bisogni degli adulti
Si badi che la cosa non è di poco conto e rimette in discussione l’idea secondo la quale si parla di bisogni del singolo indipendentemente da chi quei bisogni contribuisce a creare e non solo a gratificare. Fin qui mi sono limitato a esplicitare tutto ciò nella relazione mamma-bambino, ma l’esempio potrebbe essere esteso, seppure con intensità e caratteristiche qualitative differenti, a tutte le relazioni che ogni soggetto intrattiene con gli altri soggetti con cui interagisce.
Le riflessioni condotte in apertura modificano dunque il modo di porre il nostro tema: non possiamo limitarci a raccogliere o a identificare i bisogni dei giovani (o degli adolescenti, o di chiunque altro), perché mentre facciamo questa stessa operazione, magari apparentemente neutrale, in realtà siamo già all’interno di una matrice, con loro. Il che significa che quei bisogni di cui siamo alla ricerca sono anche possibilmente creati o co-creati prima, ma pure nel momento stesso in cui sono cercati e raccolti. Non possiamo pensare di riconoscerli semplicemente come se preesistessero alla nostra interazione. Noi adulti siamo parte di quel processo di co-creazione, di reciproca produzione dei bisogni.
La domanda «quali bisogni dei giovani interpellano la pastorale vocazionale oggi?» è assolutamente legittima e, di più, necessaria, ma esige, dunque, in parallelo, che si tematizzino i bisogni che gli adulti hanno anche nei confronti di quei giovani. Una pastorale vocazionale che ritenesse di intercettare i bisogni dei giovani senza riconoscere che, come Chiesa, quei bisogni li crea o quanto meno contribuisce a crearli, credo procederebbe secondo una impostazione non corretta, almeno riduttiva, dunque possibilmente infeconda.

3. Proclamazione, concretezza e doppi messaggi
I bisogni dei nostri giovani dipendono dunque anche dalla risposta ad una domanda previa, che quei giovani vedono concretamente, nella famiglia, nella cultura, nella Chiesa, nella società. Sottolineo il “concretamente”. Viviamo infatti in mezzo a tutta una serie di enunciati e di importanti svolte, ad esempio a livello filosofico, psicologico, sociologico, antropologico che non infrequentemente vengono clamorosamente smentiti dall’esperienza. Tutto ciò crea un duplice effetto negativo. Un primo effetto è relativo all’esperienza, giacché questa, inevitabilmente, è assai più persuasiva dei proclami; un secondo effetto – perfino più complesso e per certi versi più insidioso del primo – è relativo al possibile invio di doppi messaggi, ovvero di messaggi contraddittori. Si badi bene: dal punto di vista psicologico-evolutivo, il doppio messaggio non è solo in grado di creare conseguenze importanti in un senso morale, ma perfino psicopatologico. Da ciò, la sua presenza non va liquidata troppo sbrigativamente, come se si trattasse di una cosa di poco conto. Potrebbe non esserlo per niente.
Rispetto al tema che è oggetto del nostro interesse potremmo dunque domandarci: quale uomo e quale donna proponiamo nella Chiesa, nella cultura, nella società, anche a partire dai molti doppi messaggi oggi presenti?
Proverei a fare un esempio, semplice e concretissimo. L’utilizzo diffuso del telefono cellulare e delle applicazioni più recenti come WhatsApp hanno “avvicinato” l’altro, che è sempre “a portata”. Non si sottovaluti il fatto che ogni sistema di comunicazione, soprattutto se diffuso e di uso comune, da strumento finisce per trasformarsi anche in promotore di una cultura della comunicazione. In questo caso la forma mentis creata dalla “cultura” di WhatsApp riduce la distanza con l’altro e lo rende esperienzialmente un prolungamento di sé. L’altro, infatti, oltre ad essere potenzialmente sempre raggiungibile (esattamente come ciascuno di noi lo è nei confronti di se stesso), diventa potenzialmente anche controllabile: io sono in grado di sapere molte cose dell’altro (in tempo reale) anche se non sono in comunicazione diretta con lui. Fra le cose che sono in grado di sapere di lui c’è l’eventualità che lui sia in comunicazione con altri (esattamente come sono in grado di fare rispetto a me stesso, ovviamente).
Tutto ciò è, di fatto, in forte contrasto con le acquisizioni di quella cultura dell’alterità e della sua irriducibile riconduzione a sé che, appunto, ha caratterizzato la riflessione filosofica, psicologica, sociologica, antropologica, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Nella logica di quelle prospettive, l’irraggiungibilità dell’altro diventa una conferma di quella irriducibilità ontologica.
Nella cultura di WhatsApp, l’irraggiungibilità dell’altro può trasformarsi in un segno di “malfunzionamento” della relazione con l’altro. Il rischio, ovviamente, è di giungere a diagnosticare una “patologia” della relazione che in realtà non esiste. Anzi, verrebbe quasi da dire che ad essere patologica è proprio la pretesa che sottostà a quella diagnosi.
In breve: abbiamo “guadagnato” in molte scienze tutto il valore della relazione e delle sue esigenze qualitative, e in qualche modo, però, mandiamo avanti delle implicazioni pratiche che vanno in una direzione contraria. La migliore comprensione di ciò che è relazione rimanda all’interazione e alla differenza, alla prossimità ma pure alla distanza: tutto questo è alterità. E invece, dopo averlo detto, ecco che succede il contrario.

4. Il cambiamento dei simboli nei riti di passaggio
Di fronte al progresso delle tecnologie e alla loro indubbia utilità pratica, si potrà legittimamente obiettare che è impensabile tornare indietro. Giusto, ma… non sarà che al di sotto di quel modo di comunicare c’è qualcosa che noi (adulti) abbiamo finito per creare in loro (giovani)? Farei a questo punto una brevissima digressione.
Vorrei accennare a una peculiarità dello sviluppo umano. Esso si caratterizza per alcuni riti di passaggio corredati di altrettanti simboli, ove l’individuale, il sociale e il religioso si intrecciano. I simboli, ovvia- mente, non sono muti, ma fanno convergere su di sé – velandoli e svelandoli – una grande quantità di istanze e processi. Pensiamo, ad esempio, alla consuetudine in uso quaranta o cinquanta anni fa, di regalare il primo orologio al ragazzo che faceva la prima comunione o la cresima. Il rito religioso era associato ad un passaggio psicologico- evolutivo che gettava le fondamenta di quel compito importantissimo successivo che sarebbe stata l’autonomia adolescenziale.
Il simbolo era bello ed efficace: l’orologio, che era un oggetto di valore, segnalava in modo importante niente meno che l’appropriazione del tempo.
Ora, si potrebbe pensare che con il passaggio delle generazioni e delle culture, le istanze e i processi rimangano inalterati e che a cambiare siano soltanto i simboli che li rappresentano. In questo senso, rimanendo all’esempio dell’orologio, questo ha smesso di “funzionare” come simbolo di quel rito di passaggio, ma soprattutto per una ragione economica: la diffusione degli orologi digitali e a poco prezzo ha tolto “valore” oggettivo al simbolo. Da questo punto di vista, il telefono cellulare o lo smartphone potrebbero svolgere la medesima funzione, essendo simultaneamente di un certo valore economico e segno di un ingresso nell’adultità (o quasi).
Domanda: le cose stanno così? La mia risposta è: sì e no.
Già, perché dal punto di vista pratico il telefono cellulare e le sue successive evoluzioni (in grado di supportare applicazioni quali, appunto, WhatsApp) hanno incrementato a dismisura le funzionalità (dunque le competenze), ma comprendendo fra queste anche tutte quelle che permettono in ogni istante di sapere di te, cioè di controllarti.
Insomma: il modesto orologio meccanico, che altro non sapeva fare se non dire l’ora, rendeva il preadolescente assai più autonomo di quanto sia in grado di renderlo il sofisticato smartphone. Più controllo altrui, infatti, significa minore autonomia.
Rovesciando la questione sul versante dell’adulto e delle sue domande, la cosa, in una perifrasi, potrebbe essere resa così: «Io, adulto, rendo te, giovane, più adulto, ma aumentando il controllo su di te ti rendo meno autonomo, cioè meno… adulto!». Complimenti per il doppio messaggio! Ma… giovani a parte, non sarà forse che questo stato di cose svela proprio un bisogno che è degli adulti? Non sarà che apparteniamo ad una generazione che simbolicamente rafforza i dinamismi legati al controllo per la semplice ragione che ha una tremenda paura di perderlo?
E poi: di quale controllo si tratta? “Cosa”, fondamentalmente, l’adulto intende controllare? In una parola – benché appaia quasi uno slogan – sembra che quel controllo si concentri proprio sul compito evolutivo che il preadolescente, l’adolescente e poi il giovane vanno via via costruendo e perfezionando attraverso il consolidamento dell’autonomia: l’identità, cioè niente meno che il “compito dei compiti”, quasi il punto di arrivo di tutto lo sviluppo umano. Tutto questo vorrà forse dire, dunque, che la generazione adulta ha timore di perdere la propria identità?

5. La sfida identitaria delle periferie
Non vorrei affrettare diagnosi, ma ho la sensazione che le cose stiano proprio così. Così per gli adulti, dunque così anche per i giovani… di nuovo quindi per gli adulti e ancora per i giovani. Insomma: se vale la presentazione iniziale che metteva in evidenza il carattere “non originale”, quasi ex-nihilo, dei bisogni, ma piuttosto quello “circolare”, ovvero della reciproca causalità, qui finiamo per essere tutti coinvolti, giovani, meno giovani o adulti che siamo. E tanto per non evidenziare la questione in modo troppo astratto, calerei subito la cosa in un altro esempio, interno, questa volta, al mondo che ci riguarda, quello vocazionale, ponendo una domanda che ritengo esiga una riflessione: l’insistenza con cui Papa Francesco torna sul tema delle “periferie” potrebbe far paura, profondamente, a una generazione di giovani o a una Chiesa tutta che interiormente non sono insensibili alla questione delle vocazioni, e che, però, non riescono a pensare alle figure concrete della vita cristiana se non nella forma rassicurante dell’identità e dei suoi simboli.
L’immagine della periferia è provocatoria, perché evoca precisamente il decentramento, a tutti i livelli. E questo entra in tensione con quel bisogno di controllo che ci appartiene. La pastorale vocazionale non può ignorare questo, a partire dalla considerazione del fatto che quel bisogno procede anche dagli adulti.
Il timore della perdita identitaria, a mio parere, si rende visibile in una grande quantità di questioni, certo intrecciato con altre variabili: non accada di ricondurvi ogni singolo problema. Eppure c’è: dall’alleanza – che talora si trasforma in collusione – tra genitori e figli contro gli insegnanti (mettersi contro un figlio viene forse percepito come perdita del controllo su di lui?), alla costruzione di muri e barriere di ogni tipo contro ogni forma di diversità (difendersi dalla minaccia terroristica legittima il diritto a caricaturizzare un bambino straniero morto su una spiaggia della Turchia, presentando la sua morte quasi con sollievo, come se si trattasse di una minaccia in meno?). E molte altre cose ancora.

6. Un tragico esempio di collusione
Nel mese di agosto del 2015, ad Arona, in provincia di Novara, moriva investito da un treno un giovane writer. Aveva diciannove anni. Stava imbrattando o colorando – perché qui le opinioni si dividono – un treno (o scegliendo un treno da imbrattare o colorare) e non si è accorto del sopraggiungere di un altro convoglio, che lo ha travolto. Un fatto gravissimo, tragico, che esige anche un accostamento rispettoso delle persone direttamente coinvolte e delle loro famiglie. Il rispetto, però, non esime dal rigore di un’analisi dei comportamenti, almeno per impedire che avvenimenti del genere abbiano a ripetersi, creando ulteriore sofferenza.
Di quell’episodio vorrei limitarmi a evidenziare alcuni aspetti.
Alcune reazioni, infatti, credo facciano riflettere e vadano interpretate perché potrebbero dire molto, non solo dei bisogni dei giovani, ma anche degli adulti.
Quello dei graffiti è un fenomeno molto complesso che si mantiene ai margini della legalità o esplicitamente contro la legalità anche se, da alcuni anni, gli sforzi per riportarlo in un quadro di legalità sono notevoli, soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche, ma anche di non poche associazioni sorte spontaneamente, soprattutto nei contesti urbani, per contrastare il degrado in cui versano molte nostre città. Siccome molto del dibattito sui graffiti in questi anni si è concentrato sulla loro eventuale qualità artistica, si dovrebbe richiamare il fatto che questo punto, ad ogni buon conto, non può rientrare nei criteri di legalità o illegalità. Questi fanno leva su un altro aspetto della questione, ed è che si tratta comunque di un sopruso ogniqualvolta il proprietario dell’immobile o del mezzo di tra- sporto (pubblici o privati che siano) su cui viene realizzato il disegno non lo hanno richiesto e nemmeno autorizzato. Nei graffiti non autorizzati, dunque, viene leso comunque un diritto fondamentale. Se a ciò aggiungiamo che assai spesso il fenomeno è associato al danneggiamento vandalico, il suo costo sociale è elevatissimo. Da qui il riconoscimento di illegalità non procede da una convenzione sociale, ma dalla violazione di un diritto altrui. Quando si ha a che fare con la violazione dei diritti, la stessa “fenomenologia” degli episodi cambia: si agisce di nascosto e, da ciò, non di rado, in condizioni di insicurezza e pericolosità. Ritengo che questo vada esplicitato perché, appunto, in un caso come quello del giovane morto ad Arona, in occasione del suo funerale, sulla stampa e sui social network qualcuno cercava di riportare l’attenzione su ciò che di più grave era accaduto. Come dire: «Basta discutere sulla legalità o illegalità del gesto: qui è morto un giovane!». Vero; ma forse quel giovane è morto anche perché quello che faceva era illegale. I familiari e gli amici, poi, testimoniavano di lui, affermando che fosse un bravo ragazzo e ricordavano il suo desiderio di vivere in un mondo colorato. Non ho ragioni per dubitare di questo, né mi permetterei di farlo. Infine il comune della provincia di Varese presso cui il giovane abitava proponeva di dedicargli un murale sul muro di una scuola. Attualmente gli edifici scolastici sono fra i più colpiti dai graffiti vandalici. Contemporaneamente su Facebook comparivano commenti insultanti all’indirizzo del giovane e della crew, da cui la reazione della famiglia che dichiarava di voler denunciare gli autori di quei messaggi. Quegli insulti su Facebook sottolineavano i danneggiamenti arrecati dai writer a treni, stazioni, sottopassi, ecc., il degrado provocato e i costi sopportati dalla collettività per rimediare a tutto questo. La sostanza di molti messaggi non era troppo distante dal «ben ti sta!» e, certo, per una famiglia che ha perduto un figlio, una cosa del genere non è facile da mandar giù.
Mi pare che un episodio come quello riportato evidenzi – purtroppo tragicamente – quella circolarità causale, quella collusione fra mondo giovanile e mondo adulto che, alla fine, giunge a una logica che letteralmente assomiglia a quella di un pensiero schizofrenico: una persona buona compie un gesto che è aggressivo e trasgressivo e gli altri si dividono, ora separando la bontà della persona dal suo gesto, ma rendendo omaggio tutto sommato ad entrambi (la persona e il gesto), ora attaccando aggressivamente quella persona. Da qui la reazione difensiva di chi non tollera che un gesto aggressivo sia valutato in modo… aggressivo, invocando addirittura la punizione, non per il danneggiamento, ma per coloro che hanno offeso chi ha danneggiato. Qui la logica sembra un po’ “saltata”, in più punti.

7. Le contraddizioni degli adulti svuotano le parole dei giovani
Andiamo ad esaminare dunque le grammatiche sottostanti. Notiamo innanzitutto la separazione tra bontà della persona e bontà dei suoi atti. Sarebbe come dire: io rubo, ma non sono un ladro. Ci sta che si possa dire; ma rimane affermazione comunque insidiosa, soprattutto se riferita a condotte reiterate. In qualche modo, infatti, ciò che chiamiamo vizio funziona proprio così: la ripetizione di un comportamento sbagliato da un certo momento finisce per imporsi al soggetto che lo compie. Da un certo punto in poi, rispetto a quel comportamento egli si accorge di non essere quasi più soggetto, ma oggetto, o forse addirittura vittima. E c’è dell’altro: notiamo l’identificazione della legge con la norma convenzionale, ove si è perduto, invece, il senso del suo legame con il bene.
Come mai la legge ha perduto il suo legame con il bene? Sarà forse che famiglia, cultura, società, politica, Chiesa hanno fatto di tutto per martellarci sul rispetto delle norme, invitandoci, costringendoci al loro ossequio scrupoloso, salvo poi prendersi la libertà di fare tutt’altro? E dovremmo chiederci: non sarà che le nostre parole, anche nella Chiesa, si sono svuotate?
All’interno del mondo dei graffiti, uno dei tipi più diffusi è il cosiddetto lettering: composizioni gigantesche di vocaboli inesistenti, che in qualche caso ripetono la tag del writer, in altri nemmeno quella. Il fatto che il lettering sia la modalità di graffiti più diffusa dovrebbe farci riflettere: sono parole disegnate in modo aggressivo e trasgressivo che non corrispondono alla realtà. Parole di protesta, parole che danneggiano, che non vogliono dire nulla, ma quasi a rispondere (smascherandolo) a ciò che gli adulti hanno loro consegnato.
Sono come un’unica metafora che dice: ci avete riempito di parole buone che non corrispondono alla realtà; noi vi riempiamo di parole irreali che sono la risposta alle vostre parole false. Di più: sono parole che non sostengono la vostra menzogna, ma la mettono in luce con rabbia: sono parole creative, alternative, ma che danneggiano.
Questa è – secondo la mia valutazione del fenomeno – una delle ragioni per cui il passaggio alla legalità stenta moltissimo: in primo luogo perché non considera la componente di danneggiamento che è insita nel fenomeno; in secondo luogo perché rappresenta una possibile, ulteriore, collusione del mondo adulto che fa le leggi, ma che, inconsapevolmente, finisce per indurre ancora quello stesso bisogno nel mondo giovanile.

8. Percorsi di riflessione da avviare o rilanciare
Giunti a questo punto, però, occorrerebbe essere propositivi: da che parte si va? Di seguito vorrei raccogliere quattro questioni che, a mio parere, dovrebbero essere oggetto di riflessione e, da qui, portare a qualche scelta concreta. Si tratta di nodi culturali la cui messa a tema può condurre a rilanci e proposte, ma anche a creare mentalità e, da qui, ad entrare in quel processo di creazione dei bisogni che ci riguarda tutti.
Intitolerei così la prima questione: assumere la sfida della complessità. Sono assolutamente consapevole di non segnalare nulla di inedito. Allo stesso tempo, però, dovremmo ammettere che la conoscenza degli enunciati non può bastare. E non solo: a lungo andare può perfino diventare un modo con cui si fa credere di essere “dentro” ad un problema, ma… bene intesi che tutto rimarrà come prima.
Occorrerebbe, invece, domandarci come siamo in grado di assumere la complessità, che più che mai ci riguarda.
Potrebbe sembrare una riflessione astratta, ma non lo è. Una pastorale vocazionale che non assume la complessità del mondo e che, magari, senza accorgersene, risolve semplificando, finisce per non intercettare più i giovani di oggi. Un esempio di semplificazione che non assume la complessità? «I giovani di oggi non se la sentono di fare scelte definitive»: quante volte ascoltiamo simili… sentenze! E c’è del vero, sia chiaro. Eppure, scegliere di diventare prete, religiosa o religioso trent’anni fa poteva essere (o almeno sembrare) più facile. Se vale un po’ quanto ho cercato di scrivere sin qui, è chiaro che la complessità destabilizza noi adulti e l’insicurezza che provoca, se non diventa stimolo creativo a ripensare la politica, l’economia, la fede, ecc., finisce per trasferirsi sui giovani. I quali non è che non conoscano o non riconoscano i valori. Semplicemente li vivono nel modo indotto dagli adulti, che risponde alla logica del consumo più che a quella della scelta. Il che significa che del valore si fruisce; ma che “non funziona” che ad un valore ci si consegni, si chiami pure “vocazione”.

Intitolerei così la seconda questione: riflettere sul tema della donna. So bene che questo è un tema che, a sua volta, finisce per intercettare un grappolo di questioni ulteriori, fra le quali quella del genere, della quale oggi si parla perfino troppo e, non di rado, con interlocutori che non sono (non siamo?) disposti ad ascoltare (con il risultato, dunque, che se ne parla allo sfinimento, ma senza avanzare in un arricchimento reciproco, a partire dalle diverse posizioni).
Comunque sia, ritengo che la questione della donna nella Chiesa non sia più rinviabile e che lo sia, ancora una volta, non nella sola modalità degli enunciati o dei proclami. Vale per tutti gli ambiti ecclesiali, ma quello vocazionale, in modo del tutto particolare, mi pare uno spazio che esige che ci si muova anche con una certa urgenza. E vale anche per il tema dei bisogni, nel modo che ho cercato di tratteggiare nel presente scritto: un impoverimento, una inadeguatezza nei modi in cui il femminile nella Chiesa viene sovente presentato (nei fatti), induce anche nei giovani una possibile distorsione, sia rispetto al femminile in senso ampio, sia rispetto alla vocazione femminile, sia rispetto alla vocazione maschile e ai modi in cui femminile e maschile interagiscono nella Chiesa. Se è vero che i bisogni nei giovani procedono strutturalmente dalle questioni aperte, perfino dalle vulnerabilità degli adulti, credo di non dire nulla di scandaloso se affermo che la crisi attuale delle vocazioni femminili procede anche dalla difficoltà con cui l’uomo, nella Chiesa, pensa alla donna, guarda alla donna, tratta con la donna.

Intitolerei così la terza questione: analizzare il rapporto fra sessualità e vocazione (all’interno di ogni vocazione). Fidanzamento cristiano, matrimonio cristiano, celibato per il regno, verginità consacrata: cosa c’entra e, soprattutto, come entra la dimensione sessuale in queste scelte? Mi pare che ad abbondare siano soprattutto le “indicazioni per l’uso”, retaggio di una cultura che, a mio parere, mostrava come regolare le cose, ma non come integrarle. Le cose (forse) funzionavano perché “di suo” il contesto era piuttosto strutturante. Attualmente le cose non stanno più così e se la regola è debole e l’integrazione non chiara, c’è caso che su molte questioni la proposta della Chiesa non sia percepita, in concreto, in modo convincente.
La castità nel fidanzamento: cosa vuol dire? La sessualità genitale nel matrimonio: è via spirituale? Il celibato dei sacerdoti: si può ancora parlare di continenza? La verginità consacrata: quali aspetti psicofisiologici per chi sceglie di non essere madre o padre biologico? E molto altro ancora.
Come Chiesa abbiamo avuto (e abbiamo tuttora) non pochi problemi che coinvolgevano l’area sessuale/affettiva. È evidente che molteplici situazioni devono essere affrontate in un senso disciplinare, canonico e perfino penale, purtroppo, se è il caso. Ma non basta e non possiamo limitarci a reazioni difensive («gli abusi accadono anche altrove»; «la stampa enfatizza in modo manipolativo ciò che accade nella Chiesa»; ecc.) che pur potendo essere legittime, di fatto non rispondono comunque a quegli interrogativi che noi, prima ancora degli altri, dovremmo porci. Vorrei dire, ad esempio: se il celibato non c’entra… a maggior ragione! Come mai in un contesto di autodisciplina della sessualità genitale, è accaduto che qualcuno perdesse il controllo? Come mai in un’istituzione che sin dagli inizi ha inteso difendere i più piccoli e i più deboli, è accaduto che ad andarci di mezzo siano stati soprattutto i più piccoli e i più deboli?
Personalmente sono convinto del fatto che il modo in cui la Chiesa vive la questione del potere e quella dei confini – in ciò sensibile alle istanze della cultura alla quale, comunque, apparteniamo – sia possibile veicolo di induzione di bisogni, dagli adulti negli adulti, e poi, ovviamente, pure nei giovani.

Intitolerei così la quarta questione: restituire valore convincente all’unitarietà. È quasi un tormentone culturale quello che viaggia sotto la bandiera della società frammentata, o dell’individuo frammentato, o della società liquida, e via dicendo. Tali letture del contesto attuale, in realtà, non partono con l’intenzione di dare della società in cui viviamo una valutazione morale. Eppure, quando ne parliamo nei nostri contesti, accade, non di rado, che se ne faccia una lettura “lamentosa”. Certo, pare ovvio – tanto per rimanere ad una delle immagini più riuscite – che strutturare un liquido sia operazione assai più complessa che strutturare un solido. Ma, allora, anziché impazzire nell’intento di dare forma o tessuto a qualcosa che non si presta ad averlo, potremmo cominciare a domandarci se e come mai l’unità, di fronte alla frammentazione, dovrebbe essere vantaggiosa.
Perché vivere in modo unitario o unificato dovrebbe costituire un bene per la persona? L’unità di vita: si tratta di un valore “assiomatico” o riusciremmo a dargli delle ragioni? A chi, magari proprio nella Chiesa, obiettasse che il valore dell’unità è scontato e assolutamente evidente, risponderei che proprio nella Chiesa e proprio nello spazio delle vocazioni mandiamo messaggi profondamente diversi. Il che è come dire che… siamo alle solite. Che senso ha parlare di unità di vita (magari dentro una proposta vocazionale) se poi il prete che fa quella stessa proposta vive frammentatissimo, interiormente, magari perché è un po’ dissociato, ma pure esteriormente, magari perché il suo vescovo gli ha affidato otto parrocchie di cui essere “sposo”. Siamo giunti forse alla “poligamia pastorale”? O siamo di fronte ad un altro doppio messaggio?