N.06
Novembre/Dicembre 2016

Cosa farò da grande?

Immaginare la propria vita è diventato per i giovani particolarmente difficile. Ancor più, passare dal sogno alla realizzazione.
Gli elementi di cui tener conto quando si affronta la questione del progetto di vita sono numerosi: le doti e le attitudini personali, il sistema di valori che dà forma alla coscienza di ciascuno, gli atteggiamenti di fronte alla vita, i riferimenti e le figure educative, il contesto entro cui l’ideale deve realizzarsi. Quando poi si tratta di una scelta vocazionale, la questione si fa ancora più complessa perché negli aspetti umani entrano il mistero della chiamata di Dio e quello della libertà umana di fronte ad essa.
Le condizioni personali ed esteriori entro le quali tale disegno di vita può prendere forma oggi non sono favorevoli: ogni giovane si trova a fare i conti con una realtà sociale che smentisce spesso i contorni del sogno e del desiderio e sembra rendere impossibile ogni progetto.
Mi soffermerò in questa riflessione a cercare di conoscere come, in generale, si orientano i giovani oggi, rispetto a quegli elementi che strutturano una scelta di vita guidata da un progetto. Lo farò servendomi dei dati forniti dall’indagine realizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo¹ nel cercare di capire perché è difficile oggi per un giovane muoversi verso la vita con un orientamento progettuale e realizzare ciò che ha desiderato e scelto.
L’osservatore superficiale può farsi l’idea che i giovani oggi vivano alla giornata, si lascino portare dai fatti della vita più che scegliere chi essere e decidere che cosa fare; il loro tempo sembra essere il presente e la loro esistenza sembra dominata da interessi superficiali ed effimeri. Ma se si guarda più in profondità, ci si rende conto di come essi abbiano sogni e attese sulla vita, che tuttavia hanno imparato a rivedere con realismo, a ridimensionare e a modificare, adattandosi, finendo con l’accontentarsi del piccolo cabotaggio delle scelte ritenute possibili.
Il cambiamento che caratterizza l’attuale contesto rende difficile immaginare il domani – anche il proprio – con sufficiente attendibilità.
L’atteggiamento dei giovani verso il futuro è indicativo della condizione di incertezza in cui essi vivono. Davanti all’affermazione: «Quando penso al mio futuro, lo vedo pieno di rischi e di incognite», il 72,8% degli intervistati si dichiara molto o abbastanza d’accordo. Il futuro ha perso la sua attrattiva di tempo delle promesse e dei sogni e appare soprattutto una minaccia, piena di rischi e di sfide. È l’epoca delle “passioni tristi”²: un senso pervasivo di impotenza e incertezza porta a rinchiudersi in sé stessi e a vivere il mondo come un rischio e un’incognita.
La lunga anticamera che le nuove generazioni oggi devono fare per entrare nel mondo del lavoro, per avviare la propria famiglia, per assumersi delle responsabilità nella società, per diventare ed essere riconosciuti come adulti, riduce la loro fiducia e le porta a vivere schiacciate sul presente, che appare loro come l’unico tempo nel quale si sentono situati.
Questo non significa che i giovani non abbiano idea di come vorrebbero la loro vita in assenza di vincoli. L’esempio più interessante è quello della famiglia. I giovani italiani escono dalla famiglia di origine più tardi dei loro coetanei di altri Paesi, soprattutto quelli del Nord dell’Europa. In larga parte non si tratta di una scelta, ma di una condizione di necessità: se il lavoro non c’è, se non c’è quell’autonomia economica che permetterebbe di vivere da soli, allora ci si adatta a continuare a stare con i genitori, ritagliandosi all’interno della propria famiglia di origine quegli spazi di autonomia che collocano al tempo stesso dentro e fuori; che permettono di restare con i genitori senza troppi conflitti, ma pur tuttavia dipendenti da loro, adattati ad un ménage in cui si vive un po’ da adulti e un po’ ancora da bambini.
Anche quando immaginano la propria famiglia, i giovani mostrano desideri diversi da quelli che in realtà realizzano. La quasi totalità dei giovani dichiara che vorrebbe avere figli; se si chiede agli intervistati qual è il numero di figli desiderati in assenza di impedimenti e costrizioni, la percentuale di coloro che rispondono 3 o più figli risulta superiore al 40%. Solo una marginale minoranza (il 9,2% fra gli uomini e solo il 6,2% fra le donne) pensa di non averne del tutto. Questo significa che se questi giovani fossero semplicemente aiutati a realizzare i propri progetti di vita, la denatalità italiana sarebbe un problema superato.
Ancor più evidente è la distanza tra i desideri e la realtà se si pensa all’esperienza del lavoro. D’altra parte, con una disoccupazione giovanile che continua a restare attorno al 40%, è difficile sognare!
Il 90% dei giovani intervistati vede il lavoro come impegno e come mezzo di autorealizzazione; l’86% uno strumento per costruirsi una vita familiare. In effetti il 46,5% si adatta a svolgere una attività non pienamente coerente con il proprio percorso di studi. Il 47% si adegua ad una retribuzione insoddisfacente. Il dato più negativo è che il 70% dopo un periodo di studio e lavoro è costretto a tornare a vivere con i genitori. I giovani si adattano anche a fare lavori poco retribuiti, ad accettare occupazioni diverse rispetto a quelle per cui hanno studiato, ad accettare lavori che sembravano essere passati di moda: l’imbianchino, l’idraulico, il contadino… L’80% degli interpellati sarebbe disponibile anche per lavori manuali. Si smentisce così il giudizio che i giovani sono schizzinosi!
Il contesto esterno condiziona il pensiero sul futuro, influisce sugli atteggiamenti che riguardano gli altri e il proprio sistema di valori. Alla domanda: «Quanto sei d’accordo con la seguente affermazione: “Gran parte delle persone è degna di fiducia?”» coloro che rispondono di essere molto d’accordo sono solo il 6,4%. I giovani che rispondono poco o per nulla d’accordo sono il 58,9%. Questi sono i risultati di una rilevazione effettuata nel 2012; quella effettuata nel 2013, cioè solo un anno dopo, registra un aumento della diffidenza fino al 65%; soprattutto le ragazze dichiarano una sfiducia che raggiunge il 71%. Come mai? Segno di un disagio che si va aggravando nel mondo femminile, oppure segnale che le ragazze percepiscono, più dei maschi, le insidie e le minacce che possono venire loro dagli altri, dal mondo circostante?
È difficile rispondere a questa domanda in assenza di approfondimenti specifici, ma non può non far pensare questo atteggiamento diffidente delle nuove generazioni, quasi si fossero convinte che gli altri attorno a loro sono una minaccia e vanno guardati con sospetto.
È chiaro che il passaggio da questa sfiducia che genera distanza ad un atteggiamento di impegno e di responsabilità è molto problematico.
Del resto, i dati riguardanti il volontariato confermano questa distanza dagli altri: solo l’11,3% fa esperienza continuativa di impegno concreto per gli altri, percentuale che sale al 15,9% tra i giovani che si dichiarano praticanti.
Chi influisce sulla formazione della personalità di un giovane e dei suoi valori di riferimento? L’influenza fondamentale è esercitata dalla famiglia: sono appartenenti alla cerchia familiare le figure su cui i giovani riversano al più alto grado la loro fiducia, quelle che i giovani riconoscono aver influito sui loro orientamenti religiosi e politici. Alla famiglia i giovani riconoscono un grande valore. Oltre l’80% di essi afferma che l’esperienza familiare gli è di aiuto nel coltivare le sue passioni e nell’affermarsi nella vita. Oltre l’85% afferma poi che la famiglia rappresenta un sostegno nel perseguire i propri obiettivi. Questo significa che la stragrande maggioranza dei giovani trova nella famiglia il più importante punto di riferimento e la maggiore fonte di aiuto.

1. C’è ancora posto per Dio?
C’è posto per Dio nel progetto di vita dei giovani di oggi? È vero che siamo di fronte alla prima generazione incredula, quella «che ha imparato a cavarsela senza Dio?»3.
È finito il tempo della fede? I giovani che non hanno più antenne per Dio4 sono destinati ad essere una generazione senza Dio?
La prima di una serie di generazioni senza Dio? Oppure in questo tempo inedito sotto tanti punti di vista, l’incontro dei giovani con Dio percorre vie diverse da quelle cui siamo abituati, al punto che non sappiamo immaginarle? Sono le domande che si pongono i giovani stessi. È quello che si chiede un ragazzo, riflettendo sul rapporto tra la fede e il mondo attuale: «Viviamo in un’epoca in cui tutto deve essere conciso ed immediato. Le lettere sono state sostituite dai twitt, gli album di famiglia sono on-line su Facebook e non serve più uscire con gli amici in quanto li si trova tutti nel gruppo su WhatsApp. In una società in cui il tempo viene misurato in byte vi è ancora posto per Dio?».
Secondo la ricerca del Toniolo, i giovani che si dichiarano credenti nella religione cattolica sono il 55,9%. Si dichiara invece atea il 15,2% della popolazione giovanile, agnostica il 7,8%, credente in una entità superiore ma senza fare riferimento ad una divinità specifica il 10%. Interessante poi è notare che il genere risulta avere ancora una forte incidenza nel campo del sentimento religioso: le ragazze che hanno dichiarato di credere nella religione cattolica sono infatti oltre il 10% in più dei ragazzi, così come le giovani che si dichiarano non credenti sono il 6% in meno dei coetanei di sesso maschile.
Al Nord, l’appartenenza alla fede cristiana è ovunque al di sotto del 50%; al Sud raggiunge il 65,9%. I giovani che si dichiarano atei, al Nord sono intorno al 20%; al Sud intorno al 10%.
Alla richiesta di dare un voto da 1 a 10 a diverse istituzioni, la Chiesa ha avuto un punteggio intorno a 4, con un aumento di fiducia per i giovani cattolici (5,4%) e ancor più per i giovani praticanti (6,6%).
Ma il grado di fiducia cambia se si considera la figura di Papa Francesco, la cui popolarità supera per alcuni indicatori (la capacità di comunicare, la simpatia…) il 90% e di cui si apprezzano soprattutto l’impegno per la pace, per il dialogo tra le religioni e l’attenzione ai poveri.
I numeri riguardanti la pratica religiosa, soprattutto se confrontati con quelli che riguardano il credo, sono molto interessanti. I giovani che dichiarano di partecipare ad un rito religioso almeno una volta la settimana sono il 15,4%, con una leggera prevalenza delle ragazze.
Ma l’aspetto più interessante riguarda la pratica dei giovani che si dichiarano cattolici: solo il 24,1% frequenta la Chiesa una volta a settimana e il 16,1% una volta al mese. I giovani che, pur dichiarandosi cattolici, non frequentano mai la Chiesa, sono il 28,3%.
L’interesse di questo dato sta nel suo indicare l’evolversi verso una fede privata, senza comunità, senza appartenenza: una fede solitaria, che alla lunga rischia il fai da te anche sul piano dei contenuti.
In una prospettiva vocazionale, non è privo di interesse l’atteggiamento dei giovani nei confronti della tenuta delle scelte compiute.
All’affermazione: «Non esistono nella vita scelte che valgono per sempre, c’è sempre la possibilità di tornare indietro», il 61,4% dei giovani ha dichiarato di trovarsi molto o abbastanza d’accordo. Con questo atteggiamento è difficile per un giovane prendere in considerazione la scelta “per sempre” del sacerdozio e della vita religiosa, o l’indissolubilità del matrimonio. Nella società liquida tutte le scelte appaiono provvisorie, sia che questo dia la stimolante percezione di potersi reinventare di continuo, sia che dia quella destabilizzante di trovarsi sulle sabbie mobili di una realtà incerta e instabile.
Altro elemento interessante è l’atteggiamento nei confronti delle figure religiose. Nelle storie spirituali dei giovani intervistati vi sono poche figure di preti, tranne quelli che sono diventati importanti, perché nell’itinerario formativo sono stati vicini e hanno saputo stabilire una relazione personale. Le interviste fanno emergere nei confronti del prete la stessa distanza che i giovani manifestano nei confronti della Chiesa: una benevola indifferenza. È inimmaginabile una Chiesa senza preti e, tuttavia, molti dichiarano di poterne fare tranquillamente a meno. Tuttavia, sollecitati a dire quali caratteristiche dovrebbe avere il loro prete ideale, dicono che dovrebbe essere un testimone, una guida che accompagna il cammino, uno che sa ben spiegare la Parola di Dio. C’è anche qualche figura di suora nel sistema di relazioni di qualche giovane. Vi è una ragazza che ricorda la suora che ha avuto a catechismo e con cui è rimasta in contatto. Che cosa apprezza di lei? Il fatto che non ha smesso di interessarsi alla sua vita, di tenere i contatti, di informarsi su come stava e su quello che le accadeva. Insomma, una persona capace di restare in una relazione calda e partecipe.
Non mancano nemmeno coloro che, nel periodo in cui sono stati intervistati, hanno dichiarato di aver avviato un percorso di discernimento perché attratti dall’idea di consacrarsi a Dio.

2. Che fare?
È naturale chiedersi a questo punto che cosa fare. Se lo chiedono tutti coloro che conoscono il valore dell’impostare la propria vita guidati da un’idea e da un ideale; che sanno la bellezza dell’avvertire sulla propria vita un disegno di Dio; che sono consapevoli della fatica di un discernimento che nell’attuale contesto si fa particolarmente impegnativo e può indurre nella tentazione di vivere alla giornata, o quanto meno portati dagli eventi che si succedono nella vita di ciascuno.
Papa Francesco, che ha indetto un Sinodo sui giovani per il 20185, dà una prima risposta a queste domande: la Chiesa universale si interrogherà non solo sui giovani e sul proprio rapporto con loro, ma anche sul proprio modo di accompagnarli nel guardare dentro di sé e verso il futuro.
Tutti coloro che hanno qualche responsabilità nei confronti del mondo giovanile hanno un proprio contributo da offrire e un proprio compito da assumersi, a cominciare dalla famiglia. In casa, con i genitori e i fratelli, i più fortunati anche con i nonni, ogni giovane deve poter imparare a buttare lo sguardo lontano, a guardare con fiducia e con responsabilità al proprio futuro. Occorre educare ad affrontare la vita con fiducia, a darsi degli obiettivi, ad allenarsi ad affrontare le difficoltà, soprattutto a contrastare ogni atteggiamento passivo per imparare a sentirsi protagonisti di una vita che è dono di cui rispondere.
Vi è poi un compito che è comune a tutti gli educatori, siano essi catechisti, sacerdoti, docenti: è il prendersi cura dei giovani guardandoli uno ad uno, ricordando a se stessi e insegnando così ai giovani che ciascuno di loro è pensato per ciò che è ed è chiamato per nome. Solo così si rendono possibili le scelte: facendo avvertire ai giovani la premura di chi pensa la loro vita. E non si tratta di un pensiero astratto, ma di un’esperienza che parla tanto quanto coinvolge. Ogni intervento educativo che non trova la strada della relazione personale e diretta finisce con l’essere fatica sprecata: ogni giovane ha bisogno di sentirsi unico e di avvertire che c’è qualcuno che pensa a lui per ciò che è, e non semplicemente perché è un giovane, o perché fa parte del gruppo giovani. L’anonimato di tante iniziative pastorali fa sentire il suo peso anche sul modo con cui i più giovani affrontano la vita. I giovani nella comunità cristiana cercano relazioni e figure di riferimento che facciano sentire che sono qualcuno per qualcuno. Così imparano che sono qualcuno per Dio e che a Lui sono chiamati a rispondere.
Gli adulti in generale hanno la responsabilità di far posto ai giovani nella società, facendo un passo indietro. Quando un giovane sperimenta che tutte le strade di una vita adulta sono bloccate, finisce con il chiudersi in se stesso, nella passività e nell’indifferenza.
Come può guardare con fiducia e con consapevolezza al futuro un giovane che non trova lavoro, che non può prendersi responsabilità nella società e nemmeno nella comunità cristiana perché tutti i posti sono occupati da adulti che non riescono a immaginare la loro vita senza certi ruoli, che non riescono a ripensare il loro posto nella società, valorizzando un patrimonio di esperienza trasformato in saggezza di vita, che non sanno stare dietro ai giovani per sostenerli, ma hanno bisogno di essere protagonisti in prima persona?
Infine, vi è un compito che è di tutta la società, che ha la responsabilità di accogliere il contributo dei giovani in quanto apporto innovativo, in grado di non farla invecchiare.
Certo, per questo deve accettare che i giovani mettano in discussione abitudini, modo di vedere le cose magari consolidati da lunghe tradizioni. Ma occorre essere tutti consapevoli che ogni società che non si lascia mettere in discussione dalla propria componente più giovane finisce con il mettersi fuori tempo e con il non sapere più rispondere alle esigenze del tempo che passa.
L’ascolto dei giovani, attraverso le informazioni che sono fornite dalla ricerca dell’Istituto Toniolo, lascia intravedere interessanti e impegnative prospettive per aiutare i giovani a diventare protagonisti della loro vita e della società di domani.

NOTE
1 La ricerca, avviata nel 2012, ha carattere nazionale. È condotta su un campione iniziale di 9.000 persone tra i 18 e i 29 anni; essi verranno seguiti fino ai 34, consentendo così di costruire un’immagine dinamica della popolazione giovanile, dal momento che le stesse persone verranno accompagnate per cinque anni, permettendo di capire come evolvono i percorsi di vita delle persone, le loro scelte, i loro progetti. È possibile in tal modo costruire delle vere biografie giovanili, potendo conoscere l’evoluzione della sensibilità, il confermarsi o il mutare delle scelte, il modo concreto con cui avviene la transizione all’età adulta. Le domande del questionario hanno riguardato alcuni grandi temi: il lavoro, la famiglia, la scuola, il volontariato, le istituzioni, la fiducia e il rapporto con il futuro, i valori di riferimento, il rapporto con gli strumenti della comunicazione e con il web… La maggior parte dei dati sono stati raccolti con lo strumento oggi più familiare per i giovani: il web. Altre sono state raccolte attraverso il telefono, pochissime con il tradizionale strumento cartaceo. Il questionario base viene periodicamente arricchito da alcuni segmenti tematici che di volta in volta sono ritenuti interessanti. Finora ne è stato realizzato uno sull’Europa, uno sul rapporto con la Chiesa e con la figura di Papa Francesco, uno sull’imprenditorialità giovanile e sulla propensione a considerare professioni meno diffuse. I risultati sono stati pubblicati in tre successivi rapporti: Istituto Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2013, Il Mulino, Bologna 2013; Istituto Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014, Il Mulino, Bologna 2014; Istituto Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2016, Il Mulino, Bologna 2016.
Alcuni approfondimenti sono stati realizzati con il metodo dell’intervista, dal momento che vi sono temi – quale ad esempio quello della religiosità – difficili da scandagliare attraverso un metodo puramente quantitativo; in particolare, è stata realizzata una serie di 150 interviste sul tema del proprio rapporto con la fede e con la Chiesa e i cui risultati hanno visto la luce nell’autunno 2015 con il volume Dio a modo mio, a cura di R. Bichi e P. Bignardi, Vita e Pensiero, Milano 2015.
2 Cf M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004.
3 Cf A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.
4 Cf ibidem.
5 Nel testo del comunicato con cui è stato annunciato il tema si legge che il prossimo Sinodo «intende accompagnare i giovani nel loro cammino esistenziale verso la maturità affinché, attraverso un processo di discernimento, possano scoprire il loro progetto di vita e realizzarlo con gioia, aprendosi all’incontro con Dio e con gli uomini e partecipando attivamente all’edificazione della Chiesa e della società».