N.02
Marzo/Aprile 2017

Chiesa e vocazione: il tempo della profezie, della missione e della speranza

Permettetemi di cominciare con una sorta di parabola. Qualche mese fa mi sono ritrovato fra le mani un libricino – una vera e raffinata perla – sulla filosofia del viaggio (argomento assai utile per un pastore!) e con un titolo piuttosto curioso: La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti1. Ne è autore un geografo italiano.
Ricordiamo tutti il personaggio del geografo ne Il Piccolo principe di Saint-Exupéry. È un saggio, totalmente sedentario, che rimane in attesa delle testimonianze che gli portano gli esploratori per poter disegnare le carte dei territori. Sono gli esploratori che valicano fiumi, montagne, oceani e deserti, e i loro racconti servono a lui per immaginare il mondo. Lui è un geografo, non un esploratore. Per questo, quando il piccolo principe gli chiede alcune informazioni concrete sul suo pianeta, non sa dire nulla. Ora, il caso di Franco Michieli, che è geografo ma anche esploratore, è molto diverso. I suoi libri sono narrazioni in prima persona e costituiscono inediti esercizi di cammino e di riflessione sulle esperienze che egli stesso ha vissuto.

Il nostro tempo si caratterizza per una onnipresente tecnologia di mappatura e di comunicazione, alla quale noi tutti ricorriamo per i piccoli e grandi spostamenti quotidiani. Sembra che, senza, non sappiamo più vivere, né viaggiare, né pensare. Oggi uno smartphone connesso a internet fornisce informazioni più dettagliate di un atlante; con il GPS ci sentiamo confortevolmente guidati per territori complessi e sconosciuti; e dello stesso modo ci affidiamo completamente agli itinerari che ci vengono proposti da “Google Maps”. Si direbbe che il mondo abbia smesso di avere necessità di esploratori!Proprio di questo parlava Papa Francesco nell’omelia del primo gennaio 2017, ricordandoci che «non siamo… terminali recettori di informazione»2. Cioè, non possiamo diventare sedentari dal punto di vista spirituale ed esistenziale dimenticando la nostra vocazione di esploratori!

È vero che non possiamo essere dicotomici al punto di rifiutarci di vedere nell’attrezzatura tecnologica che abbiamo oggi a nostra disposizione anche un importante sussidio per le funzionalità della vita. Allo stesso tempo, non possiamo essere così ingenui da non percepire le mutazioni che, da questa esplosione tecnologica, vengono accelerate. A proposito del telefonino, per esempio, il filosofo Maurizio Ferraris3 parla addirittura di una nuova ontologia! E non lo fa per scherzare, dal momento che la telefonia mobile effettivamente modifica il comportamento umano. Immaginiamo che una persona ci chiami al telefono fisso e ci chieda: «Dove sei?». La risposta sarebbe stupita e scontata: «Dove vuoi che sia? Sono lì, dove mi chiami». Con il telefonino è tutta un’altra storia: si incomincia proprio chiedendo: «Dove sei?», visto che l’interlocutore può essere dappertutto. A questo punto, chiedersi che tipo di oggetto è il telefonino diventa interessante.
La verità è che siamo assediati da un eccesso di tecnologia (e penso alla tecnologia in senso materiale e immateriale: le idee fatte, la cultura dominante, le abitudini, le mode…). Dobbiamo domandarci fino a che punto questo diventa un ostacolo ad una esperienza originale, radicata nella profondità, disponibile per il dono che compromette l’intera vita? Alle volte sembra che ci troviamo ad una crescente distanza da noi stessi e di conseguenza anche da Dio e dagli altri. Ci affidiamo senza un vero senso critico alle tecnologie varie e smettiamo di affidarci ai nostri occhi, al nostro tatto, al nostro udito. Ci allontaniamo così dall’esperienza. Diminuiscono le nostre competenze per il rapporto, per la vita condivisa, per le pratiche collaborative e comunitarie. Abbandoniamo velocemente la cultura dell’incontro. E, come dice Papa Francesco nella stessa omelia, diventiamo catturati per la «orfanezza autoreferenziale», per una pericolosa «orfanezza spirituale», «dal momento che nessuno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno, (…) facendo perdere la capacità della tenerezza e dello stupore, della pietà e della compassione». Questa sembra la fatalità del nostro presente.

La proposta di Franco Michieli va salutarmente in senso contrario. Per questo introduce un’espressione che può suonare strana, ma molto ricca di suggerimenti. Lui parla della vocazione di perdersi. Con questa espressione ci raccomanda di rinunciare a carte, bussole e GPS per consegnarci, disarmati, all’avventura del cammino, senza altri strumenti di navigazione se non l’osservazione del sole e delle stelle, l’attenzione alla configurazione del territorio e alle sue linee, e soprattutto il radicale affidarsi del viaggiatore al viaggio, lasciando che sia il cammino a rivelarsi e a guidare i suoi passi lungo il percorso.
Si tratta di un elogio della esperienza, di un ritorno alla necessità intramontabile dell’esperienza. Senza di lei perdiamo di vista la vita nella sua sorprendente originalità, nella sua capacità di esprimere la grande chiamata dell’assoluto. La vita diventa autoreferenziale, piccola, piena di contraffazioni e svuotata di senso e di amore.
Ma c’è speranza! Nella grammatica degli esploratori, come spiega Michieli, non sono i viaggiatori che vanno in cerca delle strade, ma le strade che non cessano di venire, sempre e di nuovo, incontro ai viaggiatori. È l’inversione del paradigma culturale dominante. Ed è, ci permettiamo di dirlo, la visione evangelica.
Molti, forse, si domanderanno cosa venga a fare un alpinista in un’assemblea come la nostra. Un geografo-esploratore che cosa potrà mai insegnare a un’assemblea di religiosi, formatori e teologi che si occupano del tema delle vocazioni nella Chiesa? Io penso che una testimonianza del genere abbia qualcosa da dirci, in primo luogo, per la sua stessa storia. È un geografo che non rimane chiuso in una scienza astratta. In effetti, la competenza per interpretare e orientare la realtà è molto importante, purché la realtà esista. Michieli è un geografo-esploratore. Ossia non mette tra parentesi l’esperienza, la relazione con il concreto, il contatto con il reale, la profondità del viaggio praticato. Domandiamoci allora se noi (religiosi, formatori e teologi) non sembriamo, in certi momenti, dei produttori di guide di viaggio per luoghi che non abbiamo visitato.
Ricordiamo l’episodio inaugurale della vocazione di Mosè nel deserto: «Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”» (Es 3,1-4).
Prestiamo attenzione al verbo che Mosè utilizza: «Voglio avvicinarmi». Cioè, mi addentrerò il più possibile, entrerò dentro, come se mi immergessi in ciò che mi sta di fronte. Quando si lasciò soddisfare dalle visioni parziali, distanti e nebulose, quando con tutte le sue forze desiderò una chiara certezza per le domande del suo cuore, il libro dell’Esodo ci dice che «il Signore lo vide… e lo chiamò». Il Signore è pronto a chiamarci. Addentriamoci. Abbandoniamo una spiritualità vaga, in cui siamo spettatori dispersi. Cerchiamo Colui che conferma, Colui che dà consistenza al nostro desiderio.
Apprendiamo anche dal racconto della vocazione del profeta Samuele: «Il giovane Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli.
La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. E quel giorno avvenne che Eli stava dormendo al suo posto, i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere. La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”, poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!”; Samuele si alzò e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quello rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”. In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: ‘Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta’”. Samuele andò a dormire al suo posto. Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”».
«La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti». Sembra un sommario realista della nostra esperienza: anche il nostro quotidiano si fa rarefatto, frammentario e assente in relazione alla manifestazione di Dio. Però, sottolineiamo la frase straordinaria dell’autore sacro: «La lampada di Dio non era ancora spenta». Dio è fedele alla Persona umana e alla storia. Anche in situazioni ed età agitate da venti e turbolenze, la nostra fiducia risiede in questo: «La lampada di Dio non era ancora spenta». Ci dice il testo che Samuele non conosceva ancora il Signore: e noi, lo conosciamo? Samuele si sente chiamato, ma reagisce in modo equivoco, credendo che sia Eli che lo sta interpellando.
Finché è aiutato a rivolgersi verso il Signore e ad affermare: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta». Il Signore non smette mai di comunicare con noi, ma è necessaria una pedagogia spirituale che ci aiuti a far tornare a Lui i nostri sensi interiori. «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta»: non è questa l’unica via vera e feconda di una pastorale vocazionale per tutta la Chiesa?
Sottolineo tre affermazioni di Franco Michieli che possono forse dialogare con i tre tempi che costituiscono il titolo di questa conferenza: profezia, missione e speranza. Le rammento velocemente:

  1. i momenti in cui non si conosce il cammino sono i più interessanti;
  2. quando ci rapportiamo con l’ignoto, esso si rivela;
  3. non sono i viaggiatori che trovano le strade, ma il contrario: le strade trovano i viaggiatori.

1. Il tempo della profezia
Guardiamo al primo tempo, quello della profezia, con l’affermazione che gli corrisponde: «I momenti in cui non si conosce il cammino sono i più interessanti». Noi siamo abituati a considerare la profezia solo da un punto di vista positivo. È profetico ciò che si afferma in un modo nuovo; sono profetici il germoglio e il seme che recano la promessa di una rivitalizzazione; è profetico ciò che instaura immediatamente la speranza; è profetico ciò che inverte la statistica della diminuzione; è profetico ciò che indica una soluzione al nostro problema. Ma sappiamo che, a fianco di una teologia catafatica, esiste la teologia negativa, o apofatica, quella consapevole che anche il silenzio di Dio può essere parola di Dio. «I momenti in cui non si conosce il cammino sono i più interessanti». Non sarà che questa stagione storica che stiamo vivendo – in cui la parola “crisi” è diventata quasi banale per quanto spesso è ripetuta; in cui gli indicatori nel campo vocazionale sembrano non riuscire a corrispondere al quadro delle necessità; in cui tanti guardano con timore al futuro perché hanno capito che la forma delle diverse realtà religiose ed ecclesiali non potrà più rimanere con la stessa configurazione; in cui tanti amerebbero una soluzione rapida per tante interrogazioni che emergono, ma non ne vedono la via –, non sarà che questa stagione è alla fine un kairós, un’occasione anche di grazia, un tempo che ci sta parlando profeticamente? È certamente un momento critico, disseminato da tanti spasmi di dolore, ma non staremo assistendo, senza rendercene conto, a un parto? La profezia non può essere ridotta a un impulso di soddisfazione immediata. La vera profezia è molto spesso segnalata da una carenza, da una insoddisfazione che diviene principio dinamico, purificatore e proiettivo. La profezia ci chiama ad approfondirla continuamente.
Un esempio clamoroso ce lo dà il profeta Geremia. L’esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e il profeta Geremia era rinchiuso nel cortile della prigione che era nella casa del re di Giuda. E la parola dell’Eterno gli fu rivolta in questi termini: «Ecco, Canameel, figlio di Sallum, tuo zio, viene da te per dirti: “Còmprati il mio campo che è ad Anatot, poiché tu hai il diritto di riscatto per comprarlo”» (Ger 32,7). Il profeta non riesce a cogliere il senso di questa parola e dell’evento associato. Però, con fiducia, avanza nel senso di quello che avrà udito di Dio. E nella preghiera spiegherà la sua perplessità: «Ecco, le opere d’assedio giungono fino alla città per prenderla; la città, vinta dalla spada, dalla fame e dalla peste, è data in mano dei Caldei che combattono contro di lei. Quello che tu hai detto è avvenuto, ed ecco, tu lo vedi. Eppure, Signore, DIO, tu mi hai detto: “Còmprati con denaro il campo, e chiama dei testimoni”, ma la città è data in mano dei Caldei» (Ger 32,24-25). Non è questo tempo di crocevia epocale ed incertezza, in cui ci sentiamo assediati, proprio il tempo per acquistare un campo novo? «I momenti in cui non si conosce il cammino sono i più interessanti».

2. Il tempo della missione
Nella suggestiva immagine di Franco Michieli si disegna una sorta di processo in tre tappe per parlare dell’esperienza del viaggio: rischiare la relazione, abbracciare lo sconosciuto, lasciare che la rivelazione avvenga. Credo siano parole chiave anche per pensare la missione. Prima di tutto viene la relazione. Non dimentico che la filosofa Simone Weil suggeriva che la traduzione del versetto iniziale del prologo di Giovanni – «In principio era il logos» – dovesse essere: «In principio era la relazione». La missione non è una realtà astratta, gestita a distanza o compresa teoricamente. La missione, come insegna Gesù, come non cessa di ricordarci Papa Francesco, è accettare il rischio della relazione. E non possiamo restare in attesa di garanzie, o di sapere tutto in anticipo. È vero che si ama solo quel che si conosce. Ma la nostra conoscenza non può pretendere di fissare per sempre l’altro in una determinata immagine. Amare è anche abbracciare lo sconosciuto, cioè la possibilità, quello che è ancora aperto, quella irriducibile libertà che rende ciascuno unico e ogni momento della storia un’opportunità per la Grazia. È sintomatico il fatto che Gesù non fornisca ai discepoli molte indicazioni sulla missione. Si limita a dire loro: «Andate… Non portate borsa, né sacca, né sandali… In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”… Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno… Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”» (Lc 10,3-9).
I discepoli non portano né borsa né bisaccia: non vivono né della loro autosufficienza né di elemosine. I predicatori cinici dell’epoca di Gesù andavano mendicando il proprio nutrimento. E, nella tradizione giudaica, erano note altre forme per ottenere una giusta remunerazione per l’attività missionaria. I discepoli di Gesù, dal canto loro, condividono un annuncio e ricevono una comunità, che è rappresentata dalla tavola e dalla casa. Entrano in contatto diretto con la realtà. Si pongono a fianco degli uomini. Hanno fiducia. Entrano nelle loro case e nelle loro vite. Camminano con loro. La tavola, per esempio, è una sorta di frontiera simbolica: ci pone radicalmente dinanzi all’altro, davanti all’ignoto dell’altro che si apre. L’elemosina molte volte è l’ultimo grande rifugio della coscienza davanti alla paura e al disturbo che la commensalità rappresenta. La tavola avvicina, espone, genera reciprocità. Per questo il viaggio missionario di quei primi discepoli rappresenta la più lunga traversata del mondo greco-romano, o forse di qualsiasi mondo: il passaggio dalla soglia della porta all’ignoto della tavola.
Le regole della purità e i codici d’onore, vitali nella strutturazione delle società mediterranee del primo secolo, saranno scossi dallo sviluppo delle comunità cristiane, che assorbono, in una pratica fraterna, genti e costumi dalle più svariate provenienze. Il cristianesimo è nato e si è affermato contrastando la paura dello sconosciuto. Tentando con lui una relazione, che solo può essere una relazione di amore, di tempo condiviso, di compagnia. Nella parabola del buon samaritano (che dobbiamo leggere pure in chiave vocazionale, perché è la chiamata che Dio ci fa nel fratello più povero e bisognoso), non possiamo dimenticare che il samaritano trascorre tutta la notte accanto all’uomo ferito e «si prese cura di lui» (Lc 10,34). Solo il giorno seguente tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi adesso tu cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno» (Lc 10,35). La notte del samaritano è icona della vita intera di un pastore che insegua lo stile di Gesù. La vocazione alla missione, secondo il modo di Gesù e seguendo i suoi passi, altro non è se non una vocazione di perdersi. In questa linea si pone la richiesta di Papa Francesco ripetuta ai pastori. «Questo io vi chiedo: siate pastori con l’“odore delle pecore”, che si senta quello»4. L’odore sollecita un contatto “fusionale”, un contatto al tempo stesso immediato e profondo. Un odore, per esempio, è molto diverso da un’immagine: nell’immagine, la relazione tra soggetto e oggetto è dell’ordine della rappresentazione, mentre la percezione olfattiva ci si incolla addosso, è puro impregnarsi. L’immagine parla di un oggetto che è fuori da noi, ma quando l’olfatto segnala un profumo è perché lo abbiamo già addosso. In alcuni testi profetici troviamo una variazione significativa. Nel libro del profeta Ezechiele, parlando del popolo che dovrà tornare dall’esilio, «così dice Dio: Io vi accetterò come soave profumo» (Ez 20,41). Qui, chiaramente, il soave profumo è quello del popolo stesso. A Dio non basta l’odore delle nostre greggi o quello della rugiada sui nostri campi. Gradito a Dio è l’odore del suo popolo, quel segnale di presenza, quella biografia scritta in modo tanto intenso senza neanche una parola.
Più tardi, nel Nuovo Testamento, per l’esattezza nelle parole di Paolo, viene detta la stessa cosa, ma con una veemenza e con un ampliamento semantico che danno molto da pensare. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo scrive: «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» (2Cor 2,15). Così come Ezechiele, Paolo fa dell’odore una metafora della vita. Noi siamo odore, l’odore è la nostra vita, è il dono ricevuto da Dio. Ma dice qualcosa che il profeta non poteva indovinare, infatti se siamo «dinanzi a Dio il profumo di Cristo», allora è Cristo in noi a permettere l’oblazione, ad assicurare l’offerta, a fare della nostra vita un dono. Ciò che deve entrare nelle nostre narici è questa buona novella: siamo di Cristo. È attraverso Cristo, con Cristo e in Cristo (la formula tanto cara alla teologia di Paolo) che siamo quel profumo che sale fino a Dio (2Cor 2,14).

3. Il tempo della speranza
Quando cerco qualche immagine per definire la speranza, mi viene spesso in mente quella che in architettura è chiamata “copertura”, o “punto di vista di Dio”. Una casa, per esempio, ha quattro pareti perimetrali che riusciamo a vedere bene e a tenere sotto controllo, ma la quinta, cioè il tetto, ci sfugge. La quinta parete è quella parte di realtà che è presente eppure non vediamo: solo Dio la vede. Per questo gli architetti la chiamano “il punto di vista di Dio”. Che cosa potrebbe dunque essere la speranza? La speranza sarebbe, in sintesi, la possibilità presente di contemplare il mondo con gli occhi di Dio. San Paolo ricorda che «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12). Questa è la promessa. Dobbiamo adottare il “punto di vista di Dio”.
In un romanzo di Karen Blixen che amo molto, La mia Africa, c’è la descrizione di un viaggio in aereo che evidenzia il punto di vista di Dio (cioè il sentimento estasiato di Dio per l’uomo e per il mondo). Vedere con gli occhi di Dio è apprendere a guardare con amore. Nel romanzo di Karen Blixen si dice, in una pura estasi: «All’improvviso, appare il lago. Visto dall’alto, il fondo bianco scintillante, attraverso l’acqua, crea una tinta azzurra incredibile, irreale, di una luce accecante… Al nostro avvicinarsi [migliaia di fenicotteri] si sparpagliarono, in grandi cerchi o a ventaglio, come raggi del sole al tramonto». Ora domando: che cos’è che noi siamo soliti raccontare? Quale punto di vista adottiamo per osservare la realtà? Che cosa vediamo, quando guardiamo?
Michelangelo diceva che le sue sculture non nascevano da un processo di invenzione, ma di liberazione. Osservava la pietra grezza, totalmente informe, e riusciva a vedere ciò che sarebbe diventata. Per questo, quando descrive il suo mestiere, lo scultore spiega: «Io non faccio altro che liberare». Sono persuaso che le grandi opere di creazione (come quel momento in cui una donna o un uomo si trovano posti di fronte alla questione della propria voca zione) nascano da un processo simile, per il quale non so trovare espressione migliore della seguente: esercizio di speranza. Senza speranza notiamo solo la pietra, il suo aspetto grezzo, un ostacolo faticoso e insormontabile. È la speranza che apre uno spiraglio, che fa vedere, al di là delle dure condizioni attuali, le ricchezze di possibilità che vi sono nascoste. Solo la speranza è capace di dialogare con il futuro e di renderlo vicino. La nostra esistenza, dal principio alla fine, è il risultato di una professione di speranza. E il tempo della speranza ci fa comprendere quello che il geografo-esploratore diceva: non è il viaggiatore che sceglie la strada; egli, piuttosto, si scopre prescelto e chiamato. È forse questo l’annuncio più urgente e necessario. Forse il problema delle vocazioni nella Chiesa ci chiede di riscoprire la vocazione dell’uomo e di potenziare tale annuncio.
L’uomo ha bisogno di scoprire la sua vocazione divina, ha bisogno di vedersi amato e chiamato. Il nostro tempo assomiglia troppo al commento degli ultimi braccianti messi a contratto nella parabola dei lavoratori della vigna. Quando viene loro domandato perché se ne stiano inutilmente in quel luogo, senza dare un senso al tempo della loro vita, essi rispondono: «Perché nessuno ci ha presi a giornata» (Mt 20,7). La traduzione della Vulgata va ancora più a fondo:
«Quia nemo nos conduxit» («Perché nessuno ci ha guidato»). C’è, nel cuore umano, carenza di Dio e di assoluto. Quando la speranza non ci fa sentire il suo tocco, pare che nessuno ci guidi. Consentitemi di citare una poesia di una grande scrittrice portoghese, Sophia de Mello Breyner Andresen:

Ascolto ma non so
Se ciò che sento è silenzio
O Dio
Ascolto senza sapere se sto sentendo
Il risuonare delle pianure del vuoto
O la coscienza attenta
Che nei confini dell’universo
Mi decifra e fissa

So appena che cammino come chi
È guardato amato e conosciuto
E per questo in ogni gesto metto
Solennità e rischio.

Nello sguardo di Gesù troviamo quello amorevole di Dio, che va alla ricerca dell’uomo nel luoghi più impensati per trasformare il suo cuore. Quando Zaccheo sale sul sicomoro, spinto da una curiosità che avrebbe potuto fermarsi lì, Gesù si avvicina e dice, fra lo stupore generale: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).
Sarà passato per la mente di Zaccheo che quel predicatore sarebbe andato a cercarlo, di propria iniziativa, per farsi ospitare da lui? È la sorpresa di Dio. E quando Zaccheo si sente osservato in quel modo, la sua vita si trasforma. In piedi, annuncia: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8).

So appena che cammino come chi
È guardato amato e conosciuto
E per questo in ogni gesto metto
Solennità e rischio.

Il dialogo che avviene vicino al pozzo, nel Vangelo di Giovanni, comincia quasi con una successione di malintesi. Il primo: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (Gv 4,9). E poi: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva?» (Gv 4,11). La svolta si verifica quando la donna capisce, attraverso l’esempio della sua stessa vita, che Gesù non si lascia ingannare dagli equivoci superficiali, ma guarda in profondità. Quella donna inizialmente riluttante va al villaggio a dire: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4,29). Cristo è il terapeuta dello sguardo. Tende per noi il ponte che ci fa passare dal vedere chiuso al contemplare fiducioso e dal semplice sguardo alla visione della speranza.
Domandiamo di nuovo: cosa venga a fare un geografo-esploratore in un’assemblea come la nostra? Che cosa potrà mai insegnare sul tema delle vocazioni nella Chiesa? La nozione più esatta di viaggiatore la devo a Jacques Lacarrière, che lo descrive così: «Il vero viaggiatore è colui che, in ogni nuovo posto, ricomincia l’avventura della propria nascita». Credo fermamente che, nel viaggio, sia in gioco proprio questo tentativo, più cosciente o più implicito, di ricostruzione di se stessi. Le frontiere esteriori ci rimandano in modo persistente a una frontiera interiore. La geografia tende inevitabilmente a farsi metaforica, e chiunque cammini sulla terra, a un certo punto si renderà conto, con dolore e con speranza, che sta camminando soprattutto dentro di sé. Si ricredano, infatti, quanti pensano che i viaggi siano soltanto esteriori. Quella che gli occhi percorrono non è solo la cartografia del paesaggio. Spostarsi, che lo si voglia o no, implica un cambio di posizione; un’alterazione della prospettiva abituale; una maturazione del proprio sguardo; un riconoscimento del fatto che ci manca qualcosa; un adattamento a realtà, tempi e linguaggi, o la scoperta dell’incapacità di farlo; un inevitabile confronto; un dialogo faticoso o affascinante che ci assegna, necessariamente, un nuovo compito. L’esperienza del viaggio è l’esperienza della frontiera e dell’aperto, di cui in ogni tempo, abbiamo bisogno. Il camino emerge come dispositivo ermeneutico fondamentale.

 

NOTE
1 F. Michieli, La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandante, Ediciclo, Portogruaro (VE) 2015.
2 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2017/documents/papafrancesco_20170101_omelia-giornata-mondiale-pace.htmL 
3 M. Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2011.
4 http://www.vicariatusurbis.org/?p=2213