N.06
Novembre/Dicembre 2016

Le “Relazioni” tra desiderio e progetto

Oggi abbiamo perduto molti degli strumenti sino a poco tempo fa efficaci per educare, orientare ed accompagnare i giovani nel discernimento vocazionale. Certamente una delle principali cause risiede nella deriva autoreferenziale che la post modernità ci consegna con i suoi miti dell’autoeducazione, dell’autogenerazione e dell’autorealizzazione, che ci allontanano dalla struttura autentica dell’umano e a cui è necessario reagire senza limitarsi alle sole stigmatizzazioni. La nostra tesi di sfondo è che l’università è tanto luogo quanto tempo della vita che possono essere prezioso strumento di discernimento vocazionale e spazio pastorale promettente spesso inesplorato. In una efficace alleanza, accademia e azione pastorale possono beneficiare l’una dell’altra, così da favorire la necessaria riappropriazione, in modo particolare per i giovani, di una relazionalità sana e di rapporti educativi che siano oggettivamente generativi1. I fattori di interesse di questo ambito e le possibilità di guadagno pastorale sono molte: l’esperienza universitaria accomuna la gran parte dei nostri giovani ed è una fase della vita dai contorni chiari e limitati che interessa tutti i nostri territori, che abbiano o meno un ateneo. Infine, nonostante le riforme che in molto hanno cambiato l’accademia, essa è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa nei suoi elementi ideali e rappresenta ancora, sia per i giovani che nell’immaginario collettivo, un punto fermo e un luogo riconosciuto autorevole. Di quanti luoghi, processi e tempi della vita possiamo dire oggi lo stesso? Quanto i nostri spazi ecclesiali hanno la medesima autorevolezza ed importanza per questa fascia di età? Nella mutevolezza liquida delle appartenenze sociali e spirituali, nell’emotivismo post moderno, l’università non ha perso il suo smalto e il suo valore di porto sicuro. In questo orizzonte continuamente cangiante, per cui anche il dato antropologico sta diventando mutevole, controllabile e frutto di una scelta – gender docet – resiste il titolo accademico. Si è medici, architetti, infermieri, agronomi per tutta la vita, si è fieri di esserlo, si fatica per diventarlo, si fa sfoggio di questa fatica. È un punto fermo desiderato e difeso. Esattamente come vorremmo che fosse la risposta al sogno di Dio.
La nostra tesi di fondo è che la scelta vocazionale sia un processo relazionale in cui entrano in gioco la libertà del Chiamante e del chiamato, in cui il progressivo svilupparsi del legame determina, o meglio, genera un riconoscimento reciproco per cui l’immagine custodita nel cuore del Chiamante rispetto al chiamato diventa il bisogno esistenziale del chiamato che ad essa decide di configurarsi per tutta la sua esistenza riconoscendole il valore assoluto che porta ad un processo di identificazione e riconoscimento che innesta addirittura nella Trinità stessa: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Ma all’università, mutatis mutandis, non avviene forse lo stesso per cui nella relazione accademica vi è un successivo riconoscimento, avvalorato dagli esami di merito e dalla dissertazione finale, in cui progressivamente si perviene ad una identità accademica che segna l’essere della persona per il resto della sua vita e che corrisponde, in larghi tratti, a quell’immagine custodita dall’accademia stessa che la riconosce? E di più si configura non solo il riconoscimento passivo – vengo riconosciuto – ma anche attivo, sono capace a mia volta di riconoscere e di dare riconoscimento perché ormai ho acquisito quella conoscenza che mi permette di farlo.
Come dunque non lavorare per contaminare ed innestare questi mondi? La proposta è quella di una pastorale vocazionale universitaria, ossia fatta nei luoghi universitari, con gli studenti universitari, ma anche con strumenti universitari, ossia una pastorale vocazionale che assume nei suoi tratti metodi, strumenti e modi che sono propri dell’università. Così da far prendere coscienza dei desideri, dare loro un orientamento serio e concreto, trasformarli in progetto e in concreta realizzazione di senso e di vita in relazioni autentiche ed effettivamente generative e capaci di un riconoscimento esistenziale e di fede. Naturalmente siamo consapevoli della sproporzione non colmabile tra la libertà di Dio e il suo essere totalmente Altro rispetto a qualunque strumento umano e pastorale, dunque anche in queste brevi note tutto sarà analogia ed ogni accostamento un balbettio rispetto al mistero profondo e spesso ineffabile del dialogo tra l’uomo e Dio, a maggior ragione laddove Egli chiama ad una speciale vocazione.
Lo spazio a disposizione per queste note non può che essere limitato, dunque ci soffermeremo solo su alcuni punti suggerendo qualche direzione di pensiero2.

1. L’università come luogo
L’università è un luogo: luogo del sapere, luogo di incontri, luogo aperto e multiculturale. Soprattutto è il luogo in cui un giovane costruisce consapevolmente il proprio futuro adulto culturale, sociale, professionale, lavorativo e, anche senza tematizzarlo, vocazionale e relazionale. È il luogo in cui la domanda «cosa vuoi fare da grande?» diventa concretezza perché si è già così grandi da poter prendere delle decisioni e si deve diventare grandi per trasformare i desideri, i sogni o le intuizioni in progetti e in direzioni di vita. L’università non è uno spazio neutro: è un luogo in cui si viene a contatto con tutto e con tutti. Pur essendo un ambiente relativamente protetto, in esso molti giovani vedono per la prima volta il mondo in faccia e vengono guardati in faccia dal mondo. L’università conserva il suo essere luogo in cui il molteplice si concentra in un solo punto, essa è, almeno idealmente, il mondo a portata di mano. Il web ha reso questo impatto meno affascinante e dirompente, ma non l’ha eroso del tutto. Decine e decine di pari, di giovani, si trovano nel medesimo luogo senza conoscersi e senza conoscere lasciando che altri li guidino, riconoscendo il bisogno che altri, i docenti, parlino ed insegnino, educhino.
Possiamo sostenere che la conoscenza ha bisogno di luoghi e i luoghi generano conoscenza e che nella narrazione biblica la vocazione si manifesta sempre in un luogo definito di cui si fa esplicita memoria.
C’è quindi un nesso cosicché l’università come luogo abbia una qualità teologica e quindi vocazionale? Pensiamo di sì: il desiderio e il bisogno di conoscere e l’effettiva possibilità che questo avvenga sono definiti da e in alcuni luoghi. Alcuni spazi più di altri rendono possibile lo sviluppo cognitivo, spingono al pensiero, permettono quel processo che porta ad una rappresentazione di se stessi diversa, capace di diventare più rispondente ai propri desideri e bisogni, alla realtà. Gli universitari per studiare hanno bisogno di un’aula studio, un laboratorio, di un ambiente. L’università come edificio è uno spazio che favorisce l’iterazione informale e formale nel rapporto educativo: ogni università è sempre più pensata e realizzata con questo scopo e a questo fine. Ma questi sono esattamente alcuni dei temi di cui la pastorale vocazionale si nutre: mettersi in discussione, confrontare il pensiero, lasciare che idee diverse mettano in dubbio le proprie, avere bisogno di un riconoscimento dei propri desideri in funzione del domani, mettersi in ascolto di un
Altro riconosciuto come determinante per le proprie scelte e le proprie capacità di perseguirle. Nella concretezza dell’azione pastorale questo può significare avere dei luoghi riconosciuti in università dove il tema spirituale possa essere trattato, dove si possa porre la domanda sulla vocazione ultima delle persone: cappella o sede della cappellania, sala multifedi o sede dell’associazione studentesca.
Anche fuori dall’università, nei nostri ambienti ecclesiali, è necessario definire maggiormente i luoghi del pensare e del discernere, del confronto e della riflessione. Abbiamo infatti luoghi di preghiera, luoghi per l’aggregazione e la catechesi, ma per i giovani abbiamo ancora troppi pochi luoghi deputati alla riflessione. Don Bosco, grande educatore della mia terra e dei giovani, aveva pensato il suo oratorio anche con un’aula: uno spazio per il pensiero e la formazione all’interno dell’oratorio fu scelta vincente, lo può essere ancora oggi perché un luogo del convegno risulta necessario.

2. L’università come tempo
L’università è anche un tempo dai confini abbastanza precisi. È il tempo in cui si diventa adulti, il tempo in cui da oggetto di cura si passa ad essere soggetto che cura. Nel tempo universitario la sospensione del presente tipica di questa epoca, che impedisce di definire il proprio progetto esistenziale, cioè la razionalizzazione delle idee, delle risorse e focalizzazione di uno scopo, non trova più quartiere perché non si può e non si desidera restare universitari a vita. Se anche oggi si tende sempre di più a non elaborare il passato e non ci si proietta verso il futuro, anche a motivo della rarefazione di alcuni automatismi sociali, nuovamente il tempo universitario non lo permetterebbe perché il futuro incalza e le scadenze bruciano quando non sono onorate. È un tempo in cui, oggi, il progetto personale di crescita è validabile solo in corso d’opera e con gli attori del fatto educativo quasi allo stesso piano: una sfida e anche una risorsa per la pastorale universitaria che si deve confrontare anche con una comunità accademica che può diventare attore, più o meno consapevole, dei percorsi vocazionali dei giovani.
Come trasformare questo tempo – Kronos, il dio gigante mostruoso che divora i suoi figli perché teme che uno di loro lo spodesti – in un kairòs, il tempo in cui Dio agisce (Mc 1,15) soprattutto, come qui ci interessa, in termini vocazionali? La risposta la troviamo nella domanda stessa, con l’irrompere dell’Eterno nel tempo, nella logica dell’incarnazione. In un circolo virtuoso inserire la dimensione spirituale e trascendente nel tempo universitario restituisce una dimensione di senso e di valore allo studio universitario e alla formazione della coscienza professionale nel giovane; questo percorso di appropriazione sempre maggiore di adultità e senso porta la persona a cercare sempre di più risposte di orizzonte e di sistema nella propria vita e, di qui, una risposta anche vocazionale al proprio esistere e saper progressivamente fare. Proviamo a declinare queste considerazioni nel tempo universitario per verificarne i potenziali guadagni pastorali in chiave vocazionale. Innanzitutto il momento universitario si apre con la scelta universitaria, tempo molto breve ma cruciale. La ricerca ci dice che la scelta è orientata da alcuni grandi macro fattori che abitualmente vengono declinati come segue:
a. motivi vocazionali: scelgo quanto realizza le mie aspirazioni profonde e di senso;
b. motivi funzionali: scelgo ciò che mi darà una posizione economica e sociale;
c. motivi familiari: scelgo ciò che mi pone in continuità con il lavoro dei miei genitori;
d. motivi casuali: scelgo per motivi contingenti o dell’ultima ora.
In realtà ricerche più puntuali3 mostrano che l’orientamento universitario è più complesso da leggere, comprendere e soprattutto descrivere per modelli. Questi studi sono importanti anche dal nostro punto di vista e sarebbe interessante un ulteriore approfondimento.
In queste note possiamo riservarci solo una considerazione spiccia, ma importante: la scelta universitaria dettata da motivi vocazionali è quasi sempre una scelta più serena, consapevole e che si mantiene salda nel tempo. La componente del senso e del valore, più di ogni altra componente utilitaristica, è vincente. Porre queste domande ai giovani, invitarli ad esplorare le possibili risposte e a considerare un orizzonte veritativo più ampio di quello che abitualmente viene offerto loro significa rasserenare e sostenere il momento dell’orientamento e far loro apprezzare il valore inestimabile dell’essere orientati e guidati. Questo orientamento è scoperta della propria identità, delle proprie effettive capacità, valorizzando il soggetto nelle scelte che lo coinvolgono. In questo modo si abilitano i giovani a prendere alcune decisioni che siano consapevoli e non casuali o di compiacimento. In questa fase è importante inserire il tema del bene comune e della costruzione del Regno di Dio per cui le scelte che si fanno si riverberano non solo su se stessi, ma su altri, su molti. Tanto più ci abilitiamo a considerare le nostre scelte come non solo personali, ma anche sociali ed universali, tanto più risulterà evidente che in noi, come in Abramo, possano essere benedette tutte le genti.
La componente spirituale conferisce al tempo universitario anche la capacità di prendere tempo, di non essere vittima dell’ansia o, al contrario, di gettare via il tempo accontentandosi delle esperienze immediate e superficiali.
Il tendere ad unità proprio di chi riconosce una dimensione spirituale aiuta a non disperdere e disperdersi; il riferimento ad una visione orientata della storia, non frutto del caso, ma di un disegno intelligente e finalizzato, conferisce allo studente il desiderio di cercare e porsi domande, di non accontentarsi di affastellare nozioni, ma di costruire costellazioni concettuali, reti di conoscenza che disegnino efficacemente la realtà e permettano di innestarsi in essa e di amministrarla scartando quanto è secondario, periferico, non adatto. Tendere ad avere un quadro di insieme, a spingere in avanti il proprio pensiero confrontandolo senza a priori, cercare la Volontà intelligente nelle cose e nella storia è evidente palestra per cercare quella volontà anche nella propria storia personale.
Un altro effetto fondamentale e regolativo del cammino universitario è la consapevolezza che ogni conoscenza non può avere pretese di assolutezza sul tutto né prevaricare altre forme di conoscenza.
La teologia e la religione hanno un effetto regolativo sulla vita intellettuale universitaria dando a ciascuno il posto che gli compete.
Questo effetto ordinatore è quanto mai importante se si decide della propria vita e del proprio futuro in termini vocazionali mettendo al riparo dai facili entusiasmi, dall’estremismo e dall’attendismo anche nelle scelte. Questi percorsi, poi, si fanno insieme e con una regola di vita precisa. Università e vocazione hanno bisogno di guide e di termini precisi che scandiscano il tempo e diano un ritmo.
Una parola infine per il tempo perduto, il tempo negativo, il tempo sprecato. L’università è anche palestra in cui si impara a ripartire dai propri fallimenti ed errori come nella vita spirituale si impara a fare i conti con il proprio peccato e con la fallibilità di un cammino ascetico. Spesso il discernimento vocazionale è segnato in negativo dalla paura del fallimento, dalla mancanza di certezze assicurate ed assicurabili. La vita di fede letta con le categorie e dall’esperienza della vita universitaria e viceversa, rendono ragione del fatto che il peccato e il fallimento sono occasioni di grazia e nella misura in cui vengono vissute con umiltà diventano strumento di discernimento e di scelte serene.

Conclusioni
Scelta, tempo e luogo non sarebbero di per sé sufficienti se non fossero mossi dallo studio. Lo studio è il vero motore della vita universitaria, l’asse portante del tempo dell’università e, sotto il nostro profilo teologico pastorale, il punto di innesto primario di una pastorale vocazionale efficace. Non vogliamo in sede di conclusioni tracciare i confini di una spiritualità dello studio, anche se filone necessario, fecondo e centrale in una più ampia riflessione sulla pastorale universitaria, piuttosto usarne alcuni elementi costitutivi come collante e comburente di tutti gli altri aspetti che sommariamente abbiamo evidenziato.
Qualunque forma di conoscenza, anche la più sofisticata ed articolata, parte da un punto di origine: il rapporto frontale con un “tu” che ci fa uscire dal nostro “io” e ci apre al mondo. Lo studio conosce i suoi ritmi, lo studio genera la capacità di saper domandare e il desiderio di conoscere la verità sino a giungere a Colui che è Verità. Lo studio abilita a distinguere per connettere e non tenere separato. Lo studio mette in relazione la persona con il creato, con se stessa ed infine con il Creatore dando un metodo per separare vero da falso, giusto da ingiusto. Lo studio correttamente inteso sostiene una spiritualità autentica, disponibile a rispondere di sì. Lo studio è una prova di capacità relazionale con il pensiero di altri e nella vita universitaria, diventa lo strumento efficace per generare nuovi legami. In una comunità di pari, chiamati al medesimo obbiettivo, il mettersi insieme a pensare è palestra importante per acquisire un’attitudine feconda ad un “tu” che ci sta davanti e mette anche in crisi la nostra identità. Ma lo studio è anche fatica e solitudine, ultima istanza che interpella le proprie capacità e responsabilità conferendo dignità e valore alle scelte. Lo studente impara a stare ben diritto di fronte al professore all’esame, in modo adulto e nella convinzione che chi gli sta davanti non è nemico, ma strumento che può riconoscere lavoro e fatica, verità e traguardi e conferire un titolo. Stare di fronte a qualcuno che ha il potere e il dovere di fare delle domande a cui, da solo, tu devi delle risposte che tu e soltanto tu devi dare. La portata di questo piccolo dramma è significativa. In quei pochi minuti si gioca molto in termini di verifica della propria personalità, prima ancora che della propria preparazione accademica.
Innanzitutto significa aver accettato che l’altro ha potere su di me, di domandare prima e di giudicare poi. Si tratta di cedere una parte della propria sovranità su se stessi, di consegnare in qualche modo la propria libertà. Nella postmodernità autosufficiente si tratta di un passaggio importante, propedeutico ad un mettersi di fronte a Dio di ben altro spessore ed implicazione, ma che risente delle stesse precompressioni che incrostano tutta la modernità. Allo stesso tempo però l’altro non ha potere di vita e di morte, l’altro riconosce la tua dignità, il diritto a stargli di fronte, il diritto a non rispondere, ad andarsene, il diritto a riprovarci, ma soprattutto a sottrarsi. Si tratta di un contesto di giudizio, ma non è un tribunale. L’orgoglio della propria indipendenza cede il passo alla fiducia, con una certa dose di umiltà, ma senza scadere nell’umiliazione avvilente.
Lo studio e la vita universitaria abilitano così, in modo bello e graduale, ad altre domande ben più cogenti, ad altri appelli ben più significativi e a scoprire che Dio ha riconosciuto in te un tassello importante del suo disegno di salvezza. Giova ribadire la sproporzione, ma nello stesso tempo abbiamo sempre più bisogno di mediazioni che ci aiutino, sul versante antropologico, a recuperare alcuni atteggiamenti che sino a pochi anni fa erano patrimonio indiscusso della società e dell’atteggiamento religioso delle persone.
In questo tempo smarrito, in cui i giovani fanno fatica a partecipare in modo proprio ad una celebrazione, anche questi semplici ed apparentemente lontani strumenti possono essere profittevoli per allacciare un dialogo che condivida un linguaggio e alcune rappresentazioni che siano significative ed esistenzialmente capaci di agganciare delle risposte.

NOTE
¹ Lo sfondo teologico di queste brevi note è rinvenibile in A. Bozzolo – R. Carelli (edd.), Evangelizzazione e educazione, LAS, Roma 2011; F. Ceragioli, Il cielo aperto. Analitica del riconoscimento e struttura della fede nell’intreccio di desiderio e dono, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2012; R. Sala, L’umano possibile. Esplorazioni in uscita dalla modernità, LAS, Roma 2012.
² Per un ulteriore approfondimento del tema si rimanda a L. Peyron, Per una pastorale universitaria, Elledici, Leumann (TO) 2016.
³ Di particolare interesse la lettura sociologica rinvenibile in F. Corradi, Razionalità, coerenza e vocazione nelle scelte universitarie individuali, Ledizioni, Milano 2010.