N.01
Gennaio/Febbraio 2017

Sogniamo una Chiesa “inquieta”

1. Inquieta?

Cerchiamo di capire l’aggettivo con cui Papa Francesco descrive una caratteristica che – nell’intervento al Congresso di Firenze – auspica per la Chiesa italiana.
Il dizionario italiano alla voce inquieto recita: «Che è in stato di agitazione, irrequieto; di qualcuno che ha l’animo travagliato, turbato». Anche gli altri significati proposti sono sul versante semantico dell’angoscia. Non sembra una pista percorribile: non si desidera una chiesa angosciata! Ma in-quieta.
Sempre nel vocabolario leggiamo: «Quieto: chi è in stato di quiete [stato di ciò che è immobile], che non si muove o si muove con moto lento e regolare». La gamma di significati proposta pare più vicina al pensiero del Papa che a Firenze affermava: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta: sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». Una Chiesa, dunque, non immobile, ma che combatte contro le tentazioni di pelagianesimo e gnosticismo che vorrebbero rinchiuderla in securizzanti conservatorismi e fondamentalismi; una Chiesa che si avventura per la via della creatività, dando spazio alla leggerezza del soffio dello Spirito.
In una recente pubblicazione, il Presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Matteo Truffelli, rilancia l’aggettivo in questione e ne chiarisce la genesi: «È tempo di essere credenti inquieti. Resi tali dal Vangelo, dall’incontro con il Signore, dall’urgenza che questo incontro fa nascere dentro ciascuno di noi, “dal momento che se uno ha fatto realmente esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo…” (EG 120). È tempo di essere irrequieti, non tiepidi, né timorosi»1.
Truffelli – e noi con lui – vede l’appello di Papa Francesco come invito a «passare da un prudente 3-5-2, tipico di chi è attento a non scoprirsi in difesa, è abituato giocare di rimessa, convinto di doversi adattare all’iniziativa di squadre più forti, a un più spregiudicato 4-3-3, vocato all’attacco, a giocare a tutto campo, facendo ricorso alla fantasia, all’estro, alla coesione tra i reparti. Un modulo di gioco più rischioso che forse ci espone al contropiede, a prendere qualche gol perché ci potremmo far trovare sbilanciati in avanti, e che forse chiede anche di correre di più, ma che non rinuncia mai a “fare il gioco”»2.
Fare gioco: questo il sogno! Sogno, categoria biblica di rivelazione, quando Dio può entrare nelle difese allentate della sua creatura e proporle un orizzonte alla propria misura. Sogno di una Chiesa in-quieta.

2. Dalla rigidezza del pelagianesimo alla leggerezza del Soffio
Per raggiungere l’obiettivo la prima delle tentazioni da cui guardarsi è il pelagianesimo – sottolinea Papa Francesco alla Chiesa italiana – che «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività… In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito».
Per questo il Pontefice invita a cercare soluzioni non «nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Infatti «la dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».
Cosa può significare tutto ciò in ottica di pastorale vocazionale?
Da quali domande potrebbe lasciarsi attraversare?
Ne indichiamo una fra le tante: senza preti? La prendiamo in prestito dal titolo di un agile libretto scritto da «un laico che ama la Chiesa»3 e che può essere oggetto di dibattito in seno alle nostre équipes vocazionali. L’ottica in cui si pone l’autore è quella del Vaticano II, che presenta una Chiesa ministeriale i cui pilastri sono Eucaristia, Parola e servizio della Carità. Per questo, scrive Campanini: «Quella che oggi viene concepita come una drammatica crisi – l’assenza dell’Eucaristia soprattutto in zone disagiate e marginali, a causa del ridotto numero di presbiteri – è dunque una sfida a ripensare la vita della Chiesa nella sua globalità e ad individuare nuove figure ministeriali, al maschile e al femminile, fino a divenire una Chiesa che respira a due polmoni, quello maschile e quello femminile»4.
Concedendoci al soffio leggero dello Spirito, si potrebbe aprire il Codice di Diritto Canonico e trovare, al canone 517.2, la possibilità offerta al vescovo diocesano di affidare «una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia» ad un «diacono o a una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone», costituendo un parroco moderatore della cura pastorale stessa.
Il Concilio (LG 19) aveva sollecitato le chiese locali ad individuare modalità concrete per reintrodurre il diaconato come ministero permanente. Le diverse chiese, nel mondo e in Italia, hanno seguito percorsi articolati. Da più parti si avverte la necessità di riprendere la riflessione e di rimotivare la pastorale di questa vocazione.
Non ultima, la provocazione per un diaconato femminile, con le sue radici nella Chiesa delle origini, da vagliare e comprendere. Indubbiamente la Chiesa in uscita invocata da Francesco deve farsi sempre più prossima alla gente e, in tale prossimità, la figura del diacono potrebbe essere efficace. La specificità di un servizio non solo liturgico, ma a 360 gradi, porterebbe il raggio di azione delle nostre comunità lì dove lavoro e mancanza di lavoro, famiglia e sua disgregazione, cultura e tempo libero attendono un ascolto e una parola che sia a servizio del bene di tutti. Anche la vita consacrata, nella sua forma diaconale, potrebbe ripensare la propria presenza in seno alla Chiesa particolare in ottica pastorale.
Indubbiamente, poi, la vita religiosa femminile, non meno che la vocazione al presbiterato, attraversa una difficile situazione; tuttavia l’interazione con la comunità e il territorio in cui si vive, al di là delle forme tradizionali di servizio, potrebbe offrire nuovo volto e nuove aperture alle comunità e alle giovani che desiderano porsi a servizio della Chiesa. Le incognite sono molteplici. Il rischio di proseguire per una via di supplenza – prima allo Stato, carente sul piano sociale, ora ai quadri pastorali – resta alto. Anche qui la leggerezza del Soffio appare indispensabile per non appiattirsi su modelli consolidati, spesso unicamente centrati sulla figura del presbitero, per aprirsi alla creatività di una pastorale inclusiva, che faccia leva sulla universale vocazione alla santità e sulla altrettanto universale chiamata ad essere protagonisti nell’annuncio del Vangelo.
Senza preti? La domanda si convertirebbe così in: quali vie per nuovi ministeri?5

3. Dalla solitudine dello gnosticismo alla tenerezza dell’incontro
La seconda tentazione che Papa Francesco invita ad evitare è lo gnosticismo, che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello». A questa tentazione si reagisce scegliendo vicinanza alla gente e preghiera: «Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».
Il richiamo del Pontefice a Firenze a vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto, può essere declinato in articolati cammini vocazionali. La vita consacrata, ad esempio, a cui appartiene intimamente l’identità di pellegrina orante in limine historiae si pone domande forti su come accettare di misurarsi con certezze provvisorie, con situazioni nuove, con provocazioni in processo continuo, con istanze e passioni gridate dall’umanità contemporanea; custodendo la ricerca del volto di Dio e la sequela di Cristo.
Una vita consacrata che si lascia guidare dallo Spirito, per vivere l’amore per il Regno con fedeltà creativa e alacre operosità6.
Ma la domanda radicale è scritta sulla “carne del fratello”. Come porci così vicini da leggere ogni ruga, ogni fremito di dolore e di gioia? Come lasciare che lo Spirito tolga da noi il cuore di pietra e lo renda cuore di carne, cuore su cui lo Spirito stesso può incidere la parola alleanza? Presentiamo queste domande a due donne, l’una del Vangelo, l’altra nostra contemporanea.

4. Elisabetta e Madeleine, icone della libertà nello Spirito
Elisabetta, profezia sulla novità di Dio
Elisabetta è donna, come tante, segnata dalla sterilità, ma profeticamente aperta sulla novità di Dio; donna inconsueta, che ha segnato la storia della salvezza non con un “sì”, ma con un “no”! Il “no” di una donna a ciò che è stantio nella accoglienza della fede si rivela un “sì” alla gratuità della salvezza7.
Leggiamo in Luca 1,57-60: «Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i consanguinei seppero che il Signore aveva largheggiato in misericordia con lei e gioivano insieme a le. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria.
Ma sua madre intervenne: “No! Si chiamerà Giovanni”». Luca ci presenta Elisabetta, cugina di Maria, tra l’ombra del nascondimento in cui si è ritirata per la maternità imprevista e l’esultanza dell’incontro con Colei che sarà la madre del Messia. Vissuta all’interno dell’osservanza fedele e puntuale che l’essere moglie di un sacerdote le richiedeva, portava nel proprio nome Elisabetta, “Dio ha giurato” e in quello del marito Zaccaria, “il Signore ricorda”, il sigillo della fedeltà di Dio alla promessa.
Eppure la promessa sembrava imbrigliata, imbavagliata dalla lingua stessa di colui che avrebbe dovuto annunciarla. L’incontro nel tempio con il messaggero di Dio, infatti, è avvolto nella incredulità di Zaccaria e genera il suo mutismo. Senza possibilità di ascolto non si apprende ad articolare suoni; senza un ascolto credente della Parola non si può profetare!
«Se la pietà del Tempio era affidata al ruolo maschile e conservativo dei sacerdoti, la fede cristiana si apriva sulle braccia laiche e femminili delle madri, giovani o anziane, giudee o galilaiche che fossero; se il Dio del Tempio era protetto dai recinti esclusivi del culto e della rigida precettistica, il Dio dello Spirito batteva strade senza confini e senza muri, includendo ogni umanità e annunciando la salvezza per tutti. Elisabetta è una donna capace di gratitudine e di libertà, di profezia e coraggio. La salvezza per Israele non verrà dall’ortodossia del sacerdote del Tempio, ma dalla fede di una donna che, come lei, non aveva mai smesso di attendere»8. L’attesa aveva scavato in Elisabetta lo spazio per l’imprevisto di Dio: Giovanni il suo nome! Giovanni, cioè “dono di Dio”. «No! Si chiamerà Giovanni! Così si chiamerà perché quel figlio è venuto dalla promessa di Dio e non dalla virilità della stirpe di Levi. Questa è la verità! Lei ne ha respirato ogni letizia, ogni sorpresa, ogni insperata gratuità»9.
All’interno di una cultura che conservava il proprio legame con Dio entro forme stantie – per riprendere i termini di Papa Francesco – vittima ante litteram di pelagianesimo e gnosticismo, il no di Elisabetta si oppone alle reiterate insistenze dei parenti con inconsueta forza, con una tenacia che si prolunga fino a contagiare la debole fede del marito: «Succede qualcosa di speciale, proprio mentre i vicini si aspettavano da lui che tenesse ben salda la ragione della sua tradizione: Zaccaria chiede una tavoletta. E su di essa scrive il nome di Giovanni! In quel preciso istante gli si scioglie la lingua e riprende a parlare: il primo segno tangibile del “dono di Dio” per Zaccaria! Dono di Dio e dono di sua moglie Elisabetta»10.
Nasce da questo incontro una comunità stupita, capace di far echeggiare la novità di Dio tra le colline di Galilea, tra le case, tra la gente comune. Una fede che parla e intercetta le istanze del cuore. Una fede che si fa storia, attraversa le generazioni e assume volti concreti di uomini e donne che si lasciano stupire da Dio. Fino ai nostri giorni.

Madeleine Delbrêl, l’amore nel quotidiano
Madeleine Delbrêl (1904-1964) è una figura di donna che continua ad attrarre numerose vocazioni, giovani donne che, come lei, desiderano non avere segni distintivi se non l’amore con cui stanno nel quotidiano.
Madeleine poeta, mistica, assistente sociale, profeta… Donna, donna credente che ha scelto di lasciarsi evangelizzare da quell’Evangelo che le bruciava il cuore. Nella propria conoscenza della realtà, con sguardo arguto e con un sorriso di autoironia che le consentiva una profonda interiore libertà, sapeva additare l’apporto specifico della donna alla tenerezza dell’evangelizzazione: «[…] Non inganniamoci, gli uomini da soli, anche impegnati nel più denso spessore del mondo, anche intimamente identificati con i loro fratelli, il più spesso non saranno capaci di fornire altro sulla vita che delle informazioni che assomigliano molto a degli schemi o a dei disegni in scala. Noi “donne”, immerse in una porzione di mondo, se desideriamo che sia ben conosciuta per essere evangelizzata, senza teoria e senza tattica, sapremo attirare verso di essa gli occhi della Chiesa e vivificare, in natura e in grazia, gli schemi che gli uomini avranno fornito e senza i quali noi stesse non forniremmo che degli abbozzi indecifrabili. […] La Navicella della Chiesa non ha finito il suo viaggio. Agli uomini il ponte, lo scafo, gli alberi…, ma per le vele, non c’è modo di fare a meno di noi. Senza contare che essi hanno sempre voglia di motori e che il vento dello Spirito Santo non ha mai saputo servirsene»11.
«Per le vele non c’è modo di fare a meno di noi…»: una saggezza sapienziale, tutta femminile, che sa accondiscendere allo Spirito che soffia dove vuole, senza abbandonare la necessità di schemi «senza i quali noi stesse non forniremmo che abbozzi indecifrabili». Madeleine intuisce la necessità di uno sguardo a due occhi – maschile e femminile – perché solo così si può vedere la profondità dell’esperienza. E ancora, in uno scritto del 1943, nel cuore della guerra e nonostante i suoi drammi, aveva la lucidità di intuire l’azione dello Spirito. Così si esprime in Missionari senza battello:
«L’“Eterno Missionario” che è lo Spirito Santo si fa strada in mezzo a noi […] e spira nei cuori la speranza di una salvezza universale. Lasciamoci ammaestrare da lui. Impariamo che il Signore viene in noi come su un sentiero che lo conduce ad altri. Impariamo che ricevere il Signore in verità, significa trasmetterlo. […] Se vi sono dei missionari nella Chiesa, è lei stessa una Chiesa missionaria e noi siamo i figli di questa Chiesa. Signore, ciascuno di noi è una delle tue frontiere. In ciascuno di noi deve avvenire la tua crescita e non altrove. Ciascuno di noi è la sabbia che la tua sorgente deve attraversare per andare più lontano; il bosco incendiato che il tuo fuoco deve attraversare per raggiungere un altro bosco; la finestra attraverso la quale la tua luce entra nella casa»12.
Nei volti di queste donne, come in quello di tanti fratelli e sorelle che incontriamo nella nostra quotidianità, i tratti di quell’umanesimo sognato per la nostra Chiesa. Lo spessore di una vita che sa sorridere, perché crede nel Sorriso di Dio, ne rivela la presenza:

«E poiché i tuoi occhi si svegliano nei nostri,
il tuo cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore
aprirsi in noi come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi»13.

 

NOTE

1 m. Treuffelli, Credenti inquieti. Laici associati nella Chiesa dell’Evangelii Gaudium, Ave, Roma 2016, pp. 20-21.
2 Ivi, p. 28.
3 G. Campanini, Senza preti? Nuove vie per l’evangelizzazione, San Paolo, Milano 2016.
4 Ivi, pp. 21. 28.
5 Campanini auspica che la Chiesa italiana sappia dotarsi di nuove e valide figure ministeriali ed esemplifica: animatore di comunità, catechista, animatore della carità, ministro dell’ascolto.
6 Cf Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Scrutate. Ai consacrati e alle consacrate in cammino sui segni di Dio, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2014, p. 8.
7 R. Virgili, Il No di Elisabetta, in «Osservatore Romano», 2 maggio 2016. Le riflessioni che seguono si rifanno inoltre alla traduzione e al commento di Luca pubblicati in I Vangeli. Tradotti e commentati da quattro bibliste, Ancora, Milano 2015.
8 R. Virgili, Il No di Elisabetta, in «L’Osservatore Romano», 2 maggio 2016.
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 m. Delbrêl, La femme et l’Église, in La femme, le prêtre et Dieu. Au coeur du mystère intime de l’Église, Nouvelle Cité, Bruyères-le-Châtel 2011, pp. 109-111.
12 Id., Missionari senza battello. Le radici della missione, Messaggero, Padova 2004, pp. 28-29.33.
13 Id., Il piccolo monaco, Gribaudi, Torino 1990, p. 83.