N.01
Gennaio/Febbraio 2017

Desideriamo una Chiesa lieta: la dimensione festiva della gioia

Desiderare una Chiesa lieta, perché sia grembo attraente di vocazioni, è cosa possibile e auspicabile: nessuno può impedire di farlo. Ma, come tutte le realtà che hanno a che fare con la sfera del desiderio, è difficile pensare di poter fare della gioia un “comandamento”, tanto più un programma pastorale. Fatalmente e facilmente l’appello ad una Chiesa gioiosa si trasforma nella lamentela per la mancanza dei giovani, la stanchezza degli adulti e la tristezza degli anziani, con conseguente aumento di quel senso di frustrazione e depressione che contraddistingue tanti nostri discorsi pastorali. La verità è che si può comandare l’amore (cf Gv 13,34), ma la gioia no: quella sopraggiunge come l’effetto insperato di un dono ricevuto, riconosciuto e condiviso. Se la gioia non può essere comandata, può tuttavia essere augurata: «Rallegratevi nel Signore, sempre!» (Fil 4,4).
In comunione e in continuità con l’apostolo Paolo, accogliamo la sfida di Papa Francesco a desiderare una Chiesa lieta, per domandarci, insieme a lui, dove e come riattivare la perfetta letizia della fede. La liturgia e la festa appariranno come due punti luminosi, al contempo sorgivi ed espressivi, nei quali riaccendere continuamente la gioia del Vangelo.

1. Evangelium gaudium: un invito alla gioia
Fin dal suo titolo, Evangelii gaudium (EG) è un invito alla gioia: «La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù… Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (EG 1). Contro la tristezza di un mondo malato di egoismo e di consumismo, la fonte della vera gioia è anzitutto ravvisata nell’incontro personale con il Signore, dal quale nessuno deve sentirsi escluso.
Contro la tristezza di un cuore malato di individualismo e di vuoto interiore, la gioia della fede si alimenta parimenti dell’incontro con gli altri, in special modo i poveri, che risvegliano l’entusiasmo di fare il bene (EG 2). L’incontro del Signore, infatti, non ci chiude in noi stessi, ma al contrario ci riscatta dalla nostra autoreferenzialità e ci conduce al di là di noi stessi, verso l’altro, per giungere alla nostra umanità più piena (EG 8).
L’incontro con Dio e l’incontro con gli altri: da questo intreccio indissolubile sgorga la promessa di una gioia che non viene meno, «come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie» (EG 6). Una piccola collana di perle bibliche sul tema della gioia (EG 4-5) è proposta per custodire, nel cammino della vita, la memoria grata della gioia che scaturisce dall’incontro con l’amore di Dio, manifestato nel Signore Gesù.

1.1 La gioia nelle Scritture
La presenza del tema della gioia nelle Scritture fa pensare ad un firmamento di stelle che rischiara il cielo della Bibbia. Promessa e incoraggiata dai profeti («Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!», Is 40,9); contemplata nella creazione, che partecipa con il suo canto di giubilo alla gioia della salvezza («Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, perché il Signore consola il suo popolo», Is 49,13), la gioia si accende nell’annuncio del Signore che viene, nell’incontro con la sua misericordia: «Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17). Tutte le immagini di gioia, legate alla Torah e all’esodo, al ritorno dall’esilio e al tempio, trovano unità nella vicinanza del Dio che viene.
La tonalità dell’attesa e il movimento verso il futuro trovano il suo compimento nel Vangelo di Gesù, «dove risplende gloriosa la Croce di Cristo» (EG 5) e dove la gioia ha l’orizzonte escatologico del presente. È la gioia di Maria che accoglie il saluto dell’angelo («Rallegrati!», Lc 1,28) ed esulta nel Magnificat; la gioia di Giovanni nel grembo di sua madre (Lc 1,41) e alla vista di Gesù («Ora questa mia gioia è piena», Gv 3,29). È la gioia di Gesù, che in preghiera esulta nello Spirito (Lc 10,21) e promette ai discepoli una gioia piena, che nessuno può togliere (Gv 16,22). È, infine, la gioia dei discepoli, che sono riempiti di gioia nel vedere il Signore risorto (Gv 20,20), che condividono il cibo e i beni con letizia (cf At 2,46) e portano una grande gioia ovunque passano (At 8,8). Si tratta di una «letizia perfetta» (Gc 1,2), che non viene meno anche in mezzo alla persecuzione (At 13,52) e che rappresenta quasi il distintivo del discepolo che viene alla fede (si pensi a Zaccheo, oppure all’eunuco battezzato e al carceriere di cui parlano gli Atti degli Apostoli: At 8,39; 16,34). Il commento di Papa Francesco è incisivo: «Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia?» (EG 5).

1.2 Una gioia seria
Eppure, avverte il Papa, «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (EG 6). La constatazione fa subito venire in mente l’affermazione lapidaria che il giovane e un po’ triste curato di campagna descritto dal romanzo di Bernanos si sente rivolgere: «Il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste». È lo stesso atto di condanna rivolto dal filosofo Nietzsche ai cristiani, accusati con il loro volto triste di non essere credibili a proposito della loro fede nella Risurrezione.
Dietro la tristezza, il Papa riconosce che vi possono essere difficoltà oggettive, che provengono dalle ferite della vita e dalle fatiche dell’assunzione delle sofferenze altrui. Occorre in tal senso stare molto attenti a non cedere all’illusione di una gioia superficiale, che nega la sofferenza e misconosce la fatica della Croce, come se la Quaresima fosse solo una parentesi della vita. È lo stesso Papa Francesco a ricordare come non si possa separare la gioia della risurrezione dalla serietà di chi si china sulle ferite degli uomini: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari, che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano» (EG 270).
Resta vero, avverte il Papa, che se la risurrezione staccata dalla croce fa di noi degli illusi, la croce staccata dalla risurrezione fa di noi dei delusi: «Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore» (EG 83). Tale tristezza, che quando è frutto dell’individualismo consumista si traduce in un ripiegamento individualistico e in un calo di fervore, va combattuta come una vera e propria catena, dalla quale liberarsi (EG 208). È contro questa tristezza che il Papa insiste sulla necessità di non lasciarsi rubare la gioia dell’evangelizzazione.

2. La liturgia, sorgente di gioia
Ma dove ritrovare la gioia dell’evangelizzazione? A quali sorgenti abbeverarla e rinfrescarla? La risposta di Papa Francesco mette in gioco anzitutto l’esperienza liturgica della preghiera: «La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata» dell’incontro con il Signore, rinnovato nell’Eucaristia (EG 13). Lì si riconosce che tutte le difficoltà della vita e dell’evangelizzazione vengono in secondo piano rispetto al primato della sua presenza e del suo agire salvifico. Lì si impara a “festeggiare” e a celebrare ogni piccola vittoria, ogni passo in avanti nella vita cristiana: «L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi» (EG 24).
Il fatto che la liturgia sia compresa nel momento del festeggiare e del fruttificare, costituisce un invito a cercare sempre, nella celebrazione liturgica, i motivi per lodare, per magnificare il Signore per tutto il bene che, grazie a Dio, progredisce nel mondo. A questo proposito, è interessante notare come i brani biblici ai quali Papa Francesco fa riferimento per descrivere la gioia dell’evangelizzazione siano quelli delle grandi feste della liturgia cristiana: la gioia messianica annunciata dal Natale, la gioia promessa da Gesù prima di morire, la gioia pasquale della comunità degli Atti degli Apostoli.
La liturgia appare, pur “sottotraccia”, come sorgente che custodisce l’annuncio della gioia cristiana.

2.1 Orientarsi al Signore, per convertirsi alla gioia
Anche per la liturgia rimane aperta la questione di come fare a gioire tra le croci del mondo. Come custodire il “tempo buono” della gioia, senza apparire dei “buontemponi”? Nell’ambiguità dei “segni dei tempi”, che sollecitano ad una profonda conversione personale e pastorale1, la gioia della fede invita a valorizzare la liturgia come “segno del tempo” favorevole (il kairós di cui si parla in Lc 12,56), nel quale la grazia di Dio è offerta in Cristo. In essa lo sguardo del discepolo missionario si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo (EG 50), per discernere i “segni dei tempi” alla luce del “segno del tempo” messianico che è Gesù. La liturgia non chiude gli occhi di fronte alle miserie del mondo, a ciò che manca perché il Regno venga, al “non ancora” della salvezza: e tuttavia converte lo sguardo del discepolo, per orientarlo al Regno che viene, che si è “già” pienamente manifestato nella persona di Gesù e si fa presente in ogni tempo e in ogni storia, per salvarla e guarirla.
A questo proposito, occorre prestare attenzione al rischio di un modo ingenuo e poco evangelico di voler a tutti i costi “portare la vita” nella liturgia: nell’intento di scongiurare uno spiritualismo indifferente agli altri, si introducono nella liturgia quegli stessi motivi di angoscia e preoccupazione che schiacciano le persone nelle loro storie, nei loro ragionamenti “senza Cristo”. La questione è certo delicata: come sollevare dai pesi della vita e della storia senza ignorarli? La liturgia ha la sua sapienza, levigata nei secoli: converte “orientando”, cioè spostando l’attenzione da noi a Dio, dalle nostre miserie alla sua misericordia (riti di inizio), dai nostri ragionamenti scoraggiati alla sua Parola di speranza (liturgia della Parola), dalla lamentela all’invocazione (preghiera universale e liturgia delle ore), dalla cronaca dei nostri insuccessi alla memoria dell’opera di Dio (liturgia del sacramento). Apparentemente distoglie dalla vita quotidiana, in realtà guadagna un punto di osservazione più alto, per guardare a quella stessa vita in un’altra prospettiva.
Questo sguardo benigno e sereno, lo si può ben intuire, non è scontato: deve animare coloro che “animano” il rito, così da poter dire, senza parole e senza bisticci di parole, che la Chiesa è il frutto buono della Parola. I bisticci di parole sono quelli di linguaggi che si smentiscono a vicenda: come quando, ad esempio, si dice che il Signore è grande nell’amore con la faccia triste; quando si annuncia la misericordia e nel frattempo si sgrida la gente; quando si soffoca la gioia della Pasqua in un cerimoniale freddo e antipatico. Se la parola “gioia” deve risuonare maggiormente nella liturgia, questo non deve accadere “a parole”, ma nella verità, nella varietà e nella bellezza dei linguaggi coinvolti nella celebrazione. 

2.2 La liturgia e i linguaggi della gioia
La liturgia evangelizza celebrando nella gioia. Ma quali sono i linguaggi della gioia nella liturgia e come rendere più gioiose le nostre celebrazioni? Il pensiero corre immediatamente a tutte quelle espressioni che ricorrono all’interno della liturgia e che risuonano come un invito alla gioia del cuore: «In alto i nostri cuori!»; «La gioia del Signore sia la vostra forza!»; «O Dio, che ci hai donato la gioia di celebrare…».
Ci si accorge subito che non è sufficiente annunciare e augurare la gioia: è necessario che il tono di voce, il gesto, l’atmosfera generale siano corrispondenti alla gioia che si annuncia. Non si può infatti parlare della gioia cristiana con il volto triste. Si può obiettare che ciascuno partecipa alla celebrazione con la faccia che si ritrova e non può mettersi a recitare, con sorrisi finti e pose di circostanza.
Nella liturgia non si finge e ci si accorge subito se una persona quando celebra diventa “totalmente altro”: totalmente compassata nel rito, eccessivamente disinvolta nella vita; o, all’opposto, melliflua nella celebrazione e scontrosa nella quotidianità. E tuttavia la liturgia ci invita a fare nostri i sentimenti della celebrazione, che sono poi i sentimenti di Cristo e della Chiesa, per cui non si tratta di fingere, ma di fare ciò che la liturgia ci invita a compiere: esultare, lodare, innalzare i cuori, raccogliersi, adorare, nel rispetto delle situazioni di ciascuno (chi è nella gioia, chi è nel lutto) e nella ricerca di un “volume” equilibrato. Tutto questo ricordando quella legge generale della liturgia, che dice: «Nella liturgia non dite quel che fate, ma fate quel che dite!». Per fare un esempio, si può pensare a quei lettori del salmo che fanno ripetere in modo stanco e un po’ depresso ritornelli di lode e acclamazione, oppure a quelli che, accorgendosi dello scarto tra il contenuto e la forma della lode, cercano di recuperare dicendo: «Ed ora ripetiamo con entusiasmo…!».
Nessun invito alla gioia sarà tanto potente come il fatto di cantarlo, questo benedetto salmo di gioia!
L’esempio del salmo responsoriale, ovvero di un canto non cantato, rinvia ad uno dei linguaggi più potenti e più adatti per esprimere la gioia cristiana: quello del canto. L’importanza del canto per un’esperienza gioiosa della liturgia è sotto gli occhi di tutti, nel bene e nel male. L’esperienza positiva è quando, anche nel semplice canto del Gloria, dell’Alleluia (giustamente definito come un “applauso canoro”) o del Santo, l’assemblea ordinaria è pienamente coinvolta, senza che vi sia la necessità di sbracciarsi in battiti di mani, aggiungendo strumento a strumento. L’esperienza negativa è quella di una musica sistematicamente assente e di un canto avvizzito e trascinato, oppure urlato e maltrattato. Con la scusa che non si trova nessuno che suoni o sostenga il canto, non si cerca e non si forma nessuno, tanto non si tratta di qualcosa di essenziale! Non ci si accorge che la gioia appartiene a quel “di più”, a quel “più che necessario”, senza il quale la vita non ha lo stesso sapore e valore.
Ma il canto non è l’unico linguaggio chiamato a coinvolgere tutta la persona – sensi, sentimenti, razionalità – nella gioia liturgica.
È importante che il luogo in cui si celebra sia uno spazio “felice”, dove ci si sente a proprio agio, dove la luce non è triste e i fiori non puzzano di vecchio. È importante che il colore dominante non dia un senso di grigiore. È importante che il tempo sia disteso e non frettoloso. È importante che almeno nelle feste i simboli propri della liturgia siano valorizzati, senza andare alla ricerca di trovate stravaganti: sono più che eloquenti le luci e l’incenso che accompagnano i ministri nella processione di inizio, il pane e il vino nella processione dei doni. È importante, finalmente, che i corpi siano coinvolti nei gesti della preghiera e partecipino con fervore, così da buttare via le maschere che si sono sedimentate sui nostri volti e favorire quella “dilatazione” del volto, dello sguardo, del respiro, del tempo e dello spazio che esprime la bellezza della gioia cristiana.

3. La festa, dilatazione della gioia
È San Tommaso che associa il termine delectatio, che indica il piacere, al termine dilatatio, che indica l’esperienza della dilatazione, fisica e spirituale insieme, che è conseguenza della gioia cristiana.
L’assonanza fonetica tra l’aggettivo laetus (da cui deriva la laetitia) e l’aggettivo latus (largo) fa pensare alla capacità della gioia di dilatare lo sguardo e il cuore, oltre ogni chiusura, verso spazi di comunione e libertà. È quello che cerca di fare la festa, la cui vocazione è quella di dilatare la gioia nella globalità delle dimensioni della vita e nella totalità del coinvolgimento interpersonale.
Questa vocazione, che la festa porta con sé, è scritta nei sensi del corpo, prima che nel senso della mente: nella festa il “di più” della gioia si esprime in un “di più” di luce e di canto (sino all’eccedenza del grido), di ebbrezza di volto e vestito, di profumo e gusto, di movimento e contatto. In questa eccedenza sensoriale, la festa prende sul serio i bisogni del corpo (mangiare, bere, muoversi, toccare) per aprirli alla sfera del desiderio; tocca la vita “così com’è”, nella sua normalità e imperfezione, per aprirla alla vita “così come dovrebbe essere”, nella sua pienezza e nel suo compimento escatologico, che unisce sempre il corpo individuale con il corpo più grande della comunità.
In questa logica, la liturgia, che è al cuore della festa cristiana, non può rimanere isolata: ha bisogno di un prima, da preparare con cura e dedizione, e di un dopo, che espande nel tempo e nello spazio la gioia liturgica dell’incontro che salva. Il tempo della festa illumina l’esperienza della gioia, come attesa prima della festa, come attimo benedetto nel culmine celebrativo della festa, come memoria grata dopo che la festa è finita, ma la gioia rimane.
Pensando alla festa cristiana, viene in mente la sicurezza con cui la Chiesa ha sempre considerato la domenica come la festa primordiale dei cristiani (Sacrosanctum Concilium, 106). Guardando alle nostre comunità cristiane, l’impressione generale è che ad una certa attenzione prestata alla qualità festiva dell’Eucaristia domenicale non corrisponda uguale attenzione alla qualità festiva del giorno del Signore e dei “piccoli riti” chiamati a liberare e dilatare la gioia. Tali sono il rito del pasto familiare e comunitario, che dilata la comunione eucaristica; i momenti del dialogo e dell’incontro con le persone care e con quelle sconosciute, che dilatano i confini del nostro io e la percezione del tempo liberato; i gesti del movimento, dello sport, della danza, che trasformano la lode in ludus, il corpo in “gioco” che dilata la gioia e la libertà.
Lodare, ringraziare, incontrare, mangiare, danzare, giocare, ridere, riposare, correre, camminare: sono i verbi della festa, attraverso i quali prende forma la gioia cristiana. Sono azioni complesse da attivare, dal momento che hanno bisogno di spontaneità e insieme di una certa disciplina, proprio come il rito. Là dove la comunità impara l’arte della festa comunitaria, quest’ultima non diventa più la scusa o l’occasione pastorale per fare delle cose, allo scopo di rianimare la comunità. La festa diventa l’incontro dei sensi con il senso pasquale della vita: il luogo teologico in cui la vita è evangelizzata a partire dai bisogni e dai desideri del cuore; il tempo nel quale il Vangelo è incarnato in una promessa di vita che non mette tra parentesi le fatiche della terra, ma lascia intravedere, alla luce di un cielo più alto e di una speranza più grande, il tempo dei fiori e dei frutti; lo spazio in cui il “corpo spirituale” entra in comunione con il corpo degli altri, della comunità, del creato stesso, in quella “fraternità mistica” «che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano» (EG 92) e sa riscoprire «il piacere spirituale di essere popolo» (EG 162)2.

4. La comunione, fonte zampillante della gioia cristiana
Nel culmine “mistico” della festa (nel senso di quella «mistica del quotidiano» di cui parlava Rahner), così come nel culmine misterico della liturgia, è finalmente l’esperienza della comunione a rivelarsi quale sorgente zampillante della vera gioia. È una comunione che trova la sua sorgente prima e ultima nella comunione al corpo eucaristico di Cristo, dove l’incontro con il Signore si salda indissolubilmente con l’incontro con i fratelli. Qui risplende «la gratuita carità» (Giovanni Crisostomo) che è all’origine della vera festa e della vera gioia. Alle nostre comunità il compito di attingere con fiducia e sapienza a questa fonte, per abbeverarsi dello Spirito di quella carità che è sorgente non solo di gioia e pace, ma pure di nuovo slancio evangelizzatore e di nuove vocazioni.

 

NOTE

1 In EG 52-75 troviamo un lungo elenco: la precarietà della vita, l’economia dell’esclusione e dell’iniquità, la globalizzazione dell’indifferenza, il primato dell’apparenza e dell’esteriorità, l’idolatria del denaro, la crisi della famiglia.

2 Per un approfondimento, cf P. TomaTis, La festa dei sensi. Riflessioni sulla festa cristiana, Cittadella, Assisi 2010.